Era il 1820, quando una nave russa piena di marinai e, stranamente, di pinguini – che a dire il vero erano destinati alla cena di quegli uomini – riconobbe un’imponente banco di ghiaccio all’orizzonte. Quell’avvistamento è considerato dalla storia il primo in assoluto della piattaforma di ghiaccio Fimbul che ha segnato la scoperta ufficiale di un nuovo continente: l’Antartide. È da allora che si è iniziato a parlare dell’esistenza di sette continenti, come si continua a insegnare nelle scuole: Europa, Asia, Africa, nord America, sud America, Australia e Antartide.

Ma nel 2017, è successo qualcosa di nuovo, al punto che il modello che suddivide le aree emerse della Terra in sette continenti risulta imprecisa, anzi è un vero e proprio errore. Sei anni fa infatti, ne veniva individuato un ottavo: Zealandia, una terra perduta da tempo che si trova nel sud-est dell’Australia. 

Gli scienziati avevano già predetto nel passato l’esistenza di questa massa continentale meridionale aggiuntiva, ma è rimasta nell’ombra per 375 anni, perché è quasi interamente sommersa sotto 1-2 chilometri d’acqua. Solo adesso si inizia a svelarne i segreti.

Le ricerche

Recentemente infatti, un gruppo internazionale di ricercatori ha pubblicato le mappe più dettagliate ad oggi possibili di Zealandia, le quali incorporano tutti i cinque milioni di chilometri quadrati di questa regione, per lo più sottomarina e la sua geologia. 

Nel realizzare ciò sono stati in grado anche di trovare indizi su come si è formato quel misterioso continente e perché è rimasto nascosto sotto le onde negli ultimi 25 milioni di anni. A scanso di equivoci diciamo subito che non è l’ennesimo luogo ove porre Atlantide, in quanto Zealandia ebbe la sua massima estensione circa 83 milioni di anni fa, verso la fine del periodo cretaceo. La sua storia tuttavia, iniziò 100 milioni di anni prima, quando parte del supercontinente Pangea, il Gondwana (la parte meridionale del supercontinente), iniziò a disgregarsi. 

Mentre si separava in più parti, il continente Zealandia, il più piccolo, sottile e giovane del Pianeta, si sviluppò da solo, mentre prendevano forma anche l’Australia e l’Antartide. Si pensa che tutta o parte della Zealandia possa essere esistita come isola per un bel po’. Ma poi, circa 25 milioni di anni fa, scomparve sotto l’oceano. 

I primi veri indizi che la Nuova Zelanda potrebbe rappresentare solo una piccola porzione visibile di una vasta massa terrestre in incognito sono arrivati ​​nel 2002: allora si scoprì che lo spessore d’acqua sopra quella che oggi chiamiamo Zealandia è considerevolmente meno profondo di quello che la circonda, suggerendo che l’area non era parte di una placca tettonica oceanica – come la maggior parte degli oceani del mondo – ma parte di una continentale che una volta era emersa.
La svolta decisiva poi, è arrivata nel 2017, quando gli scienziati hanno messo insieme diverse prove, inclusi dati sui tipi di rocce presenti sul fondo e sullo spessore della crosta che hanno portato a suggerire che esisteva davvero un continente mai considerato tale. 
Non si tratta di un semplice frammento continentale o di un microcontinente, come era stato proposto in precedenza, ma di una vera e propria area continentale, il 95 per cento del quale è sommerso sott’acqua.

Nonostante l’entusiasmo per la scoperta di un nuovo continente e oltre un decennio di intensa ricerca, molti dettagli sul perché Zealandia fosse sprofondata erano sfuggenti. Ciò fu dovuto ad uno strano evento accaduto quando si separò dal Gondwana. 

Nel 2019, un team internazionale di scienziati impegnati nello studio della geologia della Nuova Zelanda meridionale ha rivelato che a un certo punto Zealandia si era allungata, dilaniata dalle forze tettoniche, che aveva assottigliato il continente rispetto alle normali placche continentali e ciò ha creato profonde fratture che in seguito sono diventate crosta oceanica per risalita del materiale dal mantello terrestre. 
In questo processo, l’iniziale Zealandia si è profondamente distorta e ciò ha reso molto più impegnativa la ricostruzione della sua storia.  L’analisi delle rocce del continente perduto da parte dei ricercatori ha rivelato che lo stiramento è avvenuto in due fasi.

Ma c’erano ancora molti misteri rimasti irrisolti : con l’ultimo studio, un altro gruppo di ricerca – che ha coinvolto molti degli stessi geologi di prima – ha tracciato la mappa della Nuova Zelanda settentrionale.
Questa volta, hanno analizzato le rocce che erano state dragate dal Fairway Ridge, una regione del Pacifico meridionale al largo della costa dell’Australia, che forma la punta più settentrionale della Zealandia. Questi antichi resti, che non hanno avuto un giorno asciutto per 25 milioni di anni, includevano una miscela di rocce ignee e rocce sedimentarie formatesi in bacini poco profondi appena al largo della costa della Zealandia. 

