È meglio passare per complici o è meglio passare per vittime? Se oggi, dicembre 2022, venisse distribuito in un quartiere di Palermo un questionario (e pure senza anonimato garantito), il risultato sarebbe scontato. Almeno l’80 e forse anche il 90 per cento degli intervistati non avrebbe dubbi sulla risposta: meglio passare per complici.
È Brancaccio, luogo strategico nella guerra di mafia degli anni ‘80 e rione che ha nel suo cuore quella che era la parrocchia di don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso con un colpo alla nuca nel 1993 per volere dei fratelli Graviano. Proprio loro, quelli delle stragi, Giuseppe e Filippo che avevano casa a pochi passi dalla chiesa di don Pino.
Le cronache locali delle ultime ore riportano la notizia di trentotto commercianti che andranno a giudizio per favoreggiamento se, entro trenta giorni, non confesseranno ai magistrati di avere versato la “mesata” al boss di turno. Fino ad ora sono stati zitti: per l’appunto, preferiscono passare per complici piuttosto che per vittime. A processo per silenzio.

La sovranità sul territorio

Questa notizia fa riflettere su quanto sia davvero cambiata Palermo, su quanta o poca strada abbia fatto per liberarsi dalla sua schiavitù.

C’è una città che indubbiamente ha rinnegato il passato, ma ce n’è un’altra che sembra immobile e prigioniera. Ci sono quartieri ancora avvolti nell’omertà, soffocati dalle estorsioni. Ogni tanto sequestrano qualche libro mastro e trovano nomi e cognomi degli estorti. Anche qui poche sorprese, ci sono sempre tutti: il meccanico, il fruttivendolo, l’imprenditore, il ristoratore, il tabaccaio, il barista, il fioraio, perfino l’ambulante che vende pizze e sfincioni al mercato domenicale deve sborsare cinque euro al mese.

Non importa quanto, la cifra, bisogna comunque pagare. Perché, con quella tassa, il clan impone la sua sovranità sul territorio. È come se il tempo in quella Palermo non fosse passato mai.

Oggi a Brancaccio non c’è più don Pino e non ci sono più i Graviano a comandare. A seminare terrore si alternano piccoli mafiosi che vengono immancabilmente presi e condannati, c’è un ricambio frenetico di capi e capetti ma le vittime sono sempre le stesse. Accettano il pizzo come un destino che ineluttabilmente li sovrasta. Ancora una volta è evidente che la repressione poliziesca e giudiziaria non basti a cambiare le cose.

La ribellione “a macchia d’olio”

Gli esperti della materia assicurano che a Palermo ci siano state significative reazioni al giogo del pizzo ma «a macchia di leopardo», che in alcune zone i boss fatichino più che altrove a ritirare l’obolo, che gli atti di ribellione non siano più casi eccezionali.

È vero, ci sono commercianti che ogni tanto denunciano, che hanno il coraggio di trascinare alla sbarra i loro aguzzini grazie anche anche al sostegno legale ed economico di associazioni come Addiopizzo. Ma sono ancora troppo pochi. E la retorica di una certa antimafia non aiuta né a capire né a ricercare possibili soluzioni.

La verità è che i ragionieri del crimine non si spazzano via con i convegni e le sfilate, le grida e le bandiere. Urlare “la mafia fa schifo” significa niente, perché oramai lo urlano persino i mafiosi con tanto di certificato. Una decina di anni fa mi è capitato di sentire personalmente in un'aula di giustizia un boss della Kalsa che, appena condannato per estorsione, si è rivolto alla corte dicendo: «A me la mafia fa schifo». Il mafioso antimafioso. Giochi di parole.
D’altronde l’esempio veniva dall’alto. Nei giorni in cui diventava pubblica la vicenda del governatore Salvatore “Totò” Cuffaro indagato per favoreggiamento alla mafia, su tutti i muri delle città e dei paesi della Sicilia sono apparsi manifesti con su scritto “Regione Siciliana, la mafia fa schifo”. Non costa niente. E piace a tutti.

Il precedente di Garibaldi

La crosta è diversa ma sotto la crosta spesso si ritrova la Palermo di sempre. È una vita che sento parlare di libri mastri recuperati nei covi. Dove, alla faccia della segretezza, è annotato maniacalmente tutto.

Nel 1989 ai Madonia trovarono un registro con centinaia di vittime e un (allora) misterioso “Ciccio Taglia”, che poi non era altro che Francesco Tagliavia, uno dei condannati all’ergastolo per la strage di via dei Georgofili. Dieci anni dopo un altro diario fu sequestrato a un tale Davide De Marchi, altre centinaia di vittime. È fenomeno di massa. Il fatto è che, molti, trovano più conveniente pagare che denunciare.

Un gesto naturale, alimentato anche da leggende. Come quella raccontata da un pentito qualche anno fa ai magistrati: «Vi meravigliate? Anche Garibaldi pagò il pizzo per sbarcare a Marsala».

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