Buongiorno, lettrici e lettori di Areale. Questa settimana è uscita la terza parte del sesto rapporto Ipcc sui cambiamenti climatici e in questo numero della newsletter proveremo a fare un esercizio un po’ vitale: guardare al lato positivo, perché quel rapporto non parla di danni alla Terra o di vulnerabilità, ma di mitigazione, quindi (anche) di senso di possibilità. Il clima sta cambiando, ma anche noi possiamo cambiare, nonostante tutto. Si può fare. In un certo senso, lo stiamo già facendo. Non credete a chi dice «O la Russia o il clima», perché la verità è che, se avessimo lavorato per il clima, non avremmo un gigantesco problema a forma di Russia. 

Antidoti alla paura

Prima, però, parliamo di qualcosa che ha probabilmente attraversato anche il vostro spettro di sensazioni, ed è tutto quello che finisce sotto la definizione di eco-ansia. Non so se «ansia» sia la parola corretta, perché nell’ansia c’è sempre una sproporzione irrazionale tra come ci sentiamo e quello che sta per succedere. Questa paura per il futuro invece ha qualcosa di profondamente fondato, razionale, è la paura di chi ascolta la migliore scienza a nostra disposizione e mette insieme i fatti con il contesto.

Questa settimana in tutto il mondo (Italia compresa) c’è stata la ribellione degli scienziati, e se gli scienziati si ribellano, si incatenano, si fanno arrestare per farsi ascoltare, dobbiamo prestare attenzione.

Cosa possiamo fare con questa paura? Come ha detto Francesco Costa in una puntata del suo podcast Morning, parlando della guerra in Ucraina: non possiamo sceglierci la realtà in cui viviamo. Però è proprio l’ultimo rapporto Ipcc a ricordarci che dentro questa realtà non opzionale o negoziabile ci sono anche buone notizie (ne parliamo sotto) e soprattutto c’è margine, c’è spazio per una vita collettiva più sostenibile. Ed è proprio questo il punto centrale: certi giorni (e certe sere) a schiacciarci non sono soltanto le prospettive, ma soprattutto il senso di impotenza, la domanda un po’ arrendevole «ma cosa possiamo fare?» rispetto all’inesorabilità di questa crisi.

Ecco, le prospettive sono la parte di realtà che non abbiamo il diritto di scegliere, ma l’impotenza non è del tutto reale. Non siamo impotenti e questa crisi non è inesorabile. I cambiamenti climatici possono essere riparati, lo stiamo già facendo, non bene come dovremmo, ma lo stiamo davvero facendo. Farlo meglio e di più e più in fretta è un compito allo stesso tempo individuale e collettivo, e può essere anche un lavoro bello di ricostruzione politica e personale. La riscoperta di un significato esistenziale per un bel po’ di generazioni (ventenni, trentenni, quarantenni) che hanno ereditato un mondo dove il significato si è spesso smarrito. Questa può essere la storia di come ritroviamo un senso per il nostro essere nel mondo.

Parlare di stili di vita personali in relazione all’ambiente può essere un discorso scivoloso, perché l’idea che i cambiamenti climatici si combattano così è stata strumentalizzata dai colpevoli della crisi («colpevoli» è una semplificazione, ma è per capirci). L’idea stessa di carbon footprint individuale (la misurazione di quanto pesiamo sull’atmosfera in quanto persone singole) è stata inventata nel 2004 da British Petroleum, una multinazionale delle fonti fossili di energia. Come a dire: la colpa è vostra, non nostra. Non è chiaramente così però questo non vuol dire che come scegliamo di vivere da persone e consumatori sia una cosa irrilevante o senza importanza, perché non lo è.

La paura per il futuro la si affronta mettendosi al lavoro, e ci sono tanti modi per farlo: l’azione politica, l’attivismo, l’attenzione a come vengono usati i nostri investimenti dalle banche, informarsi, il voto, anche le conversazioni continue che ci capita di avere con le persone ancora distratte.

Ma poi c’è la nostra vita quotidiana, il ciclo di svegliarsi, fare colazione, lavorare, amare, avere delle relazioni, crescere, viaggiare, vivere le proprie giornate. È lì che si insinua la paura, negli interstizi delle giornate, ed è lì che le piccole pratiche quotidiane sono un antidoto. Ridurre la plastica e il consumo di carne, prendere il treno sulle distanze in cui è ragionevole rinunciare all’aereo, andare in bicicletta, consumare meno, quello che volete, non ha lo stesso impatto della grande transizione energetica globale, ma è un modo per combattere la paura, prepararsi a un mondo nuovo, ricucire il nostro rapporto con tutto quello che sta succedendo.

Comportamenti sostenibili e scelte ecologiche sono uno dei tanti strumenti per rivendicare che non siamo soggetti passivi di questa storia, condannati solo a subire l’ingiustizia della perdita di un clima stabile. È un modo per curarsi e disintossicarsi, per tenersi svegli e attenti.

Il lato positivo del rapporto Ipcc

«Se cercate buone notizie sui cambiamenti climatici, dovete sempre andare a guardare nella sezione mitigazione», mi ha detto Stefano Caserini, docente di Mitigazione al Politecnico di Milano, il pomeriggio che è uscito il rapporto. Ed è vero: mitigare è sia curare che prevenire, questa terza parte del sesto rapporto Ipcc ha esattamente questo focus: la cura.

E quindi parliamone, di queste buone notizie, partendo da questo grafico, forse il più importante di tutto il rapporto. Dovreste stamparlo, farne un santino per il portafogli, attaccarlo con una puntina al muro dove guardate più spesso quando avete paura.

Il grafico ci mostra come i costi delle fonti rinnovabili di energia, lo strumento più utile e veloce per mitigare, sono crollati nell’ultimo decennio, e oggi sono più competitivi delle fonti fossili nella maggior parte del mondo. Non cambieremo l’energia solo perché è necessario e giusto, cambieremo perché conviene, perché domanda e offerta sono naturali come inspirare ed espirare, e il respiro dell’economia si sta allineando a quello della Terra.

Rispetto al 2010, i costi dell’energia solare sono scesi dell’85 per cento, quelli dell’eolico del 55 per cento, quelli delle batterie a ioni di litio dell’85 per cento. È merito della curva di adozione, dell’innovazione tecnologica, ma anche dei pacchetti di politica economica, quindi della precisa volontà di farlo. Quando c’è la volontà, il sistema risponde, i risultati seguono. I risultati dipendono dalla volontà e il gap rispetto a dove dobbiamo arrivare dipende dalla volontà. 
Rispetto all’ultimo rapporto Ipcc c’è stata un’esplosione di policy e leggi sulla mitigazione, il 20 per cento delle emissioni è coperto da carbon tax, le leggi sul clima di 56 paesi coprono il 53 per cento delle emissioni. Non è vero che il mondo è stato immobile, il mondo sta cambiando, e lo fa anche perché cittadini e movimenti lo chiedono in maniera sempre più irrevocabile.

Opzioni di mitigazione che costano meno di 100 dollari per tonnellata di CO2 possono dimezzare le emissioni al 2030 (solare, eolico, efficienza, lotta alla deforestazione). La metà di questo potenziale costa meno di 20 dollari per tonnellata di CO2 (cambiare gli edifici, una migliore efficienza di aviazione e trasporto marittimo, la promozione del trasporto pubblico e della mobilità dolce).  

E poi c’è una buona notizia che merita un capitolo a parte: come viviamo conta, lo stile di vita conta, non ci sono solo i cambiamenti sovranazionali, c’è anche la possibilità individuale di incidere, nelle case, nelle famiglie, nelle giornate. Perché parliamo sempre di offerta di energia, ma una cosa che ci ha insegnato la crisi ucraina è quanto conta la domanda di energia (cioè, ancora: noi).

Strategie basate sullo stile di vita hanno il potenziale di aggiungere un taglio tra il 40 e il 70 per cento rispetto alle attuali policy climatiche in vigore nel mondo. E non parliamo di austerità, rinunce, appartamenti al freddo durante l’inverno, ma di misure che hanno il doppio potenziale di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici e migliorare il benessere delle persone.

Mai come ora, per esempio, l’Ipcc mette l’accento su quello che possono fare le città: devono diventare più compatte e a misura di camminata o di bici. Se questo cambiamento accadrà, consumeremo meno energia per fare quello che dobbiamo fare e contemporaneamente vivremo meglio e in luoghi meno inquinati. È solo un esempio, perché c’è una grande parte dell’umanità che non vive in città, ma è un esempio importante di una tendenza più generale: avvicinare servizi e bisogni alle persone rende la loro vita più facile e il clima più stabile. C’è una serie di misure che possono avere un impatto del 5 per cento molto in fretta, il frutto più basso da cogliere: diete più sane e vegetali, ridurre lo spreco di cibo, produrre oggetti più riparabili, trasporti condivisi, telelavoro. È tutto clima.

Gli intrighi nel retrobottega del rapporto

C’è una storia sullo sfondo del rapporto Ipcc sulla mitigazione ed è quella dei conflitti e delle influenze per cambiare e attenuare il summary per policymaker. Sono le sessanta pagine di sintesi del rapporto, le più lette e quindi le più importanti.

Mentre la scienza che c’è dentro questo documento – fatta di migliaia di pagine di studio e ricerca raccolta nel corso di anni – non è soggetta a negoziato politico, la sintesi finale è il frutto di una trattativa nella quale ogni frase e ogni parola vengono discusse e pesate in un dialogo tra gli scienziati e i delegati dei 195 governi dei paesi Onu che partecipano al processo. È il modello Ipcc, simile a quello che c’è dietro le Cop, per arrivare a un testo condiviso politicamente.

Essendo in pandemia, il negoziato non si è solo svolto a porte chiuse, ma anche in digitale. I dettagli della trattativa sono però filtrati e sono stati utili anche per decodificare il motivo dell’insolito ritardo nella consegna del rapporto, che è slittata di diverse ore, in quella che è risultata la più lunga sessione di approvazione nella storia dell’Ipcc. Stavano litigando, e lo stavano facendo perché i rappresentanti di diversi paesi hanno provato in ogni modo (e in alcuni casi ci sono effettivamente riusciti) ad annacquare il riassunto finale da inviare ai decisori politici.

A Glasgow, durante la Cop26, era stata l’India a giocare il ruolo del «poliziotto cattivo», portando a casa un linguaggio molto più blando su temi cruciali come l’abolizione dei sussidi alle fonti fossili di energia o il phase-out (poi diventato phase-down, come passare da «eliminare» a «rallentare») del carbone.

Per il rapporto Ipcc uscito il 4 aprile questo ruolo è stato giocato dietro le quinte soprattutto dall’Arabia Saudita, che ha combattuto qualunque espressione andasse nella direzione dell’uscita da petrolio, gas e carbone (la formula finale è «riduzione sostanziale dell’uso dei combustibili fossili») e ha ottenuto che ci fosse una grande enfasi su una delle soluzioni più controverse di tutto il processo climatico: le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS).

Gli impianti per togliere CO2 dall’atmosfera e conservarla in grandi depositi sotterranei al momento non hanno ancora dimostrato la loro utilizzabilità sulla scala necessaria alla lotta alla crisi climatica, ma i sauditi hanno ottenuto che la CCS fosse presentata come una soluzione per allungare la finestra di utilizzo delle fonti energetiche più nocive.

Nel testo finale (che è insolitamente lungo e ha «conquistato» ventidue pagine in più rispetto alle bozze) la CCS ha un intero paragrafo, mentre al carbone e alle altre fonti fossili ci si riferisce come «unabated», «non abbattute» dalla CCS.

