Non è semplice dare una definizione di web3, la (potenziale) terza incarnazione della rete basata su blockchain e criptovalute. La cosa migliore è forse andare con ordine, partendo dalle due precedenti versioni di internet. In sintesi estrema, il web 1.0 (che si è diffuso nella seconda metà degli anni Novanta) era costituito soprattutto dalle pagine dei primi quotidiani online, dai siti aziendali e da quelli amatoriali.

L’unica cosa che l’utente comune poteva fare, semplificando, era leggere i contenuti presenti in rete. Nei primi Duemila si è diffuso invece il web 2.0: è quello dei forum, dei blog, di Wikipedia e che raggiunge il suo apice con i social network.

Oltre a leggere, con questa versione della rete chiunque può partecipare attivamente: scrivendo e condividendo contenuti di ogni tipo.

Nel web3 (il “punto zero” è nel frattempo diventato démodé) oltre a leggere e scrivere è possibile, sfruttando la blockchain e le criptovalute, acquistare delle quote delle piattaforme che utilizziamo, partecipando attivamente alla gestione di esse ed entrando a far parte di un ecosistema digitale che consente agli utenti di guadagnare dalla loro attività online.

La più nota delle piattaforme definibili come “web3” è probabilmente Decentraland: un ambiente digitale e immersivo (che ricorda il vecchio Second Life) collegato a una sua specifica criptovaluta, tramite la quale chiunque può comprare, vendere (o affittare) beni digitali, partecipare a eventi, giocare d’azzardo e altro ancora.

Non solo: chi possiede questa criptovalute (nome in codice: MANA) ha voce in capitolo sulla gestione della piattaforma, per esempio su quali comportamenti mettere al bando o quali aree destinare a un determinato uso.

Maggiore è il numero di MANA che si possiede, maggiore è il potere decisionale. Infine, c’è l’aspetto speculativo: al crescere del successo della piattaforma, cresce inevitabilmente anche la richiesta della criptovaluta collegata, che di conseguenza aumenta di valore e permette di guadagnare (o perdere) dalla sua compravendita.

Un altro esempio di “piattaforma web3” è Filecoin, una sorta di Dropbox della blockchain (ancora a livello embrionale) che permette a tutti di salvare contenuti nel cloud. Invece di affidarsi a un’azienda privata per salvare le proprie fotografie e documenti, si può sfruttare la memoria libera delle migliaia di computer collegati alla blockchain di questa piattaforma.

Chi affitta lo spazio presente sull’hard disk del proprio computer tramite Filecoin ottiene in cambio una quantità proporzionale della criptovaluta collegata, chiamata Fil.

C’è poi il caso di Axie Infinity, che permette di collezionare, allevare, addestrare e far combattere dei mostriciattoli in stile Pokémon. Per possedere questi “axies” bisogna acquistarli tramite monete digitali, così com’è necessario comprare accessori o poteri per renderli più forti.

Axie Infinity è però anche una forma di investimento: chi vince le battaglie vince infatti anche premi in apposite criptovalute. In questo e in altri giochi simili è inoltre possibile rivendere i propri personaggi, affittarli ad altri giocatori che non hanno il capitale iniziale necessario (conquistando una percentuale dei loro premi) e altro ancora.

Da un certo punto di vista, il web3 si può quindi definire una sorta di “rebranding” del mondo legato alla blockchain e alle criptovalute: una nuova etichetta sotto la quale racchiudere piattaforme molto diverse tra loro.

Per alcuni critici, tra cui il seguitissimo blogger e programmatore Stephen Diehl, l’intero progetto del web3 non sarebbe in realtà nient’altro che questo: un’operazione marketing che ha il solo scopo di creare ulteriori aspettative – e attirare investimenti – attorno a una tecnologia, la blockchain, che nonostante abbia ormai oltre un decennio di vita continua a essere una “soluzione in cerca di problemi”.

