Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


I servizi di scorta riprendono, con ritmo pressoché quotidiano, dal 16 gennaio; Falcone sale da noi con minore frequenza, ma vengono pubblici ministeri di Palermo e giudici istruttori siciliani e non solo; non si va più all’Istituto Superiore in viale Marconi, e i verbali si fanno solo da noi, in viale dell’Arte. Qualche volta i magistrati vengono con i funzionari di polizia o con gli ufficiali dei carabinieri che hanno svolto le indagini e i verbali se li scrivono per conto loro, ma il più delle volte scrivo io. Per l’ufficio passano magistrati anche stranieri, che interrogano per rogatoria; ricordo il giudice Sampieri, di Marsiglia, a dimostrazione delle dimensioni sovranazionali assunte da Cosa nostra e dell’importanza di una testimonianza resa dall’interno. […].

All’inizio di febbraio arriva la notizia che si dovrà scendere di nuovo a Palermo, Mannoia non la prende bene: l’impegno di gennaio non è stato affare di poco conto, e non solo per lo spavento del viaggio di andata. C’è qualche riunione burrascosa, al nucleo, ma non ci si può rifiutare di andare, e stavolta il mezzo scelto per il viaggio è il migliore tra quelli possibili: un piccolo jet del Cai, la compagnia aerea dei servizi segreti che organizza e gestisce i voli di stato, con partenza e arrivo nello stesso giorno dall’aeroporto di Ciampino; stavolta non sono chiamato in causa, mi tocca solo la solita scorta, da Casal del Marmo a Ciampino e il ritorno, a tarda sera. Meglio così.

Gli incontri con gli emissari americani si fanno più frequenti, pare che non ci siano ostacoli al trasferimento del “pentito” negli Stati Uniti e al suo inserimento nel loro programma di protezione dei testimoni: era tempo!

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Per quanto mi riguarda io sono davvero stanco, anche se a metà marzo finalmente arriva il provvedimento che concede a Mannoia il beneficio degli arresti domiciliari: niente più Casal del Marmo, niente più blindate, si torna alla riservatezza di un domicilio scelto abbastanza vicino al nostro ufficio e conosciuto da pochissime persone, e a spostamenti fatti con auto che non diano troppo nell’occhio.

Mi auguro che arrivi presto l’ora della partenza: sono stanco anch’io, dopo otto mesi di questa vita, siamo tutti stanchi, al Nucleo, e alcuni faticano a mantenere quell’atteggiamento asettico e distaccato che si impone. Tra noi c’è chi semplicemente non si è mai posto il problema: fare una scorta, un servizio di vigilanza, ascoltare un’intercettazione o eseguire un arresto è semplicemente parte del lavoro, e non se ne fa una questione di gradimento.

Qualcuno apprezza diversamente il contributo che può dare un “pentito”, valuta il risparmio di risorse che si ottiene limitandosi a dover cercare riscontri alle dichiarazioni invece di avviare indagini da zero, valuta il peso dei crimini scoperti e puniti e di quelli evitati arrestando delinquenti in libertà, ma c’è anche chi manifesta abbastanza apertamente diffidenza e insofferenza nei confronti delle collaborazioni processuali.

La Polizia è caratterizzata da un forte senso di appartenenza, ritenuto un valore in senso assoluto, al punto che la solidarietà e il reciproco sostegno prevalgono talvolta sulla valutazione obiettiva di avvenimenti e circostanze; l’importanza attribuita a questo valore supera spesso ogni altra considerazione, e accade, così, che il giudizio negativo e il disprezzo nei confronti di chi lo tradisce o non vi adempie pongano in secondo piano elementi oggettivamente rilevanti: chi tradisce è infame per definizione, secondo alcuni, e poco importa se tradisce per necessità, per convenienza o persino in nome di un principio morale più importante.

Quasi nessuno, poi, si interroga sul dramma interiore che ogni collaboratore ha dovuto affrontare, sui tragici avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e fatto maturare il proposito di collaborazione, ma questo va bene, secondo me: siamo poliziotti, per fortuna, non giudici, e, come amava ripetere spesso Peppe Zannini Quirini, il primo funzionario che ho avuto come diretto superiore al nucleo centrale anticrimine: “siamo tutti peccatori”.

Anche tra noi c’è chi guarda a Mannoia con sufficienza, addirittura con fastidio e disprezzo, eppure i risultati della sua collaborazione sono lì, sotto gli occhi di tutti, e ad aprile arriva anche la ciliegina sulla torta: l’arresto di Giuseppe Lucchese, “Lucchiseddu”, assassino per conto di Cosa nostra e latitante. Lo arresta, a Palermo, Franco Gratteri, grazie anche a indicazioni fornite da Mannoia.

I pentiti sono utili, anzi utilissimi: non soltanto perché fanno luce sugli assetti, sulle strategie e sui metodi delle organizzazioni criminali, non soltanto perché indicano i responsabili di crimini che altrimenti resterebbero insoluti e impuniti (fermo restando che sta a noi trovare gli indispensabili riscontri), ma anche sul piano dell’investigazione pura, quando danno quelle indicazioni, sia pure generiche, che solo chi ha vissuto dentro l’organizzazione conosce.

È il caso dell’arresto di “Lucchiseddu”, il primo dei latitanti di spicco catturati dal Nucleo Centrale Anticrimine dopo il mio arrivo. Vedo tornare a Roma i colleghi che hanno partecipato all’indagine, agli appostamenti e alla cattura; provo una punta di invidia: a tutti piace recitare parti da protagonista, raccontare in prima persona l’emozione del successo, le sensazioni, le ansie, i dubbi che lo hanno preceduto, e inevitabilmente restano in secondo piano, o sullo sfondo, quelli che non hanno storie avvincenti da raccontare.

Chi conosce il lavoro di Claudio e Marco, che dal primo giorno si sono adoperati in ogni modo per soddisfare le mille esigenze del nucleo familiare di Mannoia? Chi può raccontare l’impegno e la dedizione di Giovanna, fresca di corso agenti, appena arrivata da noi e assegnata alla segreteria?

Le hanno affidato le chiavi degli armadi blindati, arriva prima di noi, all’alba, per consegnarci armi e giubbotti antiproiettile; ci aspetta ogni sera per riprenderli in consegna e si occupa di tutta la parte burocratica. Ma si sa: il pubblico vuole immedesimarsi nel protagonista, e – siccome l’uomo è vanitoso per natura – sono in molti quelli che sgomitano per guadagnarsi il posto sul palcoscenico. […].

Un’indicazione “utile”

Franco Gratteri torna da Palermo giustamente soddisfatto, chiede a Mannoia se può dare indicazioni utili anche su Bernardo Provenzano, ma Mannoia non lo conosce di persona, e si limita a dirgli che secondo lui andrebbe cercato non distante da Bagheria, che è sempre stata la sua roccaforte. Era l’aprile del 1990 e molti anni dopo, nel 2005, con il “gruppo Duomo” proprio da Bagheria abbiamo ripreso il filo che ci ha portato ad arrestarlo.

Nel “gruppo Duomo” c’ero anch’io, ma questa è un’altra storia, e la racconterò più avanti. Arriva l’ufficialità: Mannoia partirà a metà giugno, con modalità segrete, e due di noi lo accompagneranno: è un viaggio premio, o poco più. I capi mi chiedono se sono interessato.

È curioso, – rifletto – quando si trattava di scendere a Palermo con l’Observer non me l’ha chiesto nessuno se fossi interessato. Ma non ho lo spirito adatto per fare polemiche, così rispondo solo di no. L’11 giugno ricevo dal Ministero un “encomio solenne”, con la seguente motivazione: «Preposto alla squadra incaricata di tutelare l’incolumità personale di un noto “pentito eccellente”, già uomo di punta di una famiglia mafiosa palermitana, si è particolarmente distinto nell’assolvimento del delicato, difficile e rischioso compito, attesane la rilevanza connessa allo spessore del personaggio che con la dirompente decisione di collaborare con la giustizia rendeva possibile incrinare il fronte della fazione al vertice di Cosa nostra».

Leggo e rileggo: peccato, nessun riferimento alle centinaia di pagine di verbali scritti tra una scorta e l’altra, ma per fortuna qualcuno al Ministero ha aggiunto, e stavolta ufficialmente, all’encomio solenne altre cinquecentomila lire, vale a dire un terzo esatto del mio stipendio mensile.

Ripenso ai verbali: ho ascoltato il racconto, ho ascoltato le osservazioni e le considerazioni di Falcone e di Mannoia, spesso convergenti nell’individuazione di cause, motivazioni, retroscena e difficoltà della Sicilia e dei siciliani. Ho ascoltato e ho scritto, e scrivendo ho imparato qualcosa: ho imparato soprattutto ad avere dubbi. Ho imparato che la linea che divide il bene dal male non è sempre così netta, anche perché bene e male sociali spesso si intrecciano e si confondono nel bene e nel male personali.

Settimana dopo settimana ho imparato che per ogni azione bella o brutta non esiste quasi mai una sola causa che la determina, e che perfino gli omicidi che appaiono di facile lettura possono avere motivazioni nascoste, da mantenere in ombra addirittura nell’organizzazione mafiosa che li ha fatti commettere, o che li ha commessi per una inconfessabile convergenza di interessi.

Ho imparato che difficilmente, quando si muore, si muore per una sola causa diretta, e che in Sicilia quelli che sono morti solo ed esclusivamente per la loro opposizione alla mafia, alla mafia come metodo, sono molti meno di quelli che risultano nei conteggi ufficiali.

Ho imparato che le organizzazioni umane, tutte le organizzazioni umane, seguono un percorso sempre uguale, che le porta a deteriorarsi fino a crollare e a essere soppiantate da altre, e che l’inizio del loro declino coincide, sempre, con il momento in cui le regole che loro stesse si sono date iniziano a prevedere eccezioni via via più estese.

Ho imparato, infine, a non affrettare i giudizi, perché scegliere tra il bene e il male comporta diverse difficoltà e meriti diversi a seconda dell’ambiente in cui si è nati e cresciuti, degli esempi che si hanno avuti da bambini, dei modelli culturali di riferimento e dell’istruzione che si ha avuto la fortuna di avere. […].

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