Buongiorno, e buon sabato mattina, questo è un nuovo numero di Areale, uno degli ultimi – il terzultimo – prima di una pausa estiva che mi prendo e ci prendiamo per tirare il fiato e prepararci a un autunno che non sarà né breve né tranquillo. Partiamo!

Il clima e la politica italiana

C’è un pensiero al quale torno spesso da mesi: che ruolo ha il clima nella testa e nella visione del futuro degli italiani? Questa è un’estate dalla quale non si torna indietro, la realtà ha scandito i suoi rintocchi, a un livello che ha a che fare con la sfera della percezione e del trauma. Chiaro, prestiamo sempre attenzione al vecchio e nuovo negazionismo – è giusto farlo, ci si deve occupare di mutazioni ed escrescenze – ma c’è una verità più ampia.

Gli italiani hanno visto – hanno visto la sabbia sul Po, hanno visto la sequenza di notti tropicali nelle città, hanno visto la Marmolada collassare – e non credo riusciranno a dimenticare. Oggi, mentre scrivo, nessuno sa quando si voterà, la politica italiana è infantile e imprevedibile, ma quando si voterà, per la prima volta il clima e l’energia saranno temi chiave, argomenti di conversazione, pezzi centrali dei programmi elettorali. Dobbiamo prepararci a qualcosa di diverso.

Lungo preambolo, lo so. Era per dire che in questi giorni si parla tanto dei dati di un sondaggio fatto da ECCO, il think tank italiano per il clima, insieme a More in Common, sul clima nella testa dei cittadini italiani. L’eco dei rintocchi. Questi numeri sono la mappa di uno smottamento esistenziale: la membrana di quella cosa che con metafora consunta chiamiamo Il Palazzo è ancora impermeabile al clima, ma la percezione delle persone ha registrato il 2022, i suoi ricatti energetici, pace e condizionatore, transizione e paura, e c’è una richiesta – dormiente ma evidente – nei confronti della politica. Tutta la politica, le persone che votano a sinistra e le persone che votano a destra. Perché sta diventando – appunto – reale e presente, molto forte e incredibilmente vicino.

Quanto vicino? «Il cambiamento climatico riguarda tutti», secondo il 93 per cento degli elettori del Pd, il 79 per cento del Movimento 5 Stelle, della Lega e di Fratelli d’Italia. Più di due terzi delle persone che voteranno per un partito di destra sono consapevoli che viviamo in questa emergenza. La vedono. È un numero gigante, che sorprende anche me.

Secondo l’87 per cento degli elettori del Pd, il 78 per cento di quelli del M5s, il 76 per cento di Fratelli d’Italia e Lega, è necessario agire per affrontare il cambiamento climatico per migliorare la nostra salute. Non importa quale sia la tua area culturale e politica, quali siano le tue idee in fatto di economia, società, vita, è molto improbabile che tu – persona italiana del 2022 – non stia chiedendo azione per il clima. La faglia politica tra gli schieramenti diventa più evidente quando si affronta il tema della lotta alla crisi climatica come opportunità economica: per l’81 per cento delle persone di sinistra lo è, ma lo è solo per il 59 per cento di quelle di destra.

È interessante, a destra sono in media realisti (sulla crisi) ma pessimisti (sul suo esito). C’è, qui, una domanda di elaborazione non raccolta. Se fossi Salvini o Meloni farei attenzione a questo dato. In modo abbastanza trasversale, però, si chiede un impegno in prima linea nella produzione di energia pulita: 85 per cento dalle persone di area Pd, 78 per cento dalle persone di area M5s, FdI e Lega. Infine, due italiani su tre, a prescindere dal partito che voteranno, ritengono gli attuali leader non affidabili quando si parla di ambiente, mentre credono a scienziati ed esperti (meno male), piccoli imprenditori che affrontano il cambiamento climatico e creano posti di lavoro (ottimo), italiani nelle zone rurali interessate o colpite da fenomeni climatici estremi (le sentinelle), persone che rischiano di perdere i propri mezzi di sussistenza a causa dei cambiamenti climatici (riuscirà mai un grande partito italiano a farsi, almeno in parte, portavoce di un’idea di giustizia ambientale?).

Non lo so quante persone, tra quelle che leggono questa newsletter, si riconoscono nella destra politica o culturale. Ma se ci sei, e hai tempo, e hai voglia, vorrei conoscere la tua opinione sull’ecologia vista da destra, in generale, e nell’attuale contesto politico italiano.

Innovazione politica e assemblee dei cittadini

C’è un fatto, che si vede al di là dei tormenti politici di queste ore in cui non sappiamo ancora con quale assetto affrontiamo il complicato autunno in arrivo: le democrazie sono stanche. Sono stanche perché rincorrono crisi che non sono state costruite per affrontare, e più aumenta la distanza tra la capacità e le risolute urgenze del presente, più aumenta la stanchezza, più cresce la sfiducia, ed è quella a portare tassi di partecipazione sempre più bassi. Altro preambolo lungo per dire: c’è un grande, grande, bisogno di innovazione politica. I modi del Novecento non riescono a tenere il passo dei problemi del nuovo secolo. Non è finita la storia, è solo finita quella storia. Ne serve disperatamente una nuova.

C’è da tempo un’idea che aleggia nel mondo dell’ambientalismo: istituire assemblee dei cittadini per pungolare le istituzioni sui temi che le istituzioni evitano di affrontare. Uno strumento di «democrazia deliberativa che si affianchi alla democrazia rappresentativa, senza sostituirla», mi ha scritto Francesca Cigala, attivista di Extinction rebellion.

Cigala legge questa newsletter e con lei ho avuto un carteggio su quanto possa essere concreta questa specifica prospettiva di innovazione, che Extinction rebellion di recente è tornata a chiedere, anche col doloroso sciopero della fame di un altro attivista, Alessandro Berti, sospeso la settimana scorsa. Nelle assemblee «i cittadini elaborano raccomandazioni, documenti operativi, proposte di legge, che vengono sottoposte al governo per la loro valutazione e attuazione. Dopo novanta giorni il governo deve dire, con motivazione scritta dettagliata, se accetta, rifiuta o modifica le proposte dell’assemblea». Come potrebbe funzionare, nel caos di istituzioni italiane che fanno fatica anche a processare e tenere in vita uno strumento consolidato come il referendum abrogativo, davvero non lo so, e mi piacerebbe conoscere il vostro parere.

C’è un’idea chiave, tra le cose che mi ha scritto Francesca: il bisogno per i cittadini di «deliberare e agire politicamente come attori politici, non solo come elettori». Ed è spia, al di là di come possa funzionare un’assemblea dei cittadini e delle sue concrete possibilità di attuazione, di quanto senso di impotenza e bisogno di partecipazione ci siano nella società italiana (per certi versi, ascesa e declino del Movimento 5 Stelle erano sintomo della stessa ferita).

Questo tipo di strumenti sono stati già adottati a vari livelli istituzionali in Scozia, Irlanda, Spagna, Portogallo e soprattutto in Francia, forse l’esperimento più ambizioso e complesso da giudicare. Come dice Cigala: «Grande è stata invece la delusione per la Convention Citoyenne pour le Climat di cui Macron ha tradito le aspettative e gli impegni presi, e alla fine oltre il 50 per cento delle proposte della Convention sono state respinte. Il problema è quello della “vincolabilità”, ovvero come i governi rispettano o applicano le raccomandazioni, le proposte elaborate dalle assemblee».

Per Extinction rebellion la prima assemblea dovrebbe parlare del tema più grande di tutti: l’uscita dal fossile e come passare alle energie pulite. «Successivamente i temi potranno essere quelli degli allevamenti/agricoltura, plastica, acqua, inquinamento dell’aria». In parlamento su questo c’è una proposta di legge a iniziativa popolare, presentata il 30 giugno da un comitato chiamato Politici per caso (nome così così) di cui fa parte anche Extinction rebellion, presentata in Commissione ambiente proprio mentre il governo vacillava.

L’alleanza con la biodiversità

Come ha spiegato al Washington Post Marcio Astrini, segretario esecutivo nel network Climate Observatory, «alle elezioni di ottobre i cittadini brasiliani dovranno fare una scelta: possono avere Bolsonaro o possono avere la foresta Amazzonica, ma non possono avere entrambe le cose. Solo una delle due sopravviverà».

Il contesto di questa affermazione sono i nuovi dati arrivati dall’osservazione satellitare dell’Agenzia spaziale brasiliana, che in questi anni è stata una sorta di contropotere scientifico locale da opporre alla narrazione governativa che negli ecosistemi brasiliani tutto va bene e che il mondo ha solo una visione distorta di quello che succede in Amazzonia.

Nella prima metà del 2022 sono stati superati nuovi record nella distruzione di uno degli ecosistemi cruciali per il futuro a lungo termine della vita, e della vita umana, sulla Terra. Dall’inizio di gennaio alla fine di giugno sono stati cancellati 3.980 chilometri quadri di foresta: è stato finora il semestre gennaio-giugno peggiore della già ecologicamente tragica presidenza Bolsonaro, il segno che c’è una corsa a tagliare e bruciare quanto si può, perché non è detto che si possa continuare dopo ottobre.

Per gli incendi è stato il giugno peggiore degli ultimi quindici anni. Negli ultimi cinquant’anni la foresta Amazzonica ha perso il 17 per cento della sua estensione. Ancora nessuno sa dove sia di preciso il suo punto di rottura, la soglia del non ritorno oltre la quale si cambia per sempre, e l’ecosistema forestale si evolve irreversibilmente in savana: potrebbe essere il 25 per cento. Potrebbe essere il 20 per cento. Non siamo lontani, e il Brasile di Bolsonaro sta correndo verso il precipizio con in mano uno dei beni comuni del genere umano. «Ogni numero addizionale di deforestazione ci porta più a fondo nello scenario irreversibile», conclude Astrini.

Il contesto politico può incoraggiare o scoraggiare la deforestazione. I picchi, prima di Bolsonaro, erano stati i tardi anni Novanta e i primi Duemila. Dal 2004 al 2012, il tasso di deforestazione era crollato dell’80 per cento. Col nuovo presidente, il ritmo è raddoppiato rispetto al decennio precedente, da 6.500 chilometri quadri all’anno a oltre 13mila. È per questo che la situazione è Bolsonaro o foresta: l’Amazzonia non se li può permettere altri quattro anni così (nonostante quell’impegno scritto sulla sabbia di azzerarla entro il 2030 preso anche dal Brasile).

Come contesto ecologico più ampio, è stato diffuso un nuovo rapporto dell’Intergovernmental Science-Policy platform on biodiversity and ecosystem services, l’Ipbes, l’organismo Onu che fa per la biodiversità il lavoro che l’Ipcc fa per il clima: aggregare dati e scienza per metterli a disposizione dei decisori politici. E da decidere ci sarà: a dicembre a Montreal sapremo finalmente se il genere umano riuscirà ad avere l’equivalente di un accordo di Parigi per la biodiversità, proprio nella città dove vincemmo la sfida contro il buco nell’ozono.

Ipbes dice nel suo Sustainable Use of Wild Species Assessment che un essere umano su cinque ha bisogno degli animali selvatici, delle piante e dei funghi per la sua vita e il suo benessere. Salvare la biodiversità è salvare la gente, non è solo un dovere morale, è una scelta di autoconservazione. Il rapporto Ipbes dice però la stessa cosa dell’Agenzia spaziale brasiliana: non lo stiamo facendo, non stiamo usando in modo sostenibile foreste, animali e funghi, e questo è un problema innanzitutto per la sicurezza alimentare del genere umano.

C’è un numero che colpisce: 50mila. Sono le specie di animali selvatici, piante e funghi che ci servono per vivere: cibo, farmaci, energia, reddito. Non potremo farne a meno, però possiamo scegliere di avere una simbiosi che preservi noi e loro o una predazione che cancelli noi e loro. Finora abbiamo scelto la predazione: il 10 per cento degli alberi selvatici è minacciato dallo sfruttamento non sostenibile e non pianificato per il legname, un terzo dei pesci che peschiamo è sfruttato in un modo che presto ne farà crollare gli stock, la caccia sta spingendo 1.300 mammiferi all’estinzione.

Nel 2019 sempre Ipbes aveva fornito quel numero-trauma, che aleggia sui negoziati di Montreal: un milione di specie animali e vegetali potrebbero estinguersi a causa di questa predazione. Come scrive Luigi Torreggiani di Ci sarà un bel clima: «Nel rapporto si legge che l’utilizzo delle specie selvatiche è qualcosa di irrinunciabile da parte dell’umanità, ne va della sua sopravvivenza, non può farne a meno. La cosa interessante è che siano gli esperti di biodiversità, scienziati di tutto il mondo impegnati principalmente nella conservazione della natura, a ribadire che non può esistere umanità che non si interfacci con il selvatico, perché il selvatico ci serve, è essenziale per le nostre vite».

Il bisonte e la tartaruga: due storie belle

«Poi tornammo in Brianza, per l’apertura della caccia al bisonte», cantava Fabrizio De André in Coda in lupo. Non ci sono e non ci saranno bisonti in Brianza, ma da questa primavera un altro paese europeo molto antropizzato, il Regno Unito, avrà di nuovo, dopo secoli, la sua popolazione residente di bisonti. È una buona notizia e una bella storia da raccontare. Se doveste passare dalle parti di Canterbury, nel distretto del Kent, fate un giro nella riserva di Blean: lì c’è un assaggio di come poteva essere la biodiversità europea migliaia di anni fa, e di come potrebbe esserlo in futuro.

