Fedele a quella che è da sempre la sua strategia, Amazon ha recentemente aumentato il prezzo della sottoscrizione a Prime. In Italia, il servizio che ancora nel 2016 costava soltanto dieci euro all’anno è gradualmente arrivato a quota 49 euro: un aumento del 400 per cento in soli cinque anni.

Non c’è da stupirsi: storicamente, il servizio Prime, così come le vendite dirette di Amazon, non hanno mai avuto l’obiettivo di generare guadagni, ma soltanto quello di attirare un numero esorbitante di utenti.

Secondo un report Ilsr, ancora nel 2020 il core business (apparente) di Amazon – Prime e le vendite dirette, per l’appunto – era in rosso per 19 miliardi di dollari. Perdite colossali, compensate dai guadagni del marketplace cioè le vendite su Amazon gestite da terze parti, ai quali viene trattenuta una percentuale che negli anni è sempre cresciuta, e dagli utili stratosferici del servizio cloud AWS, che fino al 2018 è stata l’unica voce in attivo di Amazon.

Evidentemente, dalle parti del colosso di Seattle devono aver pensato che – dall’alto della sua posizione ormai dominante – fosse giunto il momento di generare profitti, o almeno ridurre le perdite, anche dal servizio Prime, facendone da un anno all’altro salire il prezzo del 36 per cento.

Uber ha aumentato i prezzi del 92 per cento 

La stessa cosa, però, sta avvenendo contemporaneamente in molteplici società vagamente legate al settore tecnologico: i prezzi di Uber sono cresciuti nel 92 per cento tra il 2018 e il 2021, Deliveroo e le altre piattaforme di food delivery hanno costantemente aumentato le commissioni pagate dai ristoranti (e in alcuni casi anche i costi di servizio), mentre un aumento graduale ma costante dei prezzi si registra anche in moltissime società di monopattini in condivisione. Che cosa sta succedendo?

Come ha scritto Dara Khosrowshahi, chief executive di Uber, in una recente lettera destinata agli impiegati, «prima di ingrandirci ulteriormente dobbiamo assicurarci che la nostra economia di base funzioni». In poche parole, il decennio di corse a basso costo si è ufficialmente concluso. E con esso, tutta una fase storica in cui – seguendo la filosofia di Amazon – abbiamo a lungo usufruito di servizi a prezzi stracciati, in cui i clienti venivano di fatto sovvenzionati per utilizzarli allo scopo di mostrare agli azionisti una forte crescita negli utenti.

Elencando una serie di servizi che ormai fanno parte della quotidianità del classico professionista urbano (food delivery, noleggio con conducente, monopattini, coworking, ecc.), Derek Thompson, autore della newsletter Work in Progress, ha spiegato come in una sola giornata potremmo avere avuto a che fare con otto società che l’anno scorso, collettivamente, hanno perso qualcosa come 15 miliardi di dollari. Adesso, però, la festa è finita: o si mostrano conti in ordine o il rischio fallimento è dietro l’angolo.

La pazienza è finita

Photo by: STRF/STAR MAX/IPx 2020 12/23/20 SEC approves NYSE plan for direct listings.

Ma perché proprio adesso? E perché così all’improvviso? Le ragioni sono in parte quelle che si possono immaginare: tra instabilità globale, crisi energetica, inflazione e soprattutto aumento dei tassi d’interesse (senza dimenticare l’incremento record dell’occupazione negli Stati Uniti e in Europa), la pazienza degli investitori e degli azionisti nei confronti di società a forte crescita, ma che perdono soldi, si è rapidamente esaurita.

«Per anni, ha avuto bizzarramente senso che queste start up fossero in perdita», scrive ancora Thompson. «Con i tassi d’interesse prossimi allo zero, molti investitori erano ben disposti a puntare i loro soldi su scommesse a lungo termine. Se fossero riusciti a mettere un piede nella nuova Amazon avrebbero vinto la scommessa della vita, in grado di coprire ogni altra perdita. Di conseguenza, i fondatori di start up erano incoraggiati a espandersi aggressivamente, anche se ciò significava perdere un sacco di soldi al fine di far crescere la base utenti».

Non importava perdere soldi, anche per anni e anni: quello che davvero contava era mostrare agli investitori una solida crescita degli utenti, per convincerli che un domani, anche se lontano, avrebbero potuto ottenere ritorni sensazionali. Adesso, però, la fretta si fa sentire, anche a causa del drastico calo dei mercati azionari: in meno di un anno, l’indice del Nasdaq ha perso il 27 per cento. I titoli più vicini al settore delle piattaforme online hanno invece subito ribassi disastrosi: le azioni di Uber hanno perso il 50 per cento rispetto ai massimi del 2021, Netflix è scesa del 64 per cento, Deliveroo del 76 per cento e lo stesso calo è stato registrato anche da WeWork.

L’elenco potrebbe essere lungo, ma il concetto è chiaro: dopo un biennio di euforia finanziaria e di bolle speculative (comprese quelle legate alle criptovalute, agli NFT e al mercato del collezionismo), una correzione era inevitabile. Se a ciò si aggiungono le già citate turbolenze geopolitiche ed economiche, si capisce perché le società che non hanno già un modello di business solido stiano pagando il prezzo più alto (e con loro i dipendenti, che stanno subendo un’ondata di licenziamenti).

Questo vale a maggior ragione per le start up appena nate e alle prese con i primi round di finanziamento. Walnuts, una start up che applica il modello “compra adesso e paga dopo” al mondo della sanità privata, aveva trovato senza difficoltà i suoi primi 3,6 milioni di dollari di finanziamenti. Quando nella scorsa primavera il fondatore di Walnuts Roshan Patel, è andato a caccia di ulteriori soldi, si è trovato di fronte a un sacco di domande legate alla profittabilità, alle fondamenta economica e all’efficacia commerciale: «Erano domande che pensavo sarebbero arrivate più tardi, quando la nostra società sarebbe stata più matura», ha spiegato a Wired.

I venture capitalist stanno insomma adottando un approccio razionale, e meno da scommettitori disposti a buttarsi su ogni progetto sperando che sia quello giusto. Secondo i dati di Crunchbase, nel secondo trimestre 2022 gli investimenti nelle start up statunitensi sono calati del 23 per cento, il dato peggiore dal 2019, fermandosi a quota 62,3 miliardi. Peggio ancora: nei primi sei mesi dell’anno, le vendite di start up e le quotazioni in borsa, che sono lo strumento principale con cui gli investitori vengono ripagati, sono precipitate dell’88 per cento rispetto a un anno fa, fermandosi a 49 miliardi.

Normalizzazione o nuova bolla?

Numeri simili, anche se ovviamente più piccoli, si ritrovano sul mercato europeo: nei mesi di marzo e aprile le start up che hanno sede in Unione europea hanno ricevuto finanziamenti per 7,5 miliardi: un calo nettissimo rispetto ai 12,3 miliardi segnalati tra gennaio e febbraio. «In particolare, stiamo assistendo a una netta ritirata dei cosiddetti round di finanziamenti “supergiganti”: investimenti dai 100 milioni di dollari in su», scrive sempre Crunchbase. «Ce n’erano stati 31 destinati alle start up dell’Unione europea a gennaio e febbraio e soltanto 19 tra marzo e aprile». Lo scarso entusiasmo degli investitori si riflette anche nel numero di unicorni, cioè le start up valutate almeno un miliardo di dollari, nate a livello globale. Si prevede che nel terzo trimestre 2022 emergeranno non più di 27 società di questo tipo, nello stesso periodo dello scorso anno si era invece arrivati a 136.

Il settore delle start up è destinato a normalizzarsi e a smettere di entusiasmarsi per ogni nuova “Netflix di qualcosa” o “Uber di qualcos’altro”? È possibile, anche se non tutti gli analisti concordano. In particolare, una testata affidabile come  The Information riporta come le società d’investimento statunitensi abbiano messo da parte nel corso degli anni una liquidità pari a 290 miliardi di dollari, di cui 162 riservati specificatamente ai nuovi investimenti.

«L’anno prossimo, un’ondata di interesse potrebbe travolgere i fondatori di start up, grazie ai livelli record di liquidità che incentivano i fondi d’investimento a elevare il ritmo dei loro investimenti», scrive sempre The Information. «Ciò significa che l’anno prossimo si dovrebbe tornare ai livelli record del 2021 o addirittura superarli». La bolla delle startup e degli investimenti riversati su società a forte crescita, ma dalle fondamenta economiche spesso traballanti, è scoppiata. Come già avvenuto con le criptovalute, però, dalle sue ceneri potrebbe rinascere una bolla ancora più grande.

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