Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


L’8 novembre 1985 venne quindi depositata l’ordinanza-sentenza, che consta di 8.608 pagine contenute in 40 volumi con 22 allegati, il cui incipit recita: “Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e la intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore”.

La strada verso il Maxiprocesso era ormai spianata.

Quando era in fase avanzata la stesura della ordinanza-sentenza realizzammo che le aule delle Corti di Assise del Palazzo di Giustizia non avrebbero potuto “ospitare” gli oltre quattrocento imputati rinviati a giudizio, in stato di detenzione e a piede libero, le parti civili, gli avvocati difensori, i testimoni. E tanto meno contenere il pubblico, i giornalisti e gli operatori televisivi, provenienti da tutte le parti del mondo per raccontare e trasmettere le fasi di quello che già era considerato nell’immaginario collettivo il più imponente processo mai celebrato al mondo contro un’organizzazione criminale.

Venne presa in considerazione ma subito abbandonata l’ipotesi di “spacchettare” il processo rinviando a giudizio gli imputati, opportunamente selezionati secondo i reati loro contestati, davanti diversi collegi. Questo perché si sarebbe corso il serissimo rischio che i diversi giudici coinvolti non percepissero la visione unitaria di Cosa nostra e ci fosse il pericolo di contrasti o difformità di giudicati tra i vari collegi. Venne esclusa anche la soluzione, sostenuta da una parte della classe forense, di celebrare il processo in altra città che fosse dotata di un’aula adatta alla bisogna. No, il processo poteva e doveva essere celebrato a Palermo.

Fu pertanto necessario costruire in tempi brevissimi una struttura, accanto al carcere borbonico dell’Ucciardone (per consentire il passaggio dei detenuti dalle loro celle all’aula senza pericolo alcuno), dove sarebbe stato possibile celebrare il processo in condizioni di assoluta sicurezza essendo stati previsti anche sistemi di protezione in grado di resistere persino ad attacchi missilistici. Venne completata in circa sei mesi, pochi giorni prima del 10 febbraio 1986, data di inizio del processo, grazie anche al lodevole impegno di Liliana Ferraro, vice-direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia.

Quando vuole lo Stato è in grado di essere veloce ed efficiente.

La struttura è costata 36 miliardi di lire (circa 18,5 milioni di euro) e venne realizzata molto in fretta, con turni di lavoro che andavano dalle sei del mattino alle dieci di sera, senza giorni di riposo, e che vedevano impegnati 120 operai. Tempi record per le abitudini italiane e siciliane,

soprattutto tenendo conto che vennero utilizzati quelli che per l’epoca erano sofisticati sistemi di sicurezza.

L’aula bunker, detta anche “aula verde” per il colore del pavimento, ha forma ottagonale e dimensioni mastodontiche, che consentono la contemporanea presenza di circa seicento imputati, “ospitati” nelle trenta gabbie poste di fronte lo scranno dei giudici, mentre numerosissimi e vasti spazi delimitati sono destinati agli avvocati, ai testimoni, agli imputati a piede libero e al pubblico. La definizione di aula bunker non era di certo “usurpata”.

Questo luogo simbolo della lotta a Cosa nostra da molti anni ogni 23 maggio viene “invaso” da studenti e studentesse delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, in occasione della premiazione di scuole o singole classi vincitrici del concorso indetto annualmente da Fondazione Falcone e Miur.

Le studentesse e gli studenti che oggi siedono sui banchi di scuola non erano nati il 23 maggio 1992, ma la partecipazione riscontrata di volta in volta e la profondità dei lavori realizzati, nonché la qualità dei percorsi di educazione alla legalità, cittadinanza e Costituzione, testimoniano quanto l’esempio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, delle donne e degli uomini delle scorte e di tutte le vittime della criminalità organizzata sia vivo e attuale nelle nuove generazioni.

Da alcuni anni l’aula bunker è anche meta continua di turisti di ogni nazionalità in visita a Palermo, al pari dei monumenti e dei luoghi più famosi del capoluogo, attratti dalla opportunità di vedere con i propri occhi il “teatro” in cui lo stato sconfisse Cosa nostra.

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