Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Nel 1947 il cavaliere Angelo Moratti non possedeva né l’Inter, né la Rasiom, ma era egualmente milanese. In realtà non se ne intendeva molto di calcio e di petrolio, ma era già milanese, cioè aveva fin d’allora l’istintiva frenesia che hanno i milanesi nella moltiplicazione del denaro.

Anche il catanese, tanto per fare un paragone agli antipodi della nazione, possiede questo intuito, questa irresistibile attrazione mentale per i quattrini: solo che il catanese per sua natura è portato a cercare quasi sempre le briciole, a cercare cioè i quattrini da solo, non si fida degli altri, accumula febbrilmente spiccioli, ne fa mucchi, rovista dovunque e con qualsiasi mestiere o iniziativa, ma sempre da solo.

Il milanese invece sa che i grandi quattrini si guadagnano solo sfruttando le forze collettive, il milanese è fiducioso; se lo beffano ricomincia daccapo da un’altra parte, cerca compagni, gente, azioni, solidarietà. Ha due qualità soprattutto: ha fiducia nella macchina che riassume la forza collettiva e la moltiplica, e sa cogliere fulmineamente l’occasione storica. Torniamo al cavaliere Moratti che era milanese. L’occasione storica c’era: le distruzioni, il disordine, la confusione; tutti vendevano e tutti compravano, non c’era niente in Italia e c’era bisogno di tutto.

La cosa che mancava soprattutto, più del frumento, più dell’olio, della gomma, delle medicine, era il petrolio. Senza petrolio una società moderna muore, il petrolio è come il sangue, fa funzionare le fabbriche, aziona i motori, fa camminare le automobili, le navi, gli aeroplani. Il cavaliere Moratti decise dunque di produrre petrolio, poiché quello era il bene economico di cui tutti avevano più bisogno. E si mise a cercare le macchine.

Le cercò in America naturalmente, che in quegli anni era un gigantesco cantiere in smobilitazione, un apocalittico mercato di ferri vecchi di cui non si aveva assolutamente bisogno e che bisognava ad ogni costo liquidare. Per tre anni di guerra l’America aveva fabbricato quantità incredibili di ogni tipo di macchine e ne era ingombra in ogni dove. Le sue industrie, ingigantite dallo sforzo bellico, continuavano a produrre macchine nuove che immettevano sul mercato e che bisognava ad ogni costo vendere per non provocare una catastrofe economica.

Per vendere le macchine nuove sul mercato interno, macchine più precise, potenti, funzionali, che tenevano conto di tutte le esperienze preziose della guerra, bisognava però vendere prima quelle vecchie, venderle all’estero, ad ogni prezzo.

L’America svendeva ogni cosa: migliaia di piroscafi Liberty (in un’altra parte del Mediterraneo cominciò in quel periodo, con alcune di queste vecchie carcasse, la fortuna di Onassis), vendeva jeep, autocarri, vecchi aeroplani da bombardamento con i bulloni che ciondolavano (in quegli anni i Dakota cominciarono a cadere come le mosche in tutte le parti del mondo); vendeva cannoni senza culatta, periscopi, motoscafi, motovedette, latte in polvere, tabacco stantio, mobili, indumenti, scarpe da soldati, divise, elmetti, fucili per tutta la miriade di nuovi piccoli eserciti che andavano sfilando nelle piazze principali di tutte le nuove piccole nazioni che la guerra aveva creato.

Vendeva anche fabbriche intere, che funzionavano poco e male, impianti petroliferi, fonderie, raffinerie di petrolio. Le vendeva a peso, tanto a tonnellata. Se mancava qualche pezzo si arrangiassero gli acquirenti.

Il cavaliere Moratti comperò la sua raffineria il 29 dicembre del 1948 a Longliew, nel Texas, la smontò e imballò in centinaia di grandi casse, la imbarcò sul vecchio Liberty «Angelo Fassio» e cominciò a navigare verso Augusta. Lasciamo quel piroscafo affannoso, che naviga con le macchine legate alla meglio sulla tolda e le onde che sfiorano le murate; precediamolo ad Augusta. Tutta la costa della rada era un deserto cosparso ancora di rottami bellici, binari divelti, casolari sfondati, acquitrini.

Per quattro anni questi venti chilometri di riva piatta e gialla, che corre dal promontorio di Scala Greca al Porto di Augusta, avevano visto un solo onorevole personaggio: un piccolo treno blindato, formato da due vaporiere e quattro vagoni, armati ognuno da quattro cannoni antiaerei da 75/17.

Appena cadeva la notte e suonava l’allarme, il treno cominciava a correre su e giù per quei venti chilometri, con le caldaie al limite dello scoppio, traballando, in una tempesta di scintille, fumo, vapori e cannonate. Aveva lottato contro centinaia di aerei inglesi, aveva sparato migliaia di cannonate; nei ricoveri di Siracusa, in mezzo al tonfo della controaerea, avevano imparato oramai a distinguere il crepitare di quei sedici piccoli cannoni, una specie di tamburo, e la gente se ne rallegrava come alla voce di un amico.

