Pietro Torretta era a cento chilometri di distanza. Piccolo di statura, magro, la bocca minuscola e un po’ storta, gli occhi rotondi e nerissimi, ha sempre una coppola in testa e un foulard di seta al collo, il volto sempre impenetrabile in cui si leggono solo noia e crudeltà. Lo chiamano anche faccia di pietra. Lo chiamano anche il lupo per quel volto aguzzo e famelico
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
In questa battaglia feroce, nella quale le aree fabbricabili costituiscono la posta essenziale, vengono però rimessi in gioco tutti gli altri settori economici, i mercati generali, la vendita degli elettrodomestici, la prostituzione, il contrabbando, le opere pubbliche, gli appalti. La mafia cittadina è più veloce e spietata, non conosce regole né obbedienze o gerarchie, usa auto velocissime, è armata di mitra e parabellum, usa il tritolo e il plastico.
La mafia contadina è ancora al metodo paziente secondo il quale l’avversario va prima circuito e dissuaso; la sua arma è ancora la vecchia lupara che uccide sicuramente ma vuole il bersaglio a pochi metri; non ha killer specializzati. Dapprincipio perciò è una strage, una ritirata umiliante. A mano a mano però che si profilano anche gli altri obiettivi, che si scopre cioè l’opulenza della città (per quanto possa essere opulenta la speculazione su una città complessivamente povera) le energie si rinnovano, cresce la feroce volontà di resistere.
E, d’un tratto, in mezzo alle file decimate, percosse, continuamente sconfitte della mafia contadina, in questo orizzonte sanguinoso, come giustamente si conviene al personaggio, appare il napoleone della mafia, Luciano Liggio. Dominatore incontrastato della vallata di Corleone, la zona più tragica e crudele dell’hinterland» palermitano, dove ha finito di sterminare letteralmente tutti i suoi oppositori e nemici, dal sindacalista Placido Rizzotto, al medico Michele Navarra, all’ultimo dei guardaspalle, padrone già di feudi, capo di un piccolo, fanatico esercito di uccisori, attratto dai favolosi guadagni del settore edilizio cittadino Luciano Liggio si avventa nella lotta.
È un mafioso di campagna, un piccolo contadino quasi analfabeta, per giunta sciancato da un terribile male alla schiena, ma per anni ed anni ha dovuto imparare a non essere ucciso, ed uccidere gli avversari senza lasciar loro alcuna possibilità di scampo.
Conosce tutte le tecniche dell’assassinio, i suoi uomini sono assolutamente fedeli, sono tutti superstiti di un decennio di faida tragica e quindi infallibili e senza pietà. Luciano Liggio oltretutto è dieci volte più feroce di qualsiasi altro.
Non aspetta nemmeno di avere occasione di contendere per un interesse: prima uccide il rivale e poi precisa. La potenza dei fratelli La Barbera che fin’allora avevano condotto le schiere della mafia urbana, viene disintegrata, distrutta in pochi mesi: Salvatore letteralmente scompare dalla circolazione, sembra volatilizzato, da allora non torna più sulla faccia della terra; Angelo fugge a Milano, ma nemmeno qui ha scampo poiché con una intuizione che spiega tante cose accadute dopo, Liggio porta la guerra fino al nord, anche in capo al mondo pur di eliminare gli avversari.
Angelo La Barbera, uscendo da un night viene investito da una raffica di mitra, un proiettile gli resta nel cervello per. sempre, sopravvive ma resta così, con un occhio un po’ spento, ogni tanto vacilla. Finito.
Ad affrontare Liggio resta soltanto Pietro Torretta, detto il padreterno dei Ciaculli, perché in quel quartiere non si può muovere foglia senza il suo consenso; né nuove botteghe che non godano della sua protezione, né compravendite di case, palazzi, terreni edificabili; né la gente è autorizzata a litigare, prendersi a schiaffi, odiarsi, e qualche volta uccidersi, senza il beneplacito del «padreterno» che, così, amministra l’economia del quartiere e la giusta felicità dei suoi abitanti.
Si porta appresso venti denunce per omicidio, associazione a delinquere, estorsione, minacce, violenza, ma è stato assolto venti volte in istruttoria poiché non si è mai trovato un solo testimone contro di lui, anzi se ne sono spontaneamente presentati al giudice istruttore decine di altri i quali hanno giurato e portato le prove che, nel giorno e nell’ora di quel delitto, Pietro Torretta era a cento chilometri di distanza. Piccolo di statura, magro, la bocca minuscola e un po’ storta, gli occhi rotondi e nerissimi, ha sempre una coppola in testa e un foulard di seta al collo, il volto sempre impenetrabile in cui si leggono solo noia e crudeltà.
Lo chiamano anche faccia di pietra. Lo chiamano anche il lupo per quel volto aguzzo e famelico.
Lo scontro fra Liggio e Torretta è il vertice degli anni ruggenti.
Tutta Palermo è una immensa preda. Cento morti in un anno.
Lo sgomento popolare trova anche l’estro per sinistre fantasie. C’è la mafia della dolce morte, che è quella del contrabbando degli stupefacenti; la mafia del «requiem aeternam» che domina il commercio delle casse da morto; la mafia primavera nel mercato dei fiori; la mafia a 220 volts per il commercio degli elettrodomestici; la mafia del letto caldo per la prostituzione, e infine la mafia del cemento rosso, la più terribile, che insanguina il settore dell’edilizia.
Tutto si conclude con uno spaventoso lampo, probabilmente un errore degli uomini di Pietro Torretta: quella Giulietta carica di tritolo abbandonata in una stradina di Ciaculli, il tenente dei carabinieri che alza il cofano, l’esplosione nella quale letteralmente scompaiono otto carabinieri ed agenti.
Lo spavento della nazione, il dolore, la paura, la commissione parlamentare antimafia, il rastrellamento massiccio di tutti i mafiosi nella più gigantesca operazione anticriminale che la Sicilia abbia visto dai tempi del prefetto Mori, il processo di Catanzaro.
In due anni a Palermo c’è solo un delitto di mafia, poi l’assoluzione di Luciano Liggio alla assise di Bari e la sua scomparsa, l’assoluzione di quasi tutti i grandi «boss» alle assise calabresi, le indagini sempre più lente e convulse dell’antimafia, migliaia di chili di verbali, interrogatori, migliaia di personaggi che mentiscono, accusano, rinnegano, tutto sprofonda adagio in una specie di sonnolenza, dalla quale emerge il crepitio dei mitra di viale Lazio, poi via via la violenza che divampa, le notizie sempre più terribili, i crimini più spaventosi, il giornalista Mauro De Mauro di cui non si ritrova nemmeno il corpo, di cui non si saprà mai come e perché è stato ucciso, il procuratore della repubblica Scaglione assassinato lungo il viale del cimitero, il colonnello dei carabinieri Russo, massacrato in mezzo ad una piazza, il capo della squadra mobile Boris Giuliano folgorato dalle revolverate mentre prende il caffè al bar di fronte a casa, il giudice Cesare Terranova, ex parlamentare e membro dell’antimafia, giustiziato pochi giorni prima che prenda possesso dell’ufficio istruttorio e quindi possa rileggere e vagliare tutte le sentenze di proscioglimento.
Le vittime ricominciano a cadere a tre a tre per le strade di Palermo. Una volta qualcuno scampava miracolosamente, ora i killer sono diventati infallibili, sono professionisti.
© Riproduzione riservata