Il bisonte europeo, un secolo fa, era funzionalmente estinto. Caccia, frammentazione dell’habitat, i motivi che sappiamo. Poi è iniziata l’ondata di rewilding, e oggi ci sono mandrie di bisonti in Polonia (dove resiste la popolazione più antica, nell’unica vera foresta primaria del continente, quella di Białowieża), in Olanda, in Romania, in Bulgaria, in Germania, e ora in Inghilterra. Sono i nipoti di una manciata di animali in cattività che hanno salvato la specie dall’estinzione. Alla fine della seconda guerra mondiale esistevano ancora solo poche decine di bisonti europei in vita, tutti in varie versioni di spazi che potremmo chiamare zoo. Oggi sono circa 7.500, liberi di riprendersi il loro ecosistema, nel loro e nel nostro interesse.

Il bisonte è un fornitore biologico di servizi ecosistemici, una di quelle specie keystone che tengono insieme il funzionamento di un intero ecosistema semplicemente svolgendo le attività che servono a loro per vivere: pascolare, nutrirsi, spostarsi, defecare. Una soluzione basata sulla natura per fare la stessa attività di gestione che faremmo con macchinari e motoseghe. È per questo che il reinserimento europeo del bisonte è una di quelle buone storie di conservazione in cui la protezione di una specie ha anche un significato umano.

Anche il bisonte americano ha avuto un destino simile. Dominava il continente prima della colonizzazione, per i nativi era contemporaneamente un animale sacro e una fonte di vita. Quando arrivarono gli europei, ne fecero una commodity, una risorsa economica, e un’arma. Nei secoli di colonizzazione dell’America erano di fatto spacciati: passarono da 60 milioni, liberi, a meno di 1.000, soprattutto negli zoo. Oggi i numeri, dopo essere collassati, sono molto più che promettenti, centinaia di migliaia di esemplari, che vivono soprattutto su terre tribali e fanno un lavoro di fertilizzazione del suolo e cura dell’ecosistema che è come quello di un «regolatore climatico», spiega Troy Heinert, direttore dell’InterTribal Buffalo Council. Soprattutto per le grandi pianure, estremamente fragili, soggette all’agricoltura intensiva, vulnerabili alla crisi climatica, alla siccità e alle alluvioni. Il lavoro dei bisonti sulla rigenerazione del suolo è insostituibile. E proteggendo loro si proteggono centinaia di altre specie: insetti, uccelli, anfibi.

Ultima storia di alleanza prima di salutarci, quella di come stiamo arruolando le tartarughe di mare nell’oceano Indiano meridionale per raccogliere dati sui cicloni e migliorare la nostra capacità di previsione. Il problema di partenza è questo: grazie a tecnologia, investimenti e monitoraggio, sappiamo molto di più sugli uragani atlantici – che colpiscono paesi più attrezzati e con le risorse per far viaggiare centinaia di droni – che sui cicloni nell’altro emisfero. I dati satellitari non riescono a essere completi, le informazioni più importanti sono giusto sotto la superficie dell’oceano. In quel caso servivano soluzioni creative, ed è qui che entrano in gioco le tartarughe, che vivono esattamente lì, tra 20 e 250 metri di profondità, e vedono quello che a noi serve sapere.

Non è la prima volta che viene costruita una simbiosi tecnologica umano-animale a scopo di ricerca, in Antartide si usano gli elefanti marini per raccogliere dati che navi ed esploratori robot non riescono a portare ai ricercatori. Un vantaggio delle tartarughe, oltre al loro habitat perfetto per gli scopi della ricerca sui cicloni, è la ciclicità delle loro abitudini, il fatto che tendono sempre a tornare a nidificare negli stessi posti, il che è ottimo per recuperare le attrezzature, non in grado di comunicare grandi quantità di dati a distanza per problemi di banda. Se un giorno avremo un modello oceanico in grado di prevedere intensità e frequenza dei cicloni (dentro quel gemello digitale dell’oceano di cui si parlava qui su Areale un paio di settimane fa) lo dovremo anche alle 80 tartarughe ingaggiate dal progetto STORM.

Anche per questa settimana è tutto, state bene, per parlare di politica, bisonti o tartarughe scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per scrivere a Domani: lettori@editorialedomani.it

A presto!

Ferdinando Cotugno

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