Dopo dieci anni di dominio incontrastato, nel 2022 la quota detenuta da Alphabet e da Meta nel mercato statunitense della pubblicità digitale è scesa per la prima volta sotto il 50 per cento, fermandosi al 48,4 (rispettivamente con il 29 e il 19 per cento). È un cambiamento epocale per due realtà che – attraverso il motore di ricerca di Google da una parte e i social network Facebook e Instagram dall’altra – avevano dato vita a un duopolio, lasciando ai concorrenti solo le briciole di un mercato che, nel 2022, ha superato i 240 miliardi di dollari.

Non si tratta di un evento isolato. Al contrario: la percentuale detenuta dai due colossi della Silicon Valley (che dalla pubblicità digitale ricavano tra l’80 e il 90 per cento del loro fatturato) è in calo da cinque anni di fila e si prevede che continuerà a scendere, passando dal picco del 54,7 per cento del 2017 fino al 43,9 per cento previsto per il 2024.

Una situazione simile si è verificata anche a livello globale (dove il mercato vale 579 miliardi di dollari): secondo le stime di Insider Intelligence, la quota di Meta e Alphabet è infatti scesa di un punto percentuale, atterrando poco al di sotto della soglia fatidica del 50 per cento. Cos’è che sta mettendo in difficoltà i due giganti tecnologici, al punto da porre gradualmente fine a quello che sembrava un duopolio inattaccabile (e che ha infatti attirato le attenzioni dell’antitrust statunitense ed europeo)?

TikTok e Amazon

La risposta a questa domanda è duplice: da una parte, si assiste all’ascesa di temibili concorrenti che solo cinque anni fa a malapena esistevano (tra cui spicca TikTok); dall’altra, Meta e Google devono fare i conti con la crescita impetuosa di colossi che, fino a poco fa, sembravano disinteressati al settore della pubblicità digitale.

Partiamo proprio da TikTok, i cui introiti derivanti dalla pubblicità sono cresciuti del 150 per cento in un anno (passando dai 4 miliardi del 2021 ai 10 del 2022) e che nell’anno in corso dovrebbero raggiungere tra i 12 e i 15 miliardi. Cifre che sono ancora una frazione dei 113 miliardi conquistati a livello globale da Meta e dei 170 di Alphabet, ma che crescono con ritmi enormemente superiori, contribuendo alla fine del duopolio.

Un discorso simile vale anche per il gigante dell’e-commerce Amazon, che nel 2022 ha conquistato il 10 per cento del mercato della pubblicità digitale (37,7 miliardi di dollari), rispetto al misero uno per cento che possedeva soltanto sei anni fa. Un risultato impressionante per il quale Amazon deve ringraziare – se così si può dire – i venditori di terze parti, che attraverso la pubblicità sulla piattaforma di e-commerce provano a emergere in un contesto in cui la concorrenza è spietata e gli annunci sponsorizzati sono spesso l’unico modo per dare visibilità ai propri prodotti.

Sopresa Apple

A stupire è però soprattutto l’ingresso nel mondo pubblicitario della più ricca società del mondo: Apple. Nonostante la vendita di hardware (a partire ovviamente dagli iPhone) rappresenti ancora il 75 per cento dei quasi 400 miliardi di dollari di fatturato messi a segno dall’azienda di Cupertino nel 2022, il ricavato dalla pubblicità digitale sta anche in questo caso crescendo con grande rapidità: dai quattro miliardi del 2022 si dovrebbe arrivare a 7 miliardi per l’anno in corso, con la possibilità di raggiungere – secondo le stime Evercore ISI – 30 miliardi entro il 2026.

L’impatto di Apple sul mercato è però duplice. Oltre ad aver individuato nella pubblicità un importante vettore di crescita, la società guidata da Tim Cook ha da un paio d’anni introdotto nel sistema operativo degli iPhone il cosiddetto App Tracking Transparency (ATT): una funzione che impedisce alle applicazioni presenti sullo smartphone, a meno di non essere disattivato dai proprietari di iPhone, di tracciare il comportamento online degli utenti al fine di mostrare loro annunci personalizzati.

Se questo strumento non penalizza Amazon o Google (che possono fare affidamento su dati di prima mano, relativi a ciò che gli utenti cercano direttamente sulle loro piattaforme), si stima invece che sia costato a Meta qualcosa come 13 miliardi di dollari nel solo 2022, avendo limitato la capacità di Facebook e Instagram di monitorare il comportamento degli utenti e quindi di targettizzare con precisione gli annunci. Apple, così, non solo ha aumentato il suo peso nel mercato pubblicitario, ma ha anche direttamente messo i bastoni tra le ruote a uno dei principali rivali.

Se a tutto ciò si aggiungono il ruolo di giganti cinesi come Alibaba (cresciuto del 25 per cento tra il 2021 e il 2022 e arrivato a 40 miliardi di ricavi dagli annunci) e di Tencent (attorno ai 12 miliardi) e le sperimentazioni pubblicitarie di realtà come Netflix e Disney+, ecco che il quadro inizia a essere completo: nonostante un mercato in costante crescita e che dovrebbe raggiungere i 638 miliardi nel 2023 (+10 per cento), il dominio delle due realtà che storicamente hanno fagocitato questo settore comincia a traballare.

I problemi per l’editoria

Non tutti riescono però ad avvantaggiarsi di un mercato in crescita e più competitivo. È il caso dell’industria giornalistica, che ricava una quota crescente dei suoi (declinanti) profitti dalla pubblicità digitale, ma che deve accontentarsi degli avanzi lasciati dai colossi fin qui citati. Secondo le stime dell’analista Benedict Evans, la sola Amazon ricava dalla pubblicità più di quanto non faccia l’intera industria mondiale dei giornali, che nel 2023 si è fermata a 35 miliardi di dollari e che si prevede scenderà fino a 29 miliardi entro il 2027.

Il calo degli introiti derivanti dalla pubblicità sulla carta stampata non viene insomma compensato da un mercato pubblicitario digitale in costante crescita, ma che finisce quasi interamente nelle tasche di pochi colossi tecnologici. Per il mondo del giornalismo, la situazione sotto il fronte della pubblicità è complicata anche da altri fattori, tra cui il ruolo degli adblocker (gli strumenti che permettono di eliminare la pubblicità presente sul web).

Dopo una lunga fase in cui la loro espansione sembrava essersi conclusa, negli ultimi anni l’adozione di questi software ha ricominciato ad aumentare, anche in seguito alla crescente attenzione nei confronti della privacy (gli adblocker non bloccano solo la pubblicità, ma spesso anche il monitoraggio del nostro comportamento online). L’impatto sui ricavi delle testate online non può essere sottovalutato: in Italia si stima che il 32 per cento degli utenti di internet utilizzi dei software che bloccano la pubblicità, percentuale che sale al 37 per cento a livello globale.

L’impatto degli adblocker si fa inoltre sentire soprattutto sui siti che vengono visitati principalmente via browser (com’è proprio il caso delle testate online), mentre hanno un impatto ridotto su quelle piattaforme fruite principalmente (o esclusivamente) via app, com’è invece il caso dei vari TikTok, Facebook, Instagram o, in misura minore, Amazon e Google.

Considerando quanto gli annunci pubblicitari online siano invasivi, a volte fino al punto dell’intollerabilità, è difficile condannare chi decide di difendersi utilizzando un adblocker. Allo stesso tempo, la chiara volontà di una parte crescente di testate giornalistiche di individuare fonti di ricavo diverse dalla pubblicità (a partire dagli abbonamenti) fa sperare in un futuro in cui l’editoria sarà in grado di liberarsi da una dipendenza pubblicitaria da cui non ricava introiti sufficienti e che ha inoltre compromesso – a causa della ricerca incessante di click – la qualità dell’informazione mainstream.

Per il mondo dell’editoria, trovare strade diverse da quella pubblicitaria potrebbe insomma essere una scelta obbligata. Soprattutto considerando che la fine del duopolio di Meta e Google nel mercato della pubblicità digitale sembra aver favorito soltanto alcuni, già ricchissimi, colossi della Silicon Valley o di Shenzhen.

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