Ancora nel 2016, Amazon Prime – il servizio che garantisce spedizioni più rapide, l’accesso alla piattaforma di streaming e altro ancora – costava in Italia solo dieci euro all’anno. Da quel momento in poi, c’è stato un aumento dopo l’altro: nel 2017 il prezzo raddoppia improvvisamente a 20 euro, l’anno successivo sale ancora a 36 euro e adesso, dopo l’annuncio di ieri, si attende un ulteriore rincaro, che porterà il prezzo della sottoscrizione a 49 euro (+36 per cento) a partire da metà settembre.

È qualcosa che si sta verificando in tutta Europa, con aumenti anche percentualmente superiori a quelli italiani: è il caso della Francia, dove si è passati da 49 a 69 euro (+41 per cento). In Germania i prezzi sono invece saliti da 69 a 89 euro (+29 per cento), mentre l’aumento nel Regno Unito è stato proporzionalmente inferiore, da 79 a 95 sterline (+20 per cento).

L’annuncio ha subito fatto partire una valanga di proteste, portando il colosso di Seattle a diffondere un comunicato anche relativo al nostro paese: “È la prima volta che modifichiamo il prezzo di Prime in Italia dal 2018”, si è giustificata la società, elencando inoltre la gran quantità di servizi ormai inclusi nel prezzo, tra cui la consegna di generi alimentari, l’accesso allo sport in diretta, la piattaforma musicale e altro ancora (ma senza dare la possibilità di spacchettarli, rendendo l’offerta una sorta di “prendere o lasciare”).

Al di là dei servizi, le ragioni dell’aumento sarebbero comunque legate all’inflazione (e in particolar modo al prezzo dei carburanti), alle difficoltà nelle supply chain (che risalgono ancora ai momenti più duri della pandemia) e anche alle eccessive assunzioni ed espansioni dei magazzini decise durante il colossale boom vissuto dal gigante dell’ecommerce nei due anni di pandemia. Giustificazioni forse comprensibili, anche se è difficile difendere aumenti anche del 40 per cento da parte di un’azienda che nel 2020 ha messo assieme guadagni per 21 miliardi di dollari (+83 per cento rispetto all’anno precedente) e nel 2021 addirittura di 33 miliardi, crescendo di un ulteriore 50 per cento.

Profitti record che non hanno precedenti nella storia di Amazon, ma che evidentemente non sono stati considerati sufficienti per proteggere da un inasprimento dei prezzi i consumatori, già provati dagli aumenti generalizzati. Se non bastasse, anche la motivazione dell’inflazione sembra essere almeno in parte pretestuosa, considerando che negli Stati Uniti gli aumenti erano stati varati già a febbraio, quando l’inflazione era ancora più che altro un timore e l’invasione dell’Ucraina non era nemmeno cominciata.

Insomma, proprio l’inflazione per cui Jeff Bezos si è scagliato contro il presidente degli Stati Uniti Joe Biden viene adesso sfruttata dalla società fondata dallo stesso Bezos (ma guidata dall’anno scorso da Andy Jassy) per aumentare i prezzi di un abbonamento che, solo in Italia, è cresciuto del 400 per cento nel giro di cinque anni (ben superiore all’inflazione che, dopo anni tra lo 0 e il 2 per cento, sta salendo quest’anno di circa il 6).

Primo trimestre in rosso

L’impressione è che, dopo aver messo assieme guadagni per oltre 50 miliardi di dollari in due anni, alle prime difficoltà Amazon abbia deciso di scaricare l’aumento dei costi sui consumatori, probabilmente anche per placare le ansie di investitori che hanno visto il titolo crollare del 30 per cento nel giro di sei mesi (nell’ambito di un generale crollo di Big Tech e non solo) e l’ultima trimestrale riportare risultati negativi per la prima volta dal 2015.

Ebbene sì, nei primi tre mesi del 2022 gli introiti della società di Jeff Bezos sono saliti soltanto del 7 per cento (risultato peggiore in due decenni) mentre si è assistito al primo trimestre in perdita (-3,8 miliardi di dollari) da sette anni a questa parte. La bassa crescita era prevedibile dopo le già citate sbornie degli ultimi due anni, mentre, secondo il Wall Street Journal, le perdite vanno lette anche alla luce della “quota di Amazon nella proprietà del produttore di auto elettriche Rivian, le cui azioni quest’anno sono crollate di oltre il 65 per cento. Amazon possiede circa il 18 per cento della compagnia, che gli ha causato perdite lorde per 7,6 miliardi di dollari”.

Sono questi elementi a differenziare la situazione di Amazon da quella di Netflix, altro colosso che ha recentemente alzato i prezzi. Prima di tutto, Netflix è alle prese con una durissima concorrenza che ha provocato, assieme alla fine dei lockdown, un calo di utenti superiore a 1,2 milioni nei primi sei mesi dell’anno; mentre le azioni sono crollate del 65% dai massimi del novembre scorso. Infine, gli aumenti decisi da Netflix sono decisamente più contenuti, in attesa che venga ufficialmente varata l’opzione di abbonamento con pubblicità.

Non si può insomma escludere che Amazon stia approfittando della sua posizione quasi monopolistica. Il colosso di Seattle controlla negli Stati Uniti il 41 per cento del mercato dell’e-commerce; il suo più agguerrito rivale, Walmart, si ferma al 6,6. Una situazione non troppo dissimile si registra anche in Italia, dove – secondo i dati di Statista – Amazon ha venduto nel 2021 merci per 6 miliardi di dollari: una cifra superiore a quella dei suoi dieci principali concorrenti messi assieme (tra cui Zalando, Ikea, Zara e lo store online di Apple).

“Da quello che abbiamo visto negli Stati Uniti, i rincari non provocano fenomeni di abbandono, perché sempre più servizi vengono offerti tramite Prime, permettendo comunque ai consumatori di ottenere risparmi molto significativi”, ha spiegato a Bloomberg un portavoce di Amazon. Potrebbe essere vero. Oppure, dalla sua posizione quasi monopolistica, Amazon può permettersi di imporre tutti i rincari che vuole approfittando della totale assenza di veri concorrenti.

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