Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Ogni qualvolta si è scavato sul tema della presunta protezione della latitanza di Provenzano da parte dei Carabinieri del Ros diretto da Mario Mori, e dagli ufficiali a lui direttamente sottoposti, gli aspetti di opacità evidenziati — e stigmatizzati — anche nella sentenza di primo grado del processo Mori/Obinu (che si richiama, sotto questo profilo, alle valutazioni critiche espresse dai giudici del processo definito a carico dello stesso Mori e di Sergio De Caprio con sentenza di assoluzione per la condotta di favoreggiamento contestata in relazione alla mancata perquisizione del covo di Riina), si sono ispessiti.

Nuovi elementi fattuali e di valutazione si sono aggiunti, con il risultato che dubbi, perplessità sospetti sull’operato dei Carabinieri e sulle loro reali intenzioni, invece che dissolversi, ed essere definitivamente fugati o sopiti, ne sono usciti avvalorati e rilanciati. Senza mai raggiungere, va detto subito, la soglia minima necessaria di certezza probatoria, quanto alla sussistenza del dolo di favoreggiamento.

Già la sentenza di primo grado del processo Mori/Obinu (Tribunale Palermo, 17/07/2013) aveva ritenuto che «la condotta attendista prescelta con il concorso degli imputati sia sufficiente a configurare, in termini oggettivi, il reato addebitato», dovendo «ammettersi che nell’arco di tempo oggetto della contestazione siano state adottate dagli imputati scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano».

Ma era poi pervenuto alla conclusione di dover assolvere gli imputati con la formula perché il fatto non costituisce reato sul presupposto che «benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processate non ha consentito di ritenere adeguatamente provato — ad di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede l‘art. 533 c.p.p. — che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura».

La sentenza d’appello del processo Mori/Obinu

La sentenza d’appello (v. Corte d’Appello di Palermo, 19.05.2016), come rammenta il primo giudice di questo processo, è andata persino oltre, anche se ha finito per confermare l’esito assolutorio e la relativa formula, non potendosi escludere che gli imputati, “pur avendo presente la connessione causale tra il loro agire e l’evento “sottrazione del Provenzano alla cattura” abbiano realizzato le condotte loro contestate “per trascuratezza, imperizia, irragionevolezza o, piuttosto per altro biasimevole motivo”.

La citata sentenza d’appello ha tuttavia respinto la richiesta della difesa che sollecitava una riforma della statuizione di primo grado nel senso di assolvere gli imputati per insussistenza del fatto, sul rilievo che “fermi restando i grandi meriti nel campo della lotta al terrorismo e della criminalità organizzata di questo reparto di eccellenza dell’arma dei carabinieri e i lusinghieri giudizi sull’operato complessivo del Mori espressi da autorevoli esponenti di Autorità civili e militari — molti episodi connotano di opacità l’operato di questa articolazione dell’Anna in quel periodo, evidenziando una serie di incongruenze anche con riferimento ai fatti specie che ci occupano ed a quelli precedenti o successivi che con questi hanno attinenza.

Basta richiamare alcune delle risultanze che sono state riversate nel processo e che hanno riguardo, in particolare, alla mancata perquisizione del covo di Riina e all’episodio relativo alla presunta, omessa cattura di Benedetto Santapaola in Terme Vigliatore, nell ‘aprile 1993”.

Conseguentemente, non poteva «non concordarsi con i Giudici di primo grado laddove gli stessi affermano la sussistenza sotto il mero profilo oggettivo delle condotte ascritte agli imputati che possono, in astratto, anche con giudizio a ante, configurare sotto il nero profilo oggettivo il reato addebitato agli imputati».

Ebbene, come già anticipato, anche la sentenza qui appellata è giunta alla conclusione che non siano emersi elementi sufficienti a sovvertire, in relazione al giudizio di responsabilità nei riguardi di Mori e degli altri ufficiali del Ros suoi presunti correi per il diverso reato di cui all’art. 338, c.p., il giudicato assolutorio formatosi nel processo Mori/Obinu in ordine alle condotte ivi contestate per il biennio 1995/1996.

Nel senso che non si è raggiunta la prova di un deliberato intento di Mori di proteggere la latitanza di Provenzano, pur uscendone corroborata la certezza già raggiunta in quel processo, ad onta dell’esito assolutorio, che l’insieme di ritardi, atteggiamenti o condotte dilatorie, omissione nell’approntamento di servizi o nell’attivazione di tecniche e strumenti di monitoraggio dei probabili favoreggiatori o negli accertamenti volti ad identificarli compiutamente e nel raccordarsi con l’autorità giudiziaria di riferimento (non già per renderla edotta dei contenuti delle rivelazioni che la fonte Oriente, alias Luigi Ilardo, andava facendo all’ufficiale, il colonnello Riccio, che la gestiva — anche se, per le eventuali notitiae criminis emerse non poteva scaricarsi l’obbligo di referto soltanto sull’ufficiale predetto — quanto per aggiornarla sugli sviluppi dell’indagine mirata alla cattura del latitante più ricercato all’epoca, almeno dal Ros) si è tradotto in una condotta oggettivamente a compromettere il raggiungimento dell’obbiettivo di catturare Bernardo Provenzano, e dunque in una condotta di oggettivo favoreggiamento della sua latitanza.

