Belèm – Mutirao è un parola brasiliana, utilizzata dalle comunità indigene, che descrive lo sforzo comune compiuto per il raggiungimento di un bene collettivo. È stata un'intuizione ambiziosa chiamare così il documento finale della Cop, una definizione che stride con quanto è accaduto negli ultimi giorni.

Che a Belèm molte proposte di senso non sarebbero arrivate dai tavoli istituzionali ma da quelli dei povos e delle organizzazioni per la giustizia climatica era chiaro. Ma che la diplomazia climatica a 10 anni da Parigi, di fronte allo sfacelo del multilateralismo dinanzi alle drammatiche crisi globali ( Ucraina e Palestina in primis) almeno in Brasile dimostrasse uno spiraglio di lucidità c’era da sperarlo.

Certo, le premesse erano pessime. Ma arrivati a Belem, le posizioni della presidenza brasiliana, il ritorno della partecipazione e il protagonismo dei popoli indigeni, il rilievo dato a una roadmap per uscire dai combustibili fossili avevano fatto sperare i movimenti sociali arrivati con le loro flotille. Fino agli ultimi giorni, che hanno chiuso le brecce che si erano riaperte.

Tra talk show e realtà

Venerdì 21 novembre, prima del documento finale, Al Gore dichiarava al Guardian: «Arabia Saudita, Trump e Putin hanno intimidito gli altri Paesi per cancellare dal documento persino la proposta di eliminare le sovvenzioni ai combustibili fossili. È un testo dell’Opec». Nelle stesse ore, il veterano delle Cop Harjeet Singh inveiva contro la bozza in discussione: «Se verrà accettata, la Cop30 passerà alla storia come il talk show più letale mai prodotto».

È un buon riassunto: la Cop30 è stata un talk show con il copione finale scritto dai paesi petroliferi. Le verità che Lula ha richiamato nelle giornate inaugurali sono venute a galla violentemente. La prima verità è che i combustibili fossili non compaiono nel documento finale perché gli interessi a loro legati sono intoccabili. Lo sa la comunità scientifica e lo sanno anche i bambini: l’unica cura possibile alla febbre del pianeta è rinunciare a gas petrolio e carbone, tutto il resto è cura palliativa.

La seconda verità è che la Cop della foresta non ha salvato l’Amazzonia. Nel documento finale non c’è traccia della roadmap per fermare la deforestazione, sostituita da un tiepido richiamo “all'importanza di arrestarla” con azioni rimandate al futuro o delegate al contestato strumento finanziario Tfff, per cui i fondi raccolti sono risibili.

La terza verità è che senza le risorse finanziarie necessarie, le politiche climatiche non si possono fare. Nel documento finale c’è la promessa di triplicare gli stanziamenti per l’adattamento entro il 2035 - cinque anni più tardi di quanto chiesto dai paesi più vulnerabili - ma senza cifre vincolanti.

L’ultima verità è che c’è un’altra malata grave, la diplomazia. Se è vero che il multilateralismo è una dinamica molto più complessa che una competizione tra buoni e cattivi, tra petrol-stati e amici del clima, è altrettanto vero che i blocchi si sono comportati come in una partita di calcio giocata su un campo inclinato.

Gli elementi positivi che portiamo a casa sono pochi, ma ce li teniamo stretti. Uno è l’inclusione nel documento finale del Bam, il Belem Action Mechanism, che per la prima volta mette al centro diritti e lavoratori, per costruire un unico dispositivo che orienti l’uso dei fondi in processi di conversione giusta dell'apparato produttivo ed energetico.

L’altro è l’ascesa di un blocco di alta ambizione per il clima, spinto dal basso, formato da 82 paesi a favore della sospirata roadmap, con a capo la Colombia e la ancor più ambiziosa Dichiarazione di Belem per l’uscita dai combustibili fossili. A Santa Marta, ad aprile, ci saranno una ventina di governi, e gli occhi di tutti i movimenti del mondo puntati, per costruire una piattaforma che guidi l'uscita dalle fonti fossili.

Sono azioni concrete, che oltre le chiacchiere da talk show, ci portano a credere in nuove alleanze globali tra popoli e Stati con le quali combattere la battaglia del clima. Perché di battaglia ancora si tratta.


 

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