Buongiorno lettrici e lettori di Domani, benvenuti all’ultimo numero (prima delle vacanze, poi si torna in pista!) di Areale, la newsletter sull’ambiente, il clima e il futuro. Qui, come sempre, il link per iscrivervi gratuitamente. È un periodo tragico, per il clima, il fumo sopra l’Acropoli di Atene, il disastro di fuoco in Turchia, lo abbiamo detto tante volte, è un’estate che ha cambiato la percezione delle interconnessioni e dell’impatto della crisi climatica. Ma in questo numero di Areale proviamo a guardare più lontano. 

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Oceano, ultima frontiera

C’è una frontiera che spiega bene le complessità dell’azione per il clima. È una frontiera letterale, perché riguarda un luogo e delle operazioni con le quali, come umanità, non ci siamo ancora confrontati. È una frontiera ancora chiusa, ci porta in un luogo freddo, buio, con una pressione insostenibile per la maggior parte delle specie viventi. Aprirla porterebbe degli evidenti vantaggi pratici nell’affrontare problemi ancora senza soluzione, ma comporta degli ancor più evidenti rischi. Stiamo parlando di deep sea mining, l’estrazione mineraria nelle profondità dell’oceano, per cercare i preziosi e scarsi materiali che sono alla base della transizione elettrica. La base di questa frontiera, al momento, è uno stato della Micronesia, Nauru, 12mila abitanti, a metà strada tra l’Australia e le Hawaii, la più piccola nazione insulare al mondo, già ecologicamente devastata dalla miniere di fosfati.

Nauru ha attivato una procedura prevista dalle leggi internazionali per accelerare l’estrazione mineraria sottomarina, che sarebbe affidata a un contractor canadese, The metals company, il quale ha esplorato i fondali, ha trovato le soluzioni tecnologiche per farlo e aspetta solo la cornice regolatoria. L’area di interesse si chiama Clarion Clipperton Zone, una piana abissale a 5mila metri di profondità nell’oceano Pacifico. L’interlocutore istituzionale si chiama International Seabed Authority, agenzia dell’Onu con sede a Kingston in Giamaica, un organismo che ha il mandato di regolamentare le attività minerarie sui fondali internazionali, e che ora ha due anni di tempo per approvare o negare a Nauru (e ai canadesi) il permesso per cercare ed estrarre minerali. 

Nella Clarion Clipperton Zone ci sono questi noduli polimetallici che sono lo scrigno per i bisogni energetici globali, fondamentali per le batterie elettriche, i pannelli solari e turbine eoliche. Questi noduli sono fatti principalmente di manganese e ferro, ma contengono anche cobalto, nickel, rame e terre rare.

Il contesto sul perché cercarli ovunque ce lo ha dato un rapporto dell’International Energy Agency: per raggiungere la neutralità nel 2050, entro il decennio precedente dobbiamo moltiplicarne di fattore sei l’estrazione. Secondo il Massachusetts Institute of Technology, nelle piane oceaniche c’è il triplo del nickel che c’è sulla terra e sei volte il cobalto. La tesi di fondo è che estrarre dalle profondità oceaniche permetterebbe non solo di raggiungere gli obiettivi energetici, ma ci risparmierebbe la perdita di biodiversità, la devastazione ecologica e la violazione dei diritti umani che comporta l’estrazione mineraria su terra. 

Tutto a posto, quindi? Non esattamente.

Nella comunità scientifica si stanno moltiplicando le richieste di fermare il deep sea mining, un’industria globale che Nauru potrebbe essersi presa solo il disturbo di inaugurare. Il rischio è di causare molti più problemi di quelli che andremmo a risolvere, innanzitutto per la biodiversità e l’ecosistema oceanico, danneggiando quello che non è solo un patrimonio minerario, ma anche un ambiente delicato, ricco di biodiversità e del quale al momento sappiamo ancora pochissimo. I due anni di ultimatum imposti da Nauru non sono sufficienti per stabilire i limiti e la portata di un’impresa che rischia di cambiare in modo irreversibile gli equilibri oceanici, la loro regolazione climatica, i cicli dei nutrienti, l’assorbimento di carbonio. Al momento quasi 600 tra esperti di oceani e di policy da 44 paesi hanno firmato una richiesta di moratoria, per il rischio di un impatto intergenerazionale difficile da quantificare e per la scarsità di conoscenza scientifica per fare queste valutazioni. 

Un clima olimpico

Mentre scrivo questo numero di Areale, l’Italia ha appena vinto un altro meraviglioso oro, nella marcia 20km, con il pugliese Massimo Stano. Quella di Tokyo è stata forse l’Olimpiade più complessa di sempre, organizzata in una bolla difficilissima da mantenere, nel pieno di un’ondata di pandemia. C’è stato però anche un altro impatto ed è quello del caldo. Quando si parla di Olimpiade e clima, di solito l’attenzione va a quelle invernali: la metà delle sedi passate (10 su 19) non sarebbero in grado di organizzare lo stesso evento nel 2050 per la mancanza di neve. Ma Tokyo ci ha mostrato che il clima d’ora in poi dovrà essere valutato anche per quelle estive. «Sono un lottatore, io posso finire questa partita, ma posso anche morire», ha detto il tennista Daniil Medvedev all’arbitro lamentandosi del caldo che stava rendendo impossibile giocare la partita, 31°C, ma 37°C percepiti.

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r«Se muoio, ve ne prendete voi la responsabilità?» ha chiesto Medvedev. È una domanda importante, è stato l’unico a dirlo ad alta voce, ma non l’unico a pensarlo.

La sua collega Paula Badosa ha subìto un colpo di calore durante una partita, ha dovuto abbandonare il suo quarto di finale, uscendo dal campo in sedia a rotelle, con un panno bagnato sulla testa, è un’immagine che rimarrà sulla difficoltà sportiva e umana di competere ai massimi livelli in un clima sempre più caldo. Il vincitore del triathlon maschile Kristian Blummenfelt è collassato dopo la sua vittoria, anche lui è dovuto uscire in sedia a rotelle. La russa Svetlana Gomboeva, subito dopo una gara di tiro con l’arco, è svenuta mentre controllava i punteggi, e ha lasciato l’arena in barella. Durante gli allenamenti dei beach volley in Giappone, alcuni atleti hanno sofferto bruciature ai piedi per una sabbia che aveva raggiunto la temperatura di 45°C. La maratona è stata spostata da Tokyo a Sapporo, nell’isola di Hokkaido, più a nord.

Il sito Daily Beast ha scritto che, nella sua candidatura olimpica, il Giappone ha offerto un’immagine fuorviante di come sarebbero potute essere le temperature durante le gare. Quest’anno del caldo anomalo nel paese si era parlato anche per la fioritura dei ciliegi, arrivata con un anticipo record. Già nel 2018 una tremenda ondata di calore a Tokyo aveva fatto più di mille vittime, le prime associate direttamente al riscaldamento globale in Giappone. Dal 1900 la temperatura a Tokyo è cresciuta di 3°C, il doppio della media globale. È sicuramente qualcosa che in futuro andrà valutato molto bene, quando si sceglieranno le città olimpiche. A Parigi 2024 le temperature saranno più miti, a Brisbane 2032 sarà inverno, le preoccupazioni sono per Los Angeles 2028, per il caldo e anche per la stagione degli incendi. 

L’intelligenza dell’orango e il cuore dell’elefante

Probabilmente lo avete visto, è stato pubblicato su TikTok, è arrivato su tutti gli altri social, ed è stato uno dei video virali della settimana: la visitatrice di uno zoo in Indonesia ha fatto cadere i suoi occhiali da sole nella gabbia dove si trovava una femmina di orango di Sumatra, che li ha indossati, con una classe ignota a molti umani, si è messa in posa, poi si è stancata e li ha buttati via.

Gli oranghi sono animali di straordinaria intelligenza, sono in grado di risolvere problemi complessi, hanno articolate abilità comunicative e la capacità di maneggiare segni e codici. Hanno una vita affascinante, è raro che un orango adulto tocchi mai il suolo delle foreste dove vive, il loro areale copre quelle di Indonesia e Malesia e la deforestazione ha avuto un impatto devastante sul loro status di conservazione. Lasciano gli alberi quasi solo per eventi di disturbo, il problema è che gli eventi di disturbo sono diventati la normalità. Sono anche minacciati dai bracconieri per il mercato della carne selvatica, ma il loro problema principale è la perdita di habitat, quasi l’80 per cento di quello originario dagli anni Novanta in poi, in coincidenza col boom dell’olio di palma e gli incendi forestali per aprire nuovi spazi alle piantagioni. Ne rimangono 80mila, 3mila vengono uccisi ogni anno, secondo Orangutan Conservancy. Il 19 agosto è la Giornata internazionale dell’orango. Parliamone anche oltre i meme, ecco.

C’è un’altra storia di zoo da condividere, prima di salutarci per le vacanze, ed è quella di Happy, un’elefante asiatico di 50 anni che vive a New York, nel Bronx Zoo, ed è al centro di una complessa battaglia legale che ruota intorno alla domanda: chi è Happy? O cosa è Happy? Una persona, un animale, un oggetto, una proprietà privata? L’ong animalista Nonhuman Rights Project ha presentato il caso alla corte di New York per far riconoscere a Happy i diritti legali di una persona, il tribunale ha accettato un po’ a sorpresa di trattare la questione, che sarà dibattuta questo autunno. L’obiettivo immediato è permettere a Happy di essere felice come il suo nome prometterebbe, di lasciare lo zoo del Bronx e finire la sua vita in un santuario.

Gli elefanti hanno complesse strutture sociali e relazionali, celebrano i lutti e consolano gli amici. Happy invece vive sola nello zoo del Bronx, senza compagnia, e questa è una delle basi legali per dimostrare la sua sofferenza e il suo diritto a essere liberata. Ma la questione va anche oltre e ci parla dello status che hanno gli animali selvatici, per questo il dibattito intorno al suo status potrebbe avere un’eco globale. Al momento, per la legge americana, Happy è solo una cosa, la proprietà di uno zoo. Il processo spalancherà una serie enormi di questioni pratiche e filosofiche. Tra le persone che hanno lavorato al dossier della ong ci sono etologi ma anche esperti di diritto animale, dodici filosofi, sei teologi e due esperti di habeas corpus. La maggior parte degli zoo americani (compreso quello del Bronx in questione) ha annunciato che non acquisirà in ogni caso altri elefanti. 


Siamo giunti alla fine, Areale e il suo estensore si prendono una pausa, spero possiate averne una anche voi, riposarsi e combattere fanno parte dello stesso gesto. L’informazione continua tutta l’estate su Domani, il prossimo numero della newsletter arriverà il 4 settembre. Spero che sia una bella estate, sarà un autunno importante. 

In ogni caso teniamoci in contatto, scrivetemi, raccontatemi le vacanze, il futuro, la speranza, la paura, quello che volete, davvero. La mia mail è ferdinando.cotugno@gmail.com. Quella per contattare Domani è lettori@editorialedomani.it. Fate girare Areale, consigliatela ad amici e nemici, ingrandiamo la comunità, in autunno dobbiamo fare e raccontare cose importanti. 

A presto! 

Ferdinando Cotugno

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