È un modo per suggerire che carbone, petrolio e gas, con l’aggiunta di questi impianti CCS, potranno avere un ruolo anche nel mix di un mondo decarbonizzato. È ovviamente un linguaggio che risponde alle esigenze politiche ed economiche di un paese come l’Arabia Saudita, che ha costruito la sua ricchezza sui combustibili fossili. Sono solo parole, ma la lotta ai cambiamenti climatici è un processo diplomatico, quindi le parole sono in realtà un fondamentale terreno di scontro, perché la sintesi dei rapporti Ipcc diventa poi la base per ogni negoziato. La tecnologia per la CCS al momento è usata come una specie di scappatoia per i combustibili fossili, utile soprattutto per continuare a ottenere finanziamenti su mercati sempre più spaventati dal buttare soldi su fonti di energia senza futuro.

Un’altra fonte di conflitto diplomatico è stata l’utilizzo di un grafico che non piaceva agli Stati Uniti, perché evidenziava la differenza di fondi necessari alla mitigazione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Mostrava che questi ultimi hanno bisogno di un aumento dei fondi tra il 400 e il 700 per cento per riuscire a fare la transizione energetica, una prospettiva che avrebbe chiamato in causa proprio le mancanze degli Stati Uniti nel mettere in piedi questo flusso finanziario.

Risultato? Il grafico è nel rapporto Ipcc (cioè la scienza non negoziabile) ma è sparito dalla sintesi, che invece è un documento più politico. Questi movimenti sotterranei aiutano a tracciare una cartografia dell’azione per il clima: i paesi più coinvolti nelle fonti fossili faranno di tutto per difendere le loro entrate, anche a costo di spingerci su traiettorie climatiche preoccupanti, e quelli più responsabili della crisi non hanno ancora accettato l’idea di avere un obbligo morale e finanziario nei confronti dei paesi in via di sviluppo.

Un bel libro (non apocalittico) sulla plastica in Italia

Il primo paragrafo di questa newsletter in fondo potrebbe essere reso anche così: alla transizione ecologica serve senso pratico. Giuseppe Ungherese, responsabile delle campagne sull’inquinamento di Greenpeace, è uno degli ambientalisti con più senso pratico che io conosca, ed è un profondo conoscitore dei problemi e del potenziale ancora inespresso dell’economia circolare.

Speravo che un giorno avrebbe messo quello che sa in un libro, quel giorno è arrivato, il libro si intitola Non tutto il mare è perduto ed è stato pubblicato da Casti Editore. È un viaggio in un’Italia che, come ogni altro paese, combatte la sua battaglia contro l’inquinamento da plastiche e microplastiche. È un libro duro, ma non apocalittico. Racconta i problemi che affliggono i nostri ecosistemi e le nostre coste, ma anche i modelli e le soluzioni che sono in grado di liberarci da questa dipendenza.

Tra i racconti di Ungherese che mi hanno colpito di più ci sono quelli che arrivano dal Santuario Pelagos, la grande area protetta nel Mediterraneo, il triangolo blu tra Francia, Sardegna, Liguria e Toscana, spesso frequentato da cetacei. Gli avvistamenti sono sorprendenti e a volte commoventi, qui sono apparse megattere e orche, animali che non siamo abituati ad associare al nostro mare e che abbiamo il dovere di proteggere.

È una tutela che non vive solo di aree protette, perché spesso questi cetacei vengono ritrovati spiaggiati in condizioni fisiche preoccupanti: secondo una ricerca dell’Università di Padova, l’84 per cento dei capodogli spiaggiati tra il 2008 e il 2019 conteneva contaminazioni plastiche. Una femmina gravida fu trovata a Cala Romantica (Porto Cervo) con 22 chili di polimeri sintetici, tra cui un tubo corrugato, un flacone di detersivo, piatti monouso e sacchi neri per la spazzatura. Il rompicapo si risolve solo vietando polimeri plastici come il polivinil clorulo e il polistirolo, la cui tossicità risulta ineliminabile da processo produttivo. Esistono sostanze più sicure, soprattutto per prodotti come giocattoli o contenitori per alimenti. Anche qui: si può fare. Leggete il libro di Ungherese, rafforzerà questa convinzione.

Per questa settimana è tutto, la settimana prossima sarò in viaggio, ma leggo sempre tutto, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, l’indirizzo è lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata