Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


L’industria, intesa nel modo tradizionale, gli operai con le tute e gli elmetti di amianto, le nuove generazioni di tecnici e di specialisti, gli opifici con le ciminiere fiammeggianti, il fetore grasso degli stabilimenti, le alte paghe, gli altissimi stipendi, la piena occupazione, l’industria che rivoluziona l’ambiente e trasforma il panorama, che trasforma le famiglie e gli individui, dilata la cultura, i palazzi, il denaro, le strade, le vacanze, il tempo libero, l’industrializzazione come la immaginano i poveri del Sud è passata sull’altopiano di Ragusa come un vento, sollevando polvere dovunque, e se n’è andata.

Gli agricoltori, i coltivatori diretti, i braccianti, i contadini, si sono ritrovati com’erano, una sterminata folla di uomini vestiti di nero. I padroni sono rimasti loro. Forse ora cominceranno a capire quel che dovranno fare, e come le loro mandrie, i loro greggi, i loro pomodori, cetrioli, il vino, l’olio, la lana possano valere più del petrolio e come essi abbiano diritto di pretendere quelle cose che l’industria non è riuscita ad ottenere: le strade, l’acqua, le ferrovie, la diga, il porto. Non è detto che ci riescano, poiché in mezzo a quella folla di cinquantamila individui, ci sono cinquantamila teste piene di pensieri segreti, di gelosie, di sospetti. Sotto quei grandi berretti neri calcati severamente fino alle orecchie hanno teste dure! Eppure proprio da questa gente, da questi contadini rimasti tali, dipenderà addirittura lo stesso avvenire della industria.

Nella immensa vallata che si apre da Ragusa verso Modica pullulano infatti trentamila capi di bestiame; qui vengono prodotti più carne e latte che in qualsiasi altra zona dell’isola; qui viene distillato il vino più solido, vengono confezionati i formaggi più saporiti. Ci sono ortaggi, olio, cereali, zucche, pomodori, colture primaticce.

Ognuno però produce per conto suo, produce quanto gli consentono le sue forze e quanto gli basta per avere il cibo, la casa, gli abiti decorosi, gli animali da lavoro, i soldi per la dote delle figlie femmine. Ognuno produce come può e secondo i suoi mezzi di singolo: se per fare una pezza di caciocavallo non gli basta il latte di una giornata, aspetta la mungitura del secondo giorno ed unisce le due pezze che vengono però di colore diverso. Il trasporto viene effettuato a dorso di mulo.

Non ci sono magazzini per conservare il prodotto, e perciò bisogna venderlo subito, prima che vada a male, ed al prezzo che impongono i mediatori o i grossisti.

La vallata è fradicia di acqua, ma le forze economiche di una sola famiglia contadina non bastano per scavare i pozzi e costruire gli impianti di irrigazione. Il contadino raccoglie il prodotto, lo carica nei sacchi e lo vende per qualche migliaio di lire; la sua fatica è finita: altri (e altrove, a mille miglia di distanza o all’estero) si occuperanno di confezionare, inscatolare, conservare, spedire, rivendere ad un prezzo moltiplicato. Lo stesso incredibile frazionamento della proprietà che pure è un indice di civiltà sociale, distribuisce l’agiatezza, ma è un benessere umile, fatto di rinunce, di rassegnazione al sacrificio. E distrugge le possibilità industriali dell’agricoltura. Solo che questa folla di agricoltori e contadini si unisse in cooperative, cioè organizzasse solidalmente il proprio lavoro, essa potrebbe decuplicare la ricchezza sua e dell’intera popolazione, creare decine di nuove industrie basate su valori solidi e definitivi.

Poiché il fondo del problema, al di là di tutte le illusioni del petrolio, è questo: la ricchezza, unica, solida, reale ricchezza di questa immensa plaga che si affaccia al mare d’Africa, è l’agricoltura: la pazienza, il sacrificio, la genialità individuale, la rassegnazione, l’indicibile amore con cui la gente si dedica alla terra. Del resto che questa sia una società agricola per eccellenza si vede da ogni cosa, dalle abitudini, dall’abbigliamento, dalla maniera di stare insieme e di valutarsi a vicenda, dalla parsimonia con cui si spende, dalla stessa pacata, malinconica rassegnazione al proprio stato. Gli stessi eventi amministrativi radicano questa convinzione di bonomia e timidezza: il Comune ha poco più di 350 dipendenti, cinquanta vigili urbani e appena sessanta netturbini. Le strade sono pulite, ma spesso manca l’acqua, specie nei quartieri di nuova costruzione; il deficit del bilancio è stato contenuto in appena settecento milioni, ma sull’altipiano mancano le strade, le fognature sono insufficienti, l’ospedale è troppo piccolo, mancano ancora centinaia di aule scolastiche.

Ragusa è una città che avrebbe la posizione e la possibilità per diventare una capitale nella sua terra, ma finora non ha dimostrato di averne la vocazione. I governanti peraltro non le hanno concesso quasi niente: il regime fascista le dette dignità politica di provincia e il dopoguerra solo una grande illusione. Né strade, né ferrovie, né acqua. È rimasta una città isolata sulla cima di una vasta e bassa montagna. Vive del suo umile benessere che è riuscita a difendere restando attaccata alla sua terra, che però non ha osato moltiplicare. Una piccola capitale dell’estremo sud dell’Italia, dove i disoccupati sono pochi, ma dove non c’è ancora un teatro capace di grandi spettacoli, dove c’è solo una galleria d’arte e la gente trascorre il suo tempo libero nei bar, nei cinema, nelle sale da bigliardo, seduta in fila sui marciapiedi a mangiare la granita con la brioche, in attesa che suoni la messa di mezzogiorno. Una piccola capitale economica nella quale non ci sono oramai poveri e non c’è nessuno veramente ricco: seria, silenziosa, paziente, un po’ sospettosa, dove il denaro ha un valore essenziale e la cosa soprattutto rispettata è il lavoro.

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