Buongiorno, benvenute(i) a un nuovo appuntamento con Areale, iniziamo, ci sono tante cose da dire.

Due omicidi lungo la frattura

Partiamo da due nomi: Dom Phillips e Bruno Pereira. Phillips era un giornalista britannico, Pereira era un attivista brasiliano per i diritti degli indigeni. Erano scomparsi nella Vale do Javari, uno dei più grandi territori indigeni del Brasile, un’area interna più grande dell’Austria, quasi al confine col Perù. Phillips stava completando le sue ricerche per un libro che stava scrivendo, How to save the Amazon, il racconto su come nella più importante foresta del mondo uno sviluppo sostenibile sia ancora possibile. Un libro di speranza e possibilità. Pereira era la sua guida. La polizia brasiliana ha trovato i loro corpi e arrestato due uomini, che avrebbero già confessato l’omicidio. Una storia orribile, che abbiamo il dovere di conoscere.

Come ha scritto Jonathan Watts sul Guardian, il giornalista e l’attivista sono stati assassinati «in una guerra globale non dichiarata ufficialmente contro la natura e contro le persone che la difendono. Il loro lavoro era importante per il pianeta che abitiamo e per le attività che lo minacciano, e deve essere continuato. Le linee del fronte di questa guerra sono le ultime regioni biodiverse della Terra: le foreste, le terre umide, gli oceani, essenziali per la stabilità del clima e per il sistema planetario che sostiene la nostra stessa vita. L’integrità di questi ecosistemi è sotto attacco da parte del crimine organizzato e dei governi criminali che vogliono sfruttare il legname, l’acqua e le estrazioni minerarie per profitti illegali a breve termine».

Nel 2020, ultimo anno su cui i dati raccolti da Global witness sono disponibili, sono stati uccisi quattro difensori dell’ambiente ogni settimana, 227 tra attivisti come Pereira e giornalisti come Phillips. I paesi più pericolosi per la protezione attiva degli ecosistemi sono Colombia, Messico e Filippine. Il Brasile, con 20 omicidi nel 2020, è al quarto posto.

Ci vorrà tempo per conoscere i dettagli della morte di Phillips e Pereira, o forse non succederà mai, la polizia brasiliana è stata lenta nell’avviare le ricerche, il presidente Jair Bolsonaro ha definito la loro uccisione «un atto malvagio», ma ha anche dato la colpa alle due vittime per essersi inoltrate in un territorio pericoloso. La valle è «uno degli ultimi santuari della wilderness in Amazzonia e nel mondo, ma è anche un punto caldo del traffico di fauna selvatica, dell’estrazione di legname illegale, luogo di conflitti tra le comunità indigene e i residenti, nel quale le attività criminali sono impunite», spiega Scott Wallace, autore di The unconquered: in search of the Amazon’s last uncontacted tribes. È anche una nuova rotta della cocaina che parte dal Perù, diventato il secondo produttore globale dopo la Colombia.

Nella valle dove sono stati uccisi Phillips e Pereira vivono 6.000 indigeni divisi in 26 gruppi etnici, 19 dei quali ancora praticamente incontattati. Gli attivisti dal 2019 puntano il dito contro Bolsonaro, per aver creato le condizioni politiche che hanno fatto esplodere la devastazione ecologica e lo sviluppo di attività criminali ed estrattive in quel territorio. Sullo sfondo di questo duplice omicidio, e della guerra contro la natura di cui scriveva Jonathan Watts, c’è la domanda: a chi appartiene l’Amazzonia? Cosa è la sovranità brasiliana (o peruviana o boliviana) di un territorio così importante per l’umanità tutta? Gli indigeni – e le persone che lavorano per proteggerli o per raccontare le loro storie – vivono lungo questa linea di frattura: la ricerca accademica da anni li ha eletti, dati alla mano, gli unici custodi credibili di questi ecosistemi per conto di tutta l’umanità. Una posizione inaccettabile per il sovranista Bolsonaro, che dal 2019 ha visto quell’ecosistema come una grande miniera di risorse a cielo aperto da sfruttare e di terra da ricolonizzare. È questo lo scenario della morte di Phillips e Pereira. Il sovranismo è pericoloso per il clima quanto i combustibili fossili.

Phillips viveva in Brasile da anni. Nella sua prima vita si era occupato a lungo di musica, amava Björk e Bowie, aveva raccontato la scena rave britannica e aveva scritto un libro sull’ascesa della musica elettronica e della cultura dj. Era arrivato in Brasile per scrivere e fare ricerche e così era iniziata la sua seconda vita, da corrispondente all’estero. Aveva seguito i giochi olimpici e i mondiali di calcio, ma la grande missione era diventata il racconto degli ecosistemi della sua nuova terra. Quello nella valle doveva essere il suo ultimo viaggio di ricerca prima di pubblicare How to save the Amazon. Aveva 57 anni. Pereira aveva 41 anni e due figli, veniva dal nord est, aveva lavorato per Funai, Fundação Nacional do Índio. Viaggiavano e lavoravano insieme da quattro anni.

