Buongiorno lettrici e lettori di Domani, benvenuti a un altro, nuovo numero di Areale, grazie come sempre per essere qui. Procediamo, c’è tanto da dire questa settimana.

Intro: un accordo di pace con la Terra

Forse non si parla abbastanza di quanto il segretario generale dell’Onu António Guterres (portoghese, ex primo ministro per otto anni) stia prendendo sul serio il proprio ruolo all’interno delle gigantesche sfide che abbiamo di fronte. Guterres ha parlato alla Cop15 di Kunming in Cina sulla biodiversità (altre informazioni più giù in Areale su questo evento, che il New York Times ha definito «il più importante meeting globale del quale non avete sentito parlare») ed è stato piuttosto incisivo. «Stiamo perdendo questa guerra suicida contro la natura. Chiediamo un cessate il fuoco e le basi per un accordo di pace con la Terra». Non male.

Quando sei perso, fidati degli strumenti

C’è un passaggio in un libro del 1994 di Daniele Del Giudice che mi è tornato in mente. Il libro è Staccando l’ombra da terra e parla di aerei, dell’esperienza del volo, e di cosa succede quando ci si perde in aria (Del Giudice stesso era un pilota). «Ti perdesti una mattina in volo come ci si perde nella vita, senza rendersi conto che ci si smarrisce, scivolando poco a poco nel non trovarsi più». Del Giudice descrive cosa prova un pilota solitario quando è in aria e perde ogni riferimento spaziale, crede di essere dritto sulla linea dell’orizzonte e invece non lo è. La sua mente vive un «presente illusorio», mentre l’aereo e il corpo vivono già nella futura posizione, e la futura posizione sono guai. Poi si ricorda le parole del suo istruttore: «Credere agli strumenti, diceva Bruno. Non alzare gli occhi dal cruscotto se non vedi fuori, fidati solo degli strumenti».

Ecco, fidarsi degli strumenti – cioè i dati, la scienza, le sequenze di numeri – e non delle sensazioni illusorie che dicono: tutto a posto. I numeri più importanti di questa settimana vengono da Parigi, la sede dell’Agenzia internazionale dell’energia. Ne ho scritto qui.

In sintesi, IEA mette in fila tre scenari. C’è quello che stiamo facendo, le policy reali sull’energia, che ci porterebbero a un aumento della temperatura di 2,6°C. Poi c’è quello che abbiamo promesso di fare, gli impegni, che comunque ci portano a 2,1° C. E infine c’è quello che dovremmo fare, per tenere la temperatura a 1,5°C. Anche se mantenessimo tutte le nostre migliori promesse, arriveremmo a una riduzione delle emissioni al 2050 del 40 per cento. Altro che zero netto. «Se la strada davanti a noi fosse pavimentata solo di buone intenzioni, il viaggio sarebbe alquanto turbolento», scrive IEA.

Ps: Leggete Del Giudice.

Il momento tabacco

Era l’aprile del 1994: i capi delle sette più importanti imprese del tabacco testimoniarono al Congresso per ore sotto giuramento. Dissero che non avrebbero fatto fumare sigarette ai loro figli, ma ritenevano che la nicotina non desse dipendenza, l’avevano aggiunta solo per migliorare il sapore dei loro prodotti. Flavor, not addiction.

Fu l’inizio della fine, un mese dopo partì la prima causa legale, il primo spruzzo di uno tsunami che costò a quell’industria 200 miliardi di dollari di risarcimenti e tutta la reputazione. Manipolando la disinformazione avevano causato una crisi sanitaria e fu riconosciuto il loro dovere di pagarla.

La testimonianza dei manager delle sigarette è l’immagine circolata più spesso alla notizia che le quattro più grandi aziende legate all’estrazione di fonti fossili vivranno, il 28 ottobre – significativamente, tre giorni prima della Cop26 di Glasgow – il loro momento tabacco. I capi (Ceo o presidenti a seconda dei casi) di ExxonMobil, Shell, Bp e Chevron dovranno rispondere pubblicamente delle campagne di disinformazione e pressione pubblica per ostacolare la consapevolezza sul legame tra clima e fonti fossili e dell’azione di lobbying per impedire politiche a favore dell’ambiente.

Il fronte Big Oil è composto da quattro aziende ma le audizioni saranno sei: anche due associazioni di categoria attivamente coinvolte nelle stesse pratiche saranno chiamate a dare analoghe spiegazioni: American Petroleum Institute (Api, che a fine anni Novanta fece una ormai famosa multimilioniaria campagna di disinformazione contro l’adozione del Protocollo di Kyoto) e la Camera di Commercio.

«Il più grande errore nelle audizioni sul tabacco fu mentire sotto giuramento. E se io potessi dare un solo consiglio a questi manager, quel consiglio sarebbe: non dite bugie. Dite la verità». Sono le parole di Ro Khanna, deputato dem della California, dove la settimana scorsa c’è stata una delle perdite di petrolio peggiori nella storia dello stato. Khanna ha convocato l’audizione, che sarà una prima volta nella storia americana, dopo la lunga serie di documenti e inchieste pubblicati negli ultimi mesi, inclusa un’indagine sotto copertura di Greenpeace su Exxon, che ha svelato come queste tattiche siano ancora attive e presenti anche nell’America di Biden.

Non è la prima richiesta di audizione, finora i dirigenti di Big Oil si erano sempre rifiutati, Khanna ha minacciato il subpoena, la citazione in giudizio in caso di mancata testimonianza, ma è anche il contesto politico a essere cambiato e a spingere aziende e associazioni di categoria a essere più collaborative. E infatti portavoce e uffici stampa si sono affrettati ad annunciare che questa volta i capi parteciperanno volentieri, senza bisogno di ritorsioni legali.

Il 28 ottobre sarà una giornata interessante e probabilmente storica. Come ricordato da Khanna, tutti i presenti avranno a mente la lezione del tracollo di Big Tobacco: una volta al Congresso, mentire pubblicamente sotto giuramento non è più un’opzione praticabile, soprattutto a fronte della mole di prove e documenti su quanto fatto, detto, scritto e agito. E allora la domanda è cosa diranno, fin dove si spingeranno ad ammettere e che ruolo sceglieranno di avere da qui in avanti.

La percezione pubblica di questi colossi degli idrocarburi e dei loro Ceo spesso invisibili sui media sta cambiando rapidamente, in un contesto di attivismo diffuso e climate litigation. Pochi mesi fa, in Olanda, Shell aveva subito una sconfitta storica contro un gruppo di attivisti e organizzazioni che avevano contestato i suoi piani di decarbonizzazione.

Una ruota a terra e la batteria scarica

Veniamo al «vertice più importante del quale non si parla mai» (qui in realtà un po’ si). È la Cop15 di Kunming, che si è chiusa il 15 ottobre e che era stata convocata per affrontare l’altra grande crisi ambientale, quella della biodiversità. Il collasso degli ecosistemi è legato al cambiato del clima (ne è sia causa che effetto), la perdita di specie procede a un ritmo di centinaia di volte superiore a quello tenuto negli ultimi dieci milioni di anni e continua ad accelerare. La sesta estinzione di massa è un fatto: un milione di specie tra piante e animali è a rischio. Questo collasso secondo l’Onu costerà al mondo 3mila miliardi di dollari all’anno, con un impatto sproporzionato sulle comunità più povere e i paesi più indebitati. Dunque, sì, la Cop15 era importante.

L’obiettivo era arrivare a un Accordo di Kunming sullo stile di quello di Parigi sul clima: un grande obiettivo globale e una serie di strumenti semi-vincolanti per arrivarci. L’accordo dunque c’è? No, in realtà no, ma si sapeva. Il massimo che abbiamo avuto è la Dichiarazione di Kunming, tanto solenne quanto generica.

A differenza della Cop26 di Glasgow, la Cop15 in Cina è stata molto penalizzata dal Covid, la maggior parte dei delegati ha partecipato a distanza e l’evento è stato spezzato in due: una prima parte a ottobre per stabilire dei principi e lavorare sulle bozze, una seconda ad aprile/maggio per avere veri, grandi e verificabili risultati politici.

La cosa da tenere a mente è che le due crisi vanno affrontate insieme. Lo ha detto bene Brian O’Donnell di Campaing for Nature: «Quando hai due crisi esistenziali allo stesso tempo, non hai la possibilità di sceglierne solo una da affrontare. È come avere una ruota a terra e la batteria scarica. Se ripari solo una delle due cose, sei comunque fermo». Ecco.

In ogni caso, tra i punti della bozza per gli obiettivi da ratificare in primavera, ci sono la riduzione dei sussidi dannosi per la biodiversità di almeno 500 miliardi di dollari nel prossimo decennio e la conservazione del 30 per cento della Terra in aree protette (idea peraltro contestata sia da chi pensa che sia poco, sia da chi pensa che quel 30 per cento finisca col danneggiare i diritti civili, sociali ed economici delle popolazioni indigene).

Come per il clima, c’è ampio dibattito sulla finanza pubblica, gli aiuti che i paesi sviluppati devono inviare a quelli vulnerabili. Greenpeace ha sottolineato l’importanza di una «biodiversity finance», il primo passo lo ha fatto il padrone di casa, Xi Jinping, annunciando la creazione del Kunming Biodiversity Fund, un fondo da 230 milioni di dollari al quale ha invitato tutte le economie più grandi a partecipare. Se ne riparla tra qualche mese.

Eolico collettivo

Dunque. Questa è una pala eolica.

L’ha finanziata e costruita ènostra (https://www.enostra.it/), fornitore elettrico cooperativo di energia pulita, nel quale i consumatori sono anche soci. È un nuovo modello, anticipazione di come può e deve essere l’energia della transizione, non solo sostenibile ma anche decentralizzata e dal basso.

Ho chiesto a uno dei fondatori, Gianluca Ruggieri (ricercatore all’Università dell’Insubria, co-curatore del libro Che cos’è la transizione ecologica, conduttore di un programma su Radio Popolare e tante altre cose), un intervento sull’inaugurazione del progetto e su tutto quello che significa. Eccolo, parola a Gianluca.

Uno degli aspetti finora meno raccontati della transizione energetica (che è solo un pezzo, importante, ma comunque solo un pezzo della transizione ecologica) è il ruolo che i cittadini possono giocare, direttamente o in forma associata. Siamo passati dal considerare l’energia elettrica e il gas come servizi forniti da enti pubblici ad adottare un modello di mercato, basato sulla concorrenza. Dal volgere del nuovo secolo i cittadini si sono quindi trasformati in clienti-consumatori. Quando poi la rivoluzione del conto energia ha consentito a tutti di realizzare un impianto fotovoltaico, si è affacciato il cittadino prosumer, parte produttore e parte consumatore.
In molti paesi europei in questi venti anni si sono sviluppate dal basso realtà collettive che raccolgono fino a 200mila persone preoccupate di come viene prodotta l’energia elettrica che consumano. Quando nel 2008, grazie all’iniziativa di Marco Mariano e di un piccolo gruppo di semplici cittadini con poca o nessuna competenza nel settore energetico, è nata in Piemonte l’associazione Solare collettivo, era difficile immaginare che passo dopo passo avrebbe dato origine a qualcosa che oggi è alle soglie dei 10mila soci di cui un migliaio investitori: la cooperativa ènostra che produce e fornisce elettricità 100 per cento rinnovabile. 
Lo scorso sabato nelle campagne di Gubbio, in un posto isolato e invisibile da qualsiasi centro abitato, la comunità di ènostra ha inaugurato il primo impianto eolico collettivo italiano. Un impianto da 900 kW, con una torre di 46 metri e un diametro di 61 metri. Un risultato storico, anche se solo un piccolo passo nella giusta direzione, visto che andrà ad alimentare i consumi di circa 900 utenze. Importante perché la transizione verso le rinnovabili si porta dietro un modello di produzione diffuso, che mal si presta alla costituzione di oligopoli e monopoli. La bassa densità di produzione, che molti indicano come un limite, è invece una caratteristica che consente a chiunque di sfruttare le risorse rinnovabili e aiuta a essere più indipendenti dalle grandi aziende e dai paesi produttori, che nelle ultime settimane stanno facendo pesare la nostra dipendenza aumentando a dismisura i costi di approvvigionamento delle risorse.

Non è stato quindi un caso che 150 persone decidessero di passare un freddo sabato di inizio ottobre nel grande spazio messo a disposizione dalla pro loco di Mocaiana. Sorrisi, abbracci, parole e qualche lacrima. Perché realizzare un progetto dal basso, che sia accettato dalla comunità locale e abbia il minor impatto ambientale possibile, è davvero difficile in un contesto come quello italiano in cui gli attori dei processi autorizzativi sono innumerevoli e le normative cambiano in continuazione. Tante volte abbiamo iniziato progetti che poi siamo stati costretti ad abbandonare. Ma la forza di ènostra finora è sempre stata la capacità di adattarsi alle mutate condizioni e di trovare nuove strade che consentissero di raggiungere gli obiettivi senza mai rinunciare ai princìpi che ci animano dall’inizio.

Lo scopo statutario è «realizzare un modello energetico sostenibile, democratico, partecipato, cooperativo, resiliente e basato sull’utilizzo esclusivo di energia da fonti rinnovabili» e siamo nella giusta direzione, ma abbiamo tanta strada da fare. 

Canone verde

Abbiamo tre interessanti aggiunte al canone verde di Areale, la nostra biblioteca – per ora solo virtuale, poi chi lo sa – di capisaldi scientifici, intellettuali ed emotivi della letteratura ecologica.

Vengono da Chiara. Uno: The Story of Stuff, di Annie Leonard, direttrice di Greenpeace Usa, follow up del documentario dallo stesso titolo. «Il libro, il video e la ONG affrontano il problema dell’ambiente dal punto di vista pedagogico ed educativo, tramite il percorso che fanno le cose, che hanno sempre un passato (la produzione che nessuno vede), un presente (effimero e molto breve perché i nostri desideri cambiano appena acquistiamo nuove cose) e un futuro che non vediamo più, perché le cose diventano rifiuti e spariscono per prendere solo forme ancora più nocive».

Due: Il Green New Deal (Fazi Editore, di Ann Pettifor, direttrice del research center PRIME, lead campaigner di Jubilee 2000 per la cancellazione del debito). «Da questo libro è partito il manifesto del Green New Deal USA e UK, che poi hanno preso strade diverse, come spiega l’autrice. Il libro ha un taglio economico-finanziario ma può essere letto anche da chi non ha quel background. Nessun cambiamento climatico può essere affrontato senza una riforma del sistema finanziario e monetario imposto dagli Usa negli accordi di Bretton Woods, che ne ha sancito l’egemonia finanziaria e lo scollamento tra globalizzazione finanziaria ed economia reale dei fabbisogni nazionali».

Tre: Decolonization and Afro-Feminism di Sylvia Tamale, scrittrice e studiosa femminista. «Affronta il tema dell’invisibile ma costante processo di colonizzazione culturale e politica in Africa da parte delle potenze occidentali. Interessante legare queste nuove voci del femminismo africano con quelle di leadership africana in tema climatico, come Vanessa Nakate, anche lei tra l’altro ugandese. Un’alleanza di movimenti e di agende politiche che avrebbero molto da condividere e che sono tuttora inesplorate».

Grazie a Chiara e come sempre a tutti e a tutte che avete contribuito, i libri del nostro canone verde saranno poi storie in evidenza su Instagram, qui: https://www.instagram.com/ferdinandoc/.

Outro: Gorilla tra le farfalle

Sono uscite le foto vincitrici del Global Photo Contest di Nature Conservancy. Sono molto belle.

Questa è la foto che ha vinto, una femmina di gorilla che cammina in una nuvola di farfalle nella riserva di Dzan-ga Sangha in Repubblica Centrafricana.

Anup Shah

Anup Shah/TNC

Mi ha colpito molto anche questa, che ha ricevuto la menzione d’onore nella sezione paesaggio, è il golfo di Carpentaria, nel nord dell’Australia, durante la stagione umida.

Scott Portelli

Scott Portelli/TNC

Ultima cosa, il prossimo fine settimana, 23/24 ottobre, c’è il primo Festival di Domani, a Parma. Nel ricchissimo panel di incontri ci sarò anche io, sabato pomeriggio, e soprattutto ci sarà tutta la redazione, sarà bello ritrovarsi, finalmente. Se siete da quelle parti e leggete questa newsletter, palesatevi, offriamoci da bere!

Anche per questo numero è tutto, credo sia il più lungo di sempre, quindi grazie in particolare a chi è arrivato fin qui. Per critiche, suggerimenti, saluti, proposte o qualsiasi altra cosa, e per i libri del canone verde, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Potete anche contattare Domani a lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata