Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


C’è una Sicilia misteriosa e remota che nessuno conosce. Così lontana (lontana dalle notizie del mondo, dalle coste del mare, dagli interessi umani, da tutte le cose dentro le quali noi siamo fino al collo) da apparire irraggiungibile. Paesi che gli indigeni costruirono cinquecento o mille anni or sono sulla cima di incredibili montagne, le case l’una sull’altra, in modo che si reggessero a vicenda, e su in cima un torrione e un campanile.

I barbari, i saraceni, i normanni, gli arabi saccheggiavano le coste, ma non ardivano giungere fin lassù. Per conquistare un paesino ci sarebbe voluto un esercito che però avrebbe dovuto valicare montagne, guadare i torrenti, procurarsi il cibo, seminare di morti quelle giornate di avventura, e poi cercarsi la via disperata della fuga in mezzo a quelle vallate. E per quale obiettivo? Distruggere un mucchio di case e un campanile, razziare una decina di stalle, rapire o stuprare un centinaio di pecoraie.

Questi paesini furono le sole cose invitte della storia siciliana fatta di invasioni, stragi, dominazioni. Passarono i barbari ed i paesini rimasero in cima alle montagne e divennero baronie.

Non fu una grande evoluzione civile. Molti baroni furono semplicemente quei pecorai o contadini che avevano la famiglia più numerosa, più folta di figli maschi e quindi potevano imporre i loro interessi a bastonate nei confronti dei contadini o pecorai rivali. O più semplicemente il contadino più forte, il più ricco o astuto, magari il più malvagio, cioè disposto secondo la teoria dei Borgia a eliminare gli avversari.

I vicerè della costa, che venivano da Siviglia o Tolone, non concedevano infatti baronie a coloro che avessero maggiormente illustrato il villaggio per vigore cristiano o studi umanistici (l’analfabetismo peraltro era quasi totale) ma a quei sudditi che avessero la casa più robusta, che fornissero all’occorrenza un maggior numero di armati, che pagassero un tributo più sicuro di olio e frumento.

I preferiti a loro volta non misero tempo a farsi case ancora più alte e minacciose, a imporre balzelli, ad acquistare spade di migliore tempra, esercitarsi nell’uso delle stesse, accaparrarsi la fedeltà dei più rissosi e violenti, mangiare meglio, vestirsi meglio, imparare a leggere e scrivere, istruire le truppe, adulare il vicino più potente, tradire il più debole, razziare il feudo del vicino distratto ed in definitiva guadagnarsi il titolo.

Molte baronie, ducati, contee furono guadagnati valorosamente sui campi di battaglia delle crociate, altre invece si formarono cupamente nelle segrete regioni dell’isola dove l’autorità dei sovrani non era riuscita mai a penetrare.

Passarono i secoli. I baroni scesero alle città della costa, ai grandi centri della pianura: erano ricchi di soldi e dell’ambizione di distinguersi in una società dove non ci si faceva più avanti a bastonate, ma con arti più sottili e insidiose. Comperarono agrumeti in pianura, costruirono palazzi nelle città, dai maestri del colore fecero dipingere quadri dove i loro antenati erano effigiati con pergamene e pandette, fondarono pie istituzioni, costruirono giardini pubblici, fecero studiare i loro figli che a loro volta illustrarono le nuove città di residenza, divennero senatori, professori, esploratori, si sposarono fra cugini per conservare più a lungo la «roba».

Così per secoli finché, nello spazio di cinquant’anni, una cataratta di guerre e rivoluzioni non li cancellò come ceto, come organismo produttivo della società e li disperse pateticamente sulla faccia della terra, in piccoli feudi sfuggiti alla riforma agraria o negli uffici delle banche.

Lassù, sulle cime delle montagne dov’essi li avevano lasciati, e come li avevano abbandonati, rimasero i misteriosi, minuscoli paesi, aggrappati sullo strapiombo delle gole, per centinaia di anni sempre più remoti, più vecchi, avulsi, anzi recisi da qualsiasi interesse sociale, politico ed umano che non fosse l’interesse degli sparuti superstiti. Se strade e sentieri c’erano per la costa, si coprirono di erba e polvere, franarono o furono cancellati; l’unica strada per molti paesi rimase il letto del torrente, che saliva da una gola all’altra e si insinuava fra le valli.

Si calcola che almeno duecentomila siciliani abitino ancora in paesi così, dove gli altri cinque milioni di isolani non metteranno mai piede, e di cui si conoscerà solo il nome, quasi per una leggenda. Ne abbiamo scelto uno per conoscerlo: Mongiuffi, per il quale il gergo popolare ha creato oscure e pittoresche allusioni. Un nome che sembra una razza, una tribù...

Oltrepassato il golfo di Mazzarò ed il capo Spisone, lungo la costa di Letojanni, c’è una grande fiumara che sbuca fra due montagne, e lì accanto una strada minuscola che subito scompare fra i dirupi. Uno specie di varco segreto, un trabocchetto. Subito si comincia a salire e si valica una prima montagna, si scende ad una valle e si risale sul fianco di un’altra montagna, per una strada che diventa sempre più stretta.

Credi ancora d’avere il mare alle spalle, ma quando improvvisamente ti volti, trovi solo una muraglia di montagne, il mare è scomparso, inghiottito di colpo laggiù in fondo alla valle, come per lo scarico di un lavandino. E si sale, prima erano forse colline, ora autentiche montagne; cominci a sentire un rumore sterminato e lontanissimo; sono le acque che corrono da ogni dove, sul fondo dei burroni, fra i crepacci, i boschi, sottoterra, sul fianco dei monti, da un’infinità di misteriose vie e sorgenti.

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