Ci stiamo giocando le spiagge italiane. Un azzardo rischioso fatto di concessioni balneari, erosione costiera, grandi eventi, che stanno trasformando anno dopo anno la linea di costa italiana. Un gioco pericoloso che non mette a repentaglio solo gli ecosistemi dunali, in forte regressione ovunque, ma anche le stesse attività economiche che vivono di turismo estivo.

L'aumento del livello del mare e di eventi estremi come mareggiate e trombe d'aria, ogni anno mangiano letteralmente migliaia di metri cubi di sabbia e stanno mettendo a repentaglio gli stabilimenti balneari, a volte inghiottendoli del tutto, e le strutture ricettive costruite sulla linea di costa. In 50 anni, ovvero dal periodo che va dal 1970 al 2020, abbiamo perso 40 milioni di metri quadri di spiagge, a causa dell'erosione costiera che, nello stesso periodo, è triplicata.

Un dato che equivale a quasi 6mila campi da calcio, per fare una delle classiche proporzioni, o poco meno di una decina di piazze San Pietro. Oggi il 46 per cento delle coste sabbiose italiane è colpito da erosione, con picchi del 60 per cento e oltre in Abruzzo, Sicilia e Calabria. Come riporta l'ultimo “Rapporto spiagge 2022” redatto da Legambiente a giugno di quest'anno, “è come se avessimo perso 23 metri di profondità di spiaggia per tutti i 1.750 km di litorale in erosione”.

Tra cemento e opere di protezione costiera

Mentre la spiaggia arretra, aumentano le costruzioni artificiali, in particolare nelle zone retrostanti che ogni anno vengono sostituite da oltre 10 chilometri di opere antropiche, come rivelava l'aggiornamento della banca dati "Linea di Costa Italiana" di Ispra, presentato a fine maggio. Secondo i ricercatori il 13 per cento delle coste italiane è occupato da opere artificiali come porti, opere di difesa costiera, opere idrauliche di impianti industriali, strutture artificiali a supporto della balneazione.

Negli ultimi 20 anni, la costa antropizzata è aumentata complessivamente di oltre 100 chilometri, con le aree che fanno da interfaccia tra spiaggia e territorio circostante che rimane naturale solo per la metà, mentre oltre il 20 per cento è completamente occupato da opere artificiali, come infrastrutture viarie, abitazioni, lidi, siti produttivi.

La profonda presenza di opere artificiali, a volte realizzata proprio per prevenire gli effetti erosivi e a causa di mareggiate eccezionali, ha invece innescato fenomeni di erosione dovuti all'alterazione della naturale dinamica litoranea. Una spesa enorme che si aggira intorno ai 100 milioni di euro all’anno solo per opere di difesa costiera, secondo le stime dello studio CoReMaspiagge aggiornato al 2020.

Interventi finanziati dallo Stato e, in parte, da Regioni e Comuni, e quindi pagate dalla collettività, a fronte dei 92,5 milioni effettivamente incassati dallo Stato dalle concessioni balneari. In sostanza oltre 1.300 chilometri di costa sono ingabbiati da opere artificiali, su un totale di 8.300 chilometri.

Da Nord a Sud crescono le concessioni balneari

Nel frattempo sempre Legambiente stima siano poco più della metà le spiagge liberamente fruibili dai cittadini. Risulta occupato infatti da stabilimenti balneari quasi il 43 per cento delle coste sabbiose, mentre il 7,2 per cento non è balneabile a causa dell'inquinamento delle acque o perché non monitorata e campionata.

Da sole Sicilia, Calabria e Campania contano 65 chilometri di coste interdette alla balneazione su un totale di 72 chilometri a livello nazionale. Come non bastasse, i fazzoletti di sabbia lasciati liberi si riducono di anno in anno: dal 2018 al 2021 le concessioni sono aumentate passando dalle 10.812 unità alle 12.166.

In Sicilia sono 200 i nuovi stabilimenti sorti in tre anni, mentre in Liguria, Emilia-Romagna e Campania si arriva anche al 70 per cento di spiagge occupate. In alcuni casi come a Pietrasanta, Camaiore, Montignoso, Laigueglia e Diano Marina si arriva al 90 per cento e le aree libere sono quelle vicine agli scoli dei torrenti o in aree degradate, dove è sconsigliata o vietata la balneazioni. Una situazione che non trova eguali nel resto d'Europa.  

Lo stato di salute (pessimo) degli ecosistemi dunali

Nel caldo agosto che ci sta traghettando verso un'insolita tornata elettorale, sta facendo molto rumore uno degli eventi che ha portato centinaia di migliaia di persone sulle spiagge italiane, fortemente criticato da associazioni e cittadinanza attiva. Decine di scienziati naturalisti, di biologi marini e conservazionisti hanno tentato, inutilmente, di portare all'attenzione quanto questi ecosistemi, già fortemente antropizzati e in declino, siano messi ulteriormente a rischio da questo tipo di grandi eventi.

Le dune costiere infatti sono tra gli habitat con il peggiore stato di conservazione su scala globale, europea e nazionale. In un recente studio realizzato da un gruppo di esperti territoriali si è valutato lo stato di conservazione degli habitat dunali italiani come “drammaticamente pessimo”: la valutazione complessiva ha riportato l’88 per cento degli habitat in cattivo stato di conservazione e il restante 12 per cento in condizioni inadeguate. I risultati hanno mostrato una minaccia generalizzata e uno stato di conservazione preoccupante sia delle comunità erbacee che di quelle boschive, in particolare in alcuni habitat rilevanti, come le dune mobili.

Le principali pressioni e minacce sono legate alle attività residenziali, commerciali e industriali, nonché alle specie aliene. Le dune e gli ecosistemi dunali sono riconosciuti e protetti a livello internazionale anche dalla direttiva Habitat, perché capaci al loro interno di ospitare decine di specie animali e vegetali e di creare luoghi ad elevatissima biodiversità. Non si tratta “solamente” di natura. Ma soprattutto di “capitale naturale”: le dune infatti sono riconosciute avere un ruolo determinante nella mitigazione dei cambiamenti climatici e nei rapporti dell'Ipcc vengono indicate come soluzioni ideali per ridurre l'erosione.

Le delicatissime piante che qui mettono radici, come la gramigna delle spiagge o la camomilla delle spiagge, concorrono a depositare e trattenere la sabbia, impedendone la dispersione e rivelandosi come importantissimi serbatoi capaci di restituirla gradualmente, rallentandone o addirittura fermando la scomparsa delle spiagge. Non si tratta dunque di vietare i grandi eventi, ma di comprendere come alcuni luoghi debbano essere considerati semplicemente inadeguati ad ospitare decine di migliaia di persone, siano essi già fortemente antropizzati o, nella migliore delle ipotesi, aggrappati ad un delicato equilibrio che può essere spazzato via in poche ore.

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