Buongiorno, questo è un nuovo numero di Areale, oggi è il primo sabato di luglio, io sono Ferdinando, la prima frase della newsletter per me è sempre la più difficile da scrivere, un anno e mezzo è passato e ancora non ho capito perché. È stata una settimana vivida e turbolenta, vissuta sul ciglio delle cose e del futuro, quindi proviamo a spacchettarla, a mettere ordine, perché sulla scala globale è successo tanto, c’è un filo che va dalle istituzioni europee in versione Lussemburgo a un resort ai piedi delle Alpi bavaresi, per concludersi nell’austero edificio della Corte Suprema americana, il Marble Palace. Via. 

Primo atto: Lussemburgo

Il Consiglio dei ministri era lo scoglio più pericoloso per il pacchetto Fit for 55. Ed è stato superato, con qualche ammaccatura, ma conservando l’integrità del piano, dopo quasi diciassette ore di negoziato, misura aurea della fatica di trovare certi compromessi.

Un passo indietro: l’Unione europea deve azzerare le emissioni al 2050. Per farlo, deve ridurle del 55 per cento entro il 2030: Fit for 55 («in forma per il 55», nome che a me sembra ogni mese più strano, in quella sua frivolezza balneare) è l’insieme di policy e strumenti per riuscirci. Il risultato finale sarà rimuovere 310 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera. La decisione simbolo del pacchetto riguarda le automobili: secondo la commissione bisogna vendere l’ultima auto con emissioni di CO2 nel 2034. Dal 2035, solo veicoli privati a zero emissioni.

Il conflitto è stato aspro. Come ha raccontato Francesca De Benedetti su Domani, l’Italia ha scelto di giocarlo in retroguardia, dissociando la sua visione dell’energia dall’ondata di calore e dalla siccità, come se fossero due cose diverse (ora e per sempre: non lo sono), e confermandosi uno dei governi più ecologicamente conservatori tra le democrazie avanzate. L’asse Cingolani (transizione ecologica) | Giorgetti (sviluppo economico) ha guidato una coalizione di paesi che sul futuro dell’auto chiedevano una serie di eccezioni e un rinvio al 2040.

Hanno ottenuto due eccezioni: una per le auto di lusso (qui dovremmo anche, a un certo punto, porci un problema etico, sul “diritto” garantito ai possessori di macchine sportive di continuare a inquinare mentre tutti gli altri dovranno smettere), e una finestra nel 2026 per rivalutare i biocarburanti, che al momento emettono troppo ma che l’Italia spinge come alternativa all’elettrico. Però la cosa più importante è questa: ormai c’è l’accordo sulla data, che sarà quasi sicuramente quella definitiva. Nel 2035 niente più vendita di auto a benzina, diesel, ibride in Europa. Ovviamente quelle già vendute continueranno a circolare per decenni, la misura riguarda solo quelle ancora da produrre.

Non era l’unica decisione da prendere. Un altro numero importante da tenere a mente: 59 miliardi di euro. È la dotazione del fondo per la giusta transizione, per coprire fasce di cittadini e di lavoratori che rischiano di trovarsi dal lato sbagliato dell’elettrificazione e della decarbonizzazione. Sì, è una misura per evitare un fenomeno in stile “gilet gialli” su scala europea.

Anche in questo caso si tratta del classico compromesso europeo: i paesi frugali (altro meraviglioso eufemismo) volevano una cifra più bassa, quelli più esposti nel fossile chiedevano 72 miliardi di euro. C’è un po’ di delusione per i crediti gratuiti a inquinare che l’Unione continua a garantire alle industrie pesanti, di fatto un sussidio fossile: saranno aboliti in una finestra che va dal 2026 al 2035, con «una riduzione più lenta all’inizio e più veloce alla fine». In sostanza, ci vorranno ancora tredici anni. Infine, tra le altre decisioni importanti, lo schema Emission Trading System si applicherà anche ai trasporti marittimi, che dovranno pagare per continuare a emettere CO2.

In sintesi: poteva andare molto peggio, soprattutto perché il negoziato tra i paesi è la sede nella quale si scatenano gli interessi (e gli egoismi) nazionali e dove è più difficile trovare dei compromessi. Siamo educati, quasi di default, a conservare un senso di perenne, cauto scetticismo nei confronti dell’Unione europea. Prima o poi dovremo riconoscere che è la migliore speranza istituzionale – tra quelle con potere di decidere (l’Onu non vale) – per un clima migliore.

Secondo atto: Schloss Elmau

Sul clima, il G7 a guida tedesca, riunitosi in un ameno resort di montagna perfetto per farci un film di Wes Anderson, ha certificato la realtà: la guerra in Ucraina ha cambiato le prospettive e le priorità, non siamo più nel mondo di Cop26 e l’accordo di Parigi sembra oggi una specie di paravento, qualcosa in cui non crede più nemmeno chi lo cita nei comunicati finali. La sicurezza energetica è stata disaccoppiata dalla sostenibilità.

Il punto non è più: uscire dai combustibili fossili, il punto oggi è uscire dai combustibili fossili venduti da Putin. Tutti gli altri, per ora, hanno un salvacondotto generale, perfino il carbone. Nel comunicato finale quindi vengono lasciate ampie scappatoie agli impegni delle grandi economie, che in teoria devono terminare il sostegno pubblico ai progetti di estrazione fossile internazionale. Secondo la mozione G7, però, sono permessi in «limitati casi» che ogni paese può decidere per sé, «in armonia con l’accordo di Parigi», che però non ha obiettivi di temperatura e non cita fonti energetiche, e quindi purtroppo da questo punto di vista non limita niente. Quel testo somiglia pericolosamente a un: liberi tutti. 

Inoltre, sempre in «circostanze eccezionali», nuovi investimenti in gas sono consigliati e incoraggiati dal G7. Le risoluzioni sul carbone (che doveva enfaticamente essere consegnato alla storia già a Glasgow) sono vaghe e generiche, così come lo sono quelle sulla decarbonizzazione dei trasporti. Dal punto di vista climatico, il G7 sembra dire al mondo: al momento abbiamo altri problemi, alla transizione penseremo quando la guerra sarà finita. Il punto è che: non sappiamo quando finirà la guerra, non sappiamo in che condizioni sarà il mondo quando la guerra sarà finita, e tutta l’architettura Onu / Accordo di Parigi è basata sull’idea di trattare crisi energetica e climatica come un unico problema. Esattamente quello che non stiamo facendo.

Terzo atto: Washington.

La Corte Suprema ha stabilito che nel mandato dell’Environmental protection Agency non c’è il potere di limitare le emissioni nel settore energetico. Dopo la guerra in Ucraina, questa è probabilmente la peggiore notizia climatica in un anno che non è stato avaro di cattive notizie (e siamo solo a luglio, con due delicate Cop davanti).

Un piccolo passo indietro: durante l’ultima Giornata della Terra un attivista di nome Wynn Bruce si era dato fuoco sugli scalini della Corte Suprema, sessanta secondi di dolore e la sua vita si era spenta. Il giorno scelto non era casuale, come non lo era il luogo: Bruce voleva che prestassimo attenzione alla decisione che è arrivata infine giovedì. Voleva che guardassimo la cometa, nel formato di istituzione centenaria sempre pronta a smantellare il futuro. Di questa tremenda tripletta (dopo armi e aborto) della Corte Suprema – eredità tossica delle nomine di Donald Trump – questa è la decisione che avrà gli effetti più globali.

Il caso alla Corte Suprema era stato sollevato dal West Virginia, lo stesso stato produttore di carbone e gas rappresentato da Joe Manchin III al Congresso. Il senatore Manchin III è riuscito, grazie all’enorme potere che ha il suo voto in una situazione di pareggio tra democratici e repubblicani, a bloccare l’azione legislativa di Biden sul clima. Al Congresso leggi ambiziose non ne passano più, soprattutto in materia ambientale. L’ultima carta rimasta a disposizione del presidente era il potere esecutivo di imporre standard e limiti alla produzione di energia dell’agenzia di protezione dell’ambiente (creata nel 1970 da Nixon proprio sull’onda della prima Giornata della Terra, in un gioco tremendo di echi e rimandi con la morte di Wynn Bruce).