Questa è l’acqua

La crisi idrica che è esplosa nel dibattito pubblico italiano (più o meno, diciamo che almeno è finalmente visibile) ha tante radici diverse: la crisi climatica, il crollo delle precipitazioni nella parte più importante dell’anno idrologico (autunno e inverno), la difficoltà nel percepire l’emergenza climatica come tale, i ritardi nell’adattamento del territorio, la cultura degli sprechi. Ne ho scritto in questo articolo: la siccità è diventata la nuova normalità climatica italiana. È una tempesta perfetta, mi ha detto Luca Brocca di Irpi, ma non dobbiamo illuderci di poter resistere, sopravvivere e dimenticare. Questa è l’acqua, avrebbe detto David Foster Wallace. E forse è per questo che non la vediamo più. Speriamo di non dover dire: questa era l’acqua. 

Ci sono tanti aspetti ecologici preoccupanti, in questa storia che procede dai monti e dai laghi alpini fino alle valli e al delta, ma forse la più sinistra di tutte è la risalita di 15 chilometri del cuneo salino nel delta del Po, con l’acqua salmastra del mare che si prende spazio e conquista le falde, per il triplice effetto della scarsità di acqua dolce, dell’aumento quasi disperato dei nostri prelievi e della risalita del livello del mare.

Non è solo la storia del Po, è la storia dei fiumi del mondo. Nel delta del Mekong il sale è stato paragonato – per il livello della minaccia chimica – all’agente arancio americano usato nella guerra del Vietnam. In questa, che è una delle aree più densamente popolate e più importanti dal punto di vista agricolo dell’Asia, il cuneo salino è risalito di 64 chilometri all’interno del delta. Anche qui il disastro è un effetto combinato: innalzamento del mare a valle, sfruttamento dell’acqua a monte, per un fiume lungo 5mila chilometri che passa attraverso sei paesi.

Uno studio pubblicato dalle università di Manchester e Amburgo aveva prodotto una mappa della salinizzazione globale dei fiumi. Non solo il Po e il Mekong: Australia, Messico, Sudafrica, Stati Uniti, Brasile, Spagna. La risalita del livello salino lì dove dovrebbe esserci acqua dolce potrebbe essere una delle prime cause di migrazioni ambientali, le nazioni insulari del Pacifico potrebbero ritrovarsi senza acqua dolce per la metà di questo secolo, aveva avvisato una ricerca dello US Geological survey. E un territorio dove non si può bere è un territorio dove non si può vivere.

Nel triplo delta di Gange, Brahmaputra e Meghna in Bangladesh la perdita di acqua dolce per la risalita del mare nei corpi idrici è già citata come la prima causa di migrazioni. Negli Stati Uniti un terzo dei fiumi è diventato più salato negli ultimi venticinque anni, nel Rio Grande la salinità è cresciuta del 400 per cento, in Australia occidentale due milioni di ettari di coltivazioni sono stati danneggiati dal sale, un danno per 700 milioni di dollari all’anno. Un terzo del cibo mondiale dipende dall’irrigazione, un quinto dell’acqua che usiamo per irrigare nel mondo è contaminata dal sale.

Parchi eolici, vento e il futuro che esiste

Tiriamo il fiato, so che è tanto da mandare giù. Quindi parliamo di una cosa bella. Legambiente ha pubblicato la seconda edizione di Parchi del vento, la guida turistica dei parchi eolici italiani. Sì, turistica. A me personalmente piace, ma so che l’eolico provoca sentimenti estetici contrastanti, ed è normale, perché sono nuovi, sono obiettivamente grandi e vistosi, e anche perché l’Italia è un paese educato a un’idea feticistica del paesaggio. Tendiamo a viverlo come qualcosa di immutabile, eterno e naturale, quando invece il paesaggio è l’esatto opposto, è la cosa più umana che esista, è la nostra modellazione del naturale, è la prova che esistiamo, che non possiamo né dobbiamo sparire. Il paesaggio è storia, è il riflesso nello specchio naturale di quello che siamo, vale per i boschi, vale per l’agricoltura, vale anche per l’eolico.

«L’idea di una guida turistica ai parchi eolici italiani nasce dall’obiettivo di permettere a tutti di andare a vedere da vicino queste moderne macchine che producono energia dal vento e di approfittarne per conoscere dei territori bellissimi, fuori dai circuiti turistici più frequentati», si legge nell’introduzione. E il senso della guida, e del sito dove è possibile consultarla gratuitamente è esattamente questo: andare a vedere con i propri occhi non solo questi luoghi a modo loro strani e suggestivi, ma anche come il paesaggio italiano, e noi con esso, siamo dentro la storia, e questo essere nella storia e poter cambiare le cose contiene la possibilità stessa di salvarci.

Dopo la conclusione di Cop26, e quel suo assurdo finale che aveva offerto al carbone una scappatoia per decenni di emissioni, ero sull’autobus che mi portava all’aeroporto di Edimburgo, stanco e assonnato. Mi ero voltato per guardare il paesaggio e avevo visto un parco eolico lungo l’autostrada, mi aveva fatto lo stesso effetto che aveva fatto al professor Alan Grant vedere lo stormo di pellicani fuori dall’elicottero che lo portava via sano e salvo dal Jurassic Park: ricordargli che i fossili devono restare fossili e che il futuro, nonostante tutto, esiste, ed è interessante e pieno di possibilità.

Per questa settimana è tutto, ci sentiamo sabato prossimo. Per scriverci nel frattempo, la mail la sapete: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, scrivete a lettori@editorialedomani.it.

Ciao!

Ferdinando Cotugno

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