I più antichi erano i ciottoli risalenti al Cretaceo inferiore (circa 130-110 milioni di anni), seguiti dalle arenarie del Cretaceo superiore (circa 95 milioni di anni) e dai basalti relativamente giovani dell’Eocene (circa 40 milioni di anni). Le mappe risultanti della Zealandia la trasformano da una massa anonima in un’area con una geologia ben definita che si incastra con la geologia dell’Antartide occidentale come un puzzle, confermando che questa regione e la Zealandia una volta si incastravano insieme.

La fase successiva dell’indagine ha esaminato le misurazioni delle anomalie magnetiche nel fondale oceanico intorno a Zealandia. Queste variazioni nell’intensità del campo magnetico terrestre costituiscono una registrazione invisibile di come le placche tettoniche si sono spostate nel tempo. 
Hanno rivelato di più sull’antico allungamento del continente, che continuò per milioni di anni e cambiò persino direzione, portando a un continente ultrasottile che alla fine affondò. La Zealandia sta finalmente iniziando a svelare i suoi segreti. Ma ci vorrà del tempo per rivelarli tutti.  

Dove si formano i superfulmini

I superfulmini hanno maggiori probabilità di colpire quanto più la zona di carica elettrica di una nube temporalesca è vicina alla terra o alla superficie dell’oceano. È questo quello che ha scoperto una nuova ricerca che si è dedicata ai fulmini di memorabile potenza.

I superfulmini costituiscono meno dell’1 per cento dei fulmini totali, ma quando colpiscono sferrano un pugno potente. Mentre un fulmine medio contiene circa 300 milioni di volt, i superfulmini  sono 1.000 volte più potenti e possono causare gravi danni alle infrastrutture e, se cadono in mare, alle navi, affermano gli autori. «Sono un fenomeno spaventoso e spettacolare al contempo», ha affermato Avichay Efraim, fisico dell’università Ebraica di Gerusalemme e autore principale dello studio.

Un rapporto del 2019 aveva rilevato che i superfulmini  tendono a raggrupparsi sul mar Mediterraneo, sull’oceano Atlantico nord-orientale e sull’Altipiano del Perù e Bolivia, che è uno degli altopiani più elevati della Terra. l nuovo studio fornisce la prima spiegazione per la formazione e la distribuzione dei superfulmini sulla terra e sul mare in tutto il mondo. La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Geophysical Research: Atmospheres.

Le nuvole temporalesche raggiungono spesso dai 12 ai 18 chilometri di altezza, coprendo un’ampia gamma di temperature. Ma affinché si formino i fulmini, è necessario che una nuvola si trovi a cavallo della linea dove la temperatura dell’aria raggiunge 0 gradi Celsius. Al di sopra della linea di congelamento, nella parte superiore delle nubi, avviene l’elettrificazione e genera la "zona di carica" ​​dei fulmini. Efraim si chiedeva se i cambiamenti nell’altitudine della linea di congelamento e successivamente nell’altezza della zona di carica, potessero influenzare la capacità di una tempesta di formare superfulmini. 

Per determinare cosa causa il raggruppamento dei superfulmini  su determinate aree, Efraim e i suoi coautori avevano bisogno di conoscere il tempo, la posizione e l’energia di determinati fulmini, che sono riusciti ad ottenere da una serie di rilevatori di onde radio. Hanno utilizzato questi dati sui fulmini per estrarre le proprietà chiave dagli ambienti delle tempeste, tra cui l’altezza della superficie terrestre e dell’acqua, l’altezza della zona di carica, le temperature della parte superiore e inferiore delle nuvole e le concentrazioni di aerosol. 

Hanno poi cercato la correlazioni tra ciascuno di questi fattori e la forza dei superfulmini, riuscendo così a determinare cosa causa fulmini più forti e cosa no. Lo studio sostiene che una distanza minore tra la zona di ricarica e la superficie terrestre o acquatica può portare a fulmini significativamente più energici. Le tempeste vicine alla superficie consentono la formazione di fulmini ad alta energia perché, generalmente, una distanza più breve significa una minore resistenza elettrica dell’aria e quindi una corrente più elevata. E una corrente più elevata significa fulmini più forti. Le tre regioni che sperimentano il maggior numero di superfulmini hanno tutte una cosa in comune: brevi spazi tra le zone di ricarica dei fulmini e la superficie terrestre. "La correlazione che abbiamo osservato era molto chiara e significativa, ed è stato molto emozionante vedere che si verifica nelle tre regioni", ha affermato Efraim. Sapere che una breve distanza tra una superficie e la zona di carica di una nuvola porta a più superfulmini  aiuterà gli scienziati a determinare in che modo i cambiamenti climatici potrebbero influenzare la comparsa di fulmini superfulmini  in futuro. 

© Riproduzione riservata