Poi nel 1943, dal mare e dall’aria, proiettili e bombe da mille chili lo fecero a brandelli. E in quel dicembre del 1948 le carcasse erano ancora lì, sulla riva piatta di Priolo. Non c’era altro. Quel piccolo golfo deserto era però al centro del Mediterraneo, era il lembo dell’Europa più vicino ai grandi bacini petroliferi del Medio Oriente, ed il punto esatto dove confluivano tutte le rotte commerciali più importanti dall’Africa e dall’Europa.

Se, su una carta geografica, tracciate una serie di grandi linee, unendo l’uno all’altro i porti più grandi del Mediterraneo, potrete constatare che il sessanta per cento di quelle linee si incrociano esattamente sulla Sicilia. Ad Augusta inoltre c’erano le vecchie attrezzature, i pontili, le gru smantellate che la marina militare, distrutta dal trattato di pace, offriva in affitto per un prezzo esiguo. E la rada aveva fondali profondi nei quali potevano gettare le ancore anche le petroliere da cinquantamila tonnellate.

Infine, in questa provincia razziata dalla guerra e da una lunga disperata tradizione di povertà, c’era mano d’opera a buon prezzo, pecorai, braccianti, contadini magari analfabeti, ma mansueti, che non chiedevano tanto un salario, quanto la possibilità di sopravvivere. Il 18 luglio 1948 la vecchia «Angelo Fassio», stremata dal lungo viaggio, con la prua che ogni tanto se ne va sfinita sott’acqua, entra nel porto di Siracusa e comincia a scaricare le macchine, le caldaie, i tubi, i tralicci, i bulloni, le casse, le pompe. Sembra un enorme ammasso di ferro arrugginito.

Quando tutto è già scaricato, i tecnici si accorgono che i disegni di montaggio sono andati smarriti. Chi sa com’era quella gigantesca macchina prima che fosse smontata? Sembra un gioco assurdo. Per mesi e mesi centinaia di contadini, pescatori, caprai, manovali, che non avevano mai smontato una sveglia, cominciarono a montare la raffineria agli ordini di un drappello di ingegneri che a loro volta tentano disperatamente di indovinare come vadano collegati gli uni agli altri quelle migliaia di pezzi, di viti, cisterne, rubinetti, manometri, ciminiere alte cinquanta metri e bulloni piccoli quanto un’unghia.

Allorché i disegni di montaggio arriveranno finalmente dall’America, la raffineria Rasiom sarà in funzione già da cinque mesi. Ha cominciato a lavorare esattamente il giorno 5 agosto del 1950, con le prime sedicimila tonnellate di greggio africano trasportate ad Augusta dalla petroliera Aarikare. Questa fantastica città di fiamme, fumi, odori, grattacieli di alluminio, ferrovie, moli di metallo, cupole, questa orgogliosa capitale industriale che si estende per venti chilometri, da Scala Greca alle porte di Augusta, lungo tutta la fascia del golfo, comincia così con una fabbrica di benzina, miracolosamente costruita da venti ingegneri milanesi e da duemila pecorai e carrettieri siciliani.

Poi vennero la Edison con la Sincat e la Celene a fabbricare prodotti chimici, plastica e concimi, la Montecatini a produrre gas combustibile, la Tifeo a fabbricare energia, la Sacs e la Fiat a produrre cemento; e le torri, i pontili, le fiamme, coprirono tutta l’area del golfo.

E’ la città più giovane della Sicilia e vale cinquecento miliardi. Lo Stato vi ha contribuito con qualche centinaio di milioni distrattamente spesi, la Regione ancor meno; in compenso molte eminenze politiche, all’ombra di quelle ciminiere, hanno tenuto roboanti discorsi patriottici. Diciamo subito i meriti, quanto essa vale, cosa potrà diventare. Infine ricaviamone una morale.

Questa città è stata fatta da alcune montagne di denaro che da Milano sono state trasferite audacemente al Sud, e dalla umile, dalla laboriosa pazienza della popolazione siracusana che ha costruito materialmente gli stabilimenti, ha imparato a fare funzionare le macchine, ha creato a sua volta tanti altri piccoli stabilimenti che ha costruito con i soldi suoi, i soldi sudati, faticati, risparmiati, prelevati dalle banche con un sospiro di spavento.

Occorre qui ripetere che l’industria privata va dove le conviene, dove trova le condizioni più favorevoli, dove può più facilmente sfuggire all’assedio fiscale, pagare dei salari più bassi, trovare più clienti, vendere al prezzo più alto.

L’industria privata è un robot senza cuore, poiché contrariamente a quanto si crede essa non ha praticamente padroni che possano essere pietosi, equanimi, sociologi, missionari, ma appartiene a migliaia, decine di migliaia di anonimi azionisti, i quali spendono cento ed alla fine dell’anno vogliono avere centodieci.

L’industria privata, soprattutto quando assume le dimensioni dei colossi europei, deve essere arida, lucida, infallibile nei suoi conti, implacabile nei suoi interessi: una macchina e basta! Essa va valutata come tale, se occorre lottata quando il suo automatico, mostruoso interesse sopraffà quello dell’uomo povero ed indifeso. Ma va sempre rispettata, poiché è come il televisore, l’automobile, il trattore, la penicillina, il concime chimico, cioè uno degli elementi fondamentali della nostra epoca, una condizione essenziale del benessere.

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