Peggio ancora, dietro alle grandi promesse di decentralizzazione e partecipazione si nasconderebbe un far west speculativo piagato da innumerevoli truffe, catene di Sant’Antonio e progetti che crollano da un momento all’altro – com’è stato il recentissimo caso di Terra, piattaforma da 60 miliardi di dollari complessivi il cui valore è improvvisamente andato in fumo – lasciando gli investitori più sprovveduti con il cerino in mano.

I sostenitori del web3 – tra cui vale la pena di menzionare almeno Vitalik Buterin, fondatore di Ethereum (seconda piattaforma blockchain per diffusione) e figura estremamente rispettata nel settore – prefigurano invece un ecosistema digitale in cui il potere economico e decisionale viene sottratto ai pochi colossi della Silicon Valley che oggi lo dominano e restituito agli utenti, ridando vita alla internet decentralizzata e aperta delle origini. È possibile che l’utopia immaginata dai cripto-entusiasti si trasformi in realtà. Ma è anche possibile che il web3 non si riveli nient’altro che uno strumento per speculare su beni digitali di ogni tipo. “Il web3 è intrinsecamente legato al valore finanziario”, ha spiegato, Li Jin, importante investitrice del settore, parlando con Vox. “E ogni volta che introduci l’aspetto del successo finanziario, sai che verranno suscitate emozioni forti”.

Nonostante le promesse di decentralizzazione e democratizzazione, è evidente che oggi le aspettative che circondano il web3 siano principalmente legate a promesse di facili guadagni. Che a volte possono trasformarsi in perdite disastrose: il mercato degli NFT è sceso anche del 95 per cento rispetto ai massimi dell’ottobre scorso, la capitalizzazione complessiva delle criptovalute è passata da 2.800 a 1.200 miliardi di dollari nello stesso lasso di tempo, il valore di MANA (la già citata moneta legata a Decentraland) è passato da oltre 5 dollari a meno di uno e anche il denaro totale investito nella finanza decentralizzata basata su blockchain è più che dimezzato.

In poche parole, la bolla speculativa che aveva lanciato la frenesia del web3 è scoppiata. Come già visto con il crollo delle dot-com del 2000, questo non significa però che l’intero ecosistema sia destinato a svanire nel nulla o non abbia potenzialità concrete.

A mostrare una costante fiducia nei confronti del web3, per esempio, è la principale società di venture capital del mondo tecnologico, Andreessen-Horowitz, che ha appena raccolto 4,5 miliardi di dollari da investire in startup del settore. Nel complesso, si calcola che nel corso del 2021 siano stati investiti quasi 30 miliardi di dollari in progetti legati al web3.

A questo punto, però, c’è un paradosso che salta all’occhio: se questa nuova versione della rete deve restituire il potere (anche economico) agli utenti, come si inseriscono in questa ambizione le decine di miliardi versati dai più grandi hedge fund del mondo?

È la stessa polemica che ha sollevato Jack Dorsey, fondatore di Twitter e grande sostenitore della decentralizzazione, che ha sottolineato come sia impossibile per gli utenti “possedere” il web3, visto che tutte le piattaforme di questo ecosistema sono finanziate dai soliti venture capitalist, che inevitabilmente manterranno il controllo sulla loro gestione.

Non è l’unico paradosso: oggi la principale piattaforma di compravendita di NFT è OpenSea, il più diffuso portafoglio digitale in cui conservare i beni digitali è MetaMask e la più grande società di compravendita di criptovalute è Coinbase: tutti grandi realtà centralizzate e che svolgono un (necessario, vista la difficoltà di interfacciarsi direttamente con la blockchain) ruolo da intermediari in un ambiente che dovrebbe essere decentralizzato e privo di intermediari.

Di tutta la visione romantica e ideologica del web3, alla fine rischia di restare soltanto l’aspetto speculativo, che attraverso questa tecnologia potrebbe penetrare ogni ambito della nostra vita.

Come ha scritto sempre Stephen Diehl, il web3 è “l’apoteosi di un capitalismo in cui il mercato fornisce un token finanziario per ogni meme, ogni pezzetto di arte e cultura, ogni movimento politico e ogni celebrità. È l’iperfinanziarizzazione di tutta l’esistenza umana. È davvero questo il mondo in cui vogliamo vivere?”.

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