Dubbi e perplessità

E deve convenirsi che anche dall’ulteriore approfondimento istruttorio espletato in questa sede su tale tema di prova escono avvalorati dubbi e perplessità sull’operato complessivo dei Carabinieri.

Ma, nella valutazione operata dal giudice di prime cure, il duplice esito sopra richiamato, se da un lato rendeva obbligata la decisione di assolvere gli ufficiali del Ros (non già dal reato di favoreggiamento, per cui Mori era stato già giudicato e assolto, bensì) dal diverso reato per cui si procedeva a loro carico, e limitatamente alla condotta loro contestata per avere, successivamente alle altre due specifiche condotte loro ascritte, assicurato il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo, principale referente mafioso di tale trattativa” (una contestazione che prefigurava che fin dall’inizio fosse stata stipulata un’intesa con Provenzano che avesse come corrispettivo della rinuncia allo stragismo anche il prodigarsi di Mori per favorirne la latitanza) dall’altro non sarebbe affatto incompatibile con la tesi accusatoria sposata in sentenza.

Opposta sarebbe la conclusione cui si dovrebbe pervenire, ad avviso del primo giudice, se fosse provato che non vi fu alcuna condotta favoreggiatrice (come postulavano i difensori di Mori e Obinu); o se si fosse accertata una chiara e inequivocabile volontà e determinazione di pervenire alla cattura di Provenzano, assunto realmente come obbiettivo prioritario dell’impegno investigativo profuso dal Ros diretto da Mario Mori nell’ambito delle indagini sulla criminalità mafiosa in Sicilia.

Poiché così non è, rimane impregiudicata sempre ad avviso del primo giudice, la possibilità che gli ufficiali del Ros abbiano concorso al reato di minaccia a corpo politico dello Stato, sia pure limitatamente alle prime due condotte loro ascritte. Conseguentemente, il giudicato assolutorio già formatosi nei processi a cui il Generale Mori è stato in precedenza sottoposto non può ovviamente spendersi processualmente o essere valutato come elemento di validazione dell’ipotesi accusatoria (come avrebbe potuto esserlo, sia pure nei limiti di cui all’ari. 338 bis c.p.p., un giudicato di condanna), ma neppure può affermarsi che esso vi frapponga un ostacolo insormontabile.

Parzialmente diversa è la conclusione cui questa Corte ritiene di dover pervenire. Come già anticipato, anche in esito alla rinnovazione istruttoria disposta in questo secondo grado del giudizio sono emersi elementi fattuali e di valutazione che implementano il plafond già cospicuo di dubbi e perplessità sull’operato dei carabinieri del Ros e gli aspetti di opacità che erano emersi già nel corso dei processi definiti con le sentenze irrevocabili sopra richiamate, come pure nel corso dell’istruzione dibattimentale del giudizio di primo grado d& presente processo.

E ci riferiamo in particolare alle nuove risultanze emerse in relazione alla vicenda dell’arresto di Napoli Giovanni, già condannato per associazione mafiosa e tra i principali favoreggiatori della latitanza condotta da Bernardo Provenzano per molti anni in quel di Mezzojuso; e agli elementi desumibili dalla vicenda per molti aspetti sconcertante di Riggio Pietro.

Ma il dubbio che residua, o che addirittura esce corroborato (senza tuttavia approdare alla certezza probatoria che sarebbe necessaria per trarne un verdetto di colpevolezza), nella diversa prospettiva di ricostruzione dei fatti cui questa Corte ritiene di dover aderire per restare fedele alle risultanze acquisite, finisce per giovare alla difesa, assai più che alla pubblica accusa, o almeno giova alle ragioni difensive che militano per l’esclusione del dolo (di concorso nel reato) di minaccia a corpo politico dello stato.

Già s’è visto che l’iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros nell’estate del ‘92 attraverso i contatti con Vito Ciancimino aveva come finalità precipua o esclusiva quella di fermare le stragi, ovvero l’escalation di inaudita violenza mafiosa che faceva paventare nuovi eccidi e delitti eclatanti dopo la strage di Capaci.

Cosa nostra era cambiata nel ‘95

E questo è un primo punto fermo nella ricostruzione fattuale cui si accennava. Si è anche detto che la finalità predetta sarebbe ex se incompatibile con l’elemento soggettivo del reato ascritto agli stessi Carabinieri. Ma quand’anche si reputasse tale argomento insufficiente od opinabile — sotto il profilo che non potrebbe escludersi un interesse a corroborare la minaccia come strumento di pressione sulle scelte delle autorità di governo — una rilettura serena della vicenda dei contatti tra Ros e Ciancimino e della collaborazione che ne scaturì conduce a ritenere che la proposta di accordo che si voleva veicolare a Cosa nostra attraverso Vito Ciancimino e i suoi referenti mafiosi non aveva come suo naturale destinatario Salvatore Riina e i suoi più fedeli luogotenenti, come lui convinti assertori della linea stragista; ma era diretta, piuttosto, a quella componente di Cosa nostra che, insofferente della leadership di Riina e preoccupata delle conseguenza di uno scontro frontale con lo stato, fosse disponibile a collaborare alla cattura di Riina e quindi alla decapitazione dello schieramento stragista o ala dura dell’organizzazione mafiosa: con l’obbiettivo ulteriore di disarticolare tale schieramento, in modo che a prevalere fosse quella componente più propensa, per sua stessa vocazione, a coltivare con lo stato e le Istituzioni un rapporto di non belligeranza: una coabitazione felice o almeno pacifica, che, dal punto di vista dei mafiosi, ripristinasse condizioni generali propizie al fine di sviluppare impunemente i propri affari, infiltrando, come era sempre avvenuto, il tessuto economico e istituzionale invece di sconvolgerlo con una violenta contrapposizione frontale.

Ora, nell’estate-autunno del ‘92 si poteva, forse, dubitare o non essere ancora certi che quella componente relativamente moderata dell’organizzazione mafiosa facesse capo proprio a Bernardo Provenzano (anche se i molteplici elementi in precedenza scrutinati fanno ritenere che i carabinieri avessero già maturato tale convincimento); ma nell’autunno inoltrato del 1995 e nell’anno seguente il bagaglio di conoscenze degli apparati investigativi sulle dinamiche mafiose e sui contrasti interni a Cosa nostra si era notevolmente arricchito.

E l’uscita di scena prima dei fratelli Graviano (arrestati a Milano il 27 gennaio 1994), poi di Bagarella (24 giugno 1995) e quindi di Giovanni Brusca (20 maggio 1996) che avvierà tre mesi dopo un percorso collaborativo sia pure inizialmente molto travagliato, non poteva che avere rafforzato la leadership di Provenzano. Né poteva valutarsi come una coincidenza fortuita che al rafforzamento del potere di Provenzano avesse corrisposto l’abbandono di fatto della linea stragista.

L’ultima strage, peraltro mancata e della quale solo ex post si avrà notizia (addirittura ancora sino alla conclusione del processo a carico di Mori e De Caprio si faceva risalire tale evento al novembre del 1993) è quella progettata allo Stadio Olimpico di Roma, che precedette di 4 giorni l’arresto dei fratelli Graviano. E poi il Ros, tramite il colonnello Riccio, rientrato nei ranghi dell’Arma e subito aggregato al Ros (con effetto dal 31 ottobre 1995), per proseguire l’indagine incentrata sulla gestione della fonte “Oriente” affluiscono le notizie che dall’interno di Cosa nostra la fonte predetta, alias Luigi Ilardo, boss della provincia mafiosa di Caltanissetta, cugino di Piddu Madonia riversa al colonnello Riccio sulle dinamiche di potere in atto, sulla progressiva modificazione dei rapporti di forza e degli equilibri interni a Cosa nostra, e sugli orientamenti strategici di Provenzano, sempre più in dissenso rispetto a Bagarella e a Brusca.

Ed allora, una volta esclusa in radice qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare lo status libertatis di Provenzano, e dunque anche a voler dare credito al dubbio che in effetti continua ad allignare sulla correttezza dell’operato del Ros per ciò che concerne le indagini mirate alla cattura del predetto boss corleonese, esso ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio e più efficacemente di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste (mai del tutto sopite, potendo Salvatore Riina contare sempre su un vasto consenso e su non pochi sodali rimasti a lui devoti) o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato.

V’erano dunque indicibili ragioni di “interesse nazionale” a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della “sommersione”, almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso.

Ma al contempo, per essere padroni e non pedine di un gioco così rischioso, bisognava che i carabinieri fossero in grado di controllare i movimenti dell’avversario, divenuto suo e loro malgrado alleato nel disegno di mantenere un assetto di potere mafioso che sancisse l’egemonia della componente moderata.

Ecco perché, giusta l’ipotesi considerata, il Ros, lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire, anche se solo di fatto e senza avere esercitato alcuna pressione (ed è lo stesso Mori ad ammetterlo nel replicare piccato alle dichiarazioni del dott. Sabella) una sorta di monopolio di quelle indagini.

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