La Corte Suprema ha dato ragione al West Virginia, avanguardia di una serie di stati repubblicani e industrie dei combustibili fossili: non possono essere «burocrati non eletti» a decidere che le centrali a carbone devono tagliare le emissioni, è un compito che spetta al Congresso. Lo stesso Congresso bloccato, dove non si riesce a far passare più nulla. Allo stato attuale delle cose diventa difficile per gli Stati Uniti raggiungere gli obiettivi di dimezzamento delle emissioni al 2030 e di decarbonizzazione del settore elettrico al 2035.

L’oceano politicamente orfano

Può sembrare un paradosso, ma l’oceano è ancora politicamente invisibile quando si parla di clima ed ecologia globale. La Conferenza sugli oceani di Lisbona che si è chiusa il 1° luglio è un piccolo passo, ancora insufficiente, per cancellare questa invisibilità. Il vuoto nella politica oceanica è inconcepibile dal momento che il mare assorbe il 90 per cento del calore in eccesso generato dalle emissioni di gas serra, una dinamica che ci sta per ora risparmiando gli effetti peggiori del riscaldamento globale ma che sta devastando gli ecosistemi costieri e di profondità.

La Cop27 che si terrà il prossimo autunno a Sharm el-Sheik in Egitto sarà la prima dal 1995 ad avere una giornata esplicitamente dedicata agli oceani, la Ocean-Climate Dialogue, correzione di un’assenza e di un disinteresse per quello che accade nelle acque internazionali che si era notato in modo doloroso anche alla conferenza sul clima di Glasgow: sono servite ventisette Cop per iniziare a discuterne in modo concreto, per inserirle nel processo ufficiale.

Un riflesso della difficoltà a parlare di mare l’abbiamo visto anche con la limitata presenza del ministero della Transizione ecologica italiano alla conferenza di Lisbona: c’era una delegazione del Mite, ma non c’era il ministro e non c’era quindi impatto politico, a un evento al quale hanno partecipato decine di capi di stato e di governo da tutto il mondo. Un’altra prova del fatto che la creazione del nuovo ministero nel 2021 è stata fagocitata dalla dimensione energetica, mentre tutto quello che riguarda la protezione dell’ambiente è finito ai margini della conversazione e dell’azione politica.

«Viviamo in un’emergenza oceanica», ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres all’apertura della conferenza: «Il nostro fallimento nel prenderci cura degli oceani avrà effetti a cascata sul raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’Agenda 2030».

Gli ultimi dati del World Meteorological Organization erano spaventosi: l’innalzamento del livello del mare ha raggiunto livelli record nel 2021, con una media di 4,5 millimetri all’anno dal 2013 a oggi. Un quarto delle emissioni storiche di CO2 sono state assorbite dagli oceani, che oggi sono più acidi di quanto siano stati negli ultimi 26mila anni. L’inquinamento è fuori controllo: 8 milioni di tonnellate di plastica entrano negli ecosistemi ogni anno: di questo si occuperà il nuovo trattato globale sulla plastica, che dovrebbe essere pronto tra due anni. La biodiversità sta collassando: il 37 per cento degli squali e delle razze, il 33 per cento dei coralli, il 21 per cento dei rettili è minacciato di estinzione.

La conferenza di Lisbona non aveva grande margine politico, è il tipo di eventi che servono a creare un momentum, un innesco all’azione. In assenza di altre grandi nazioni marittime (come l’Italia, appunto), a dominare la scena (oltre ai paesi organizzatori, Portogallo e Kenya) è stata la Francia di Macron, che sta provando a fare del suo paese una sorta di dominus degli oceani, una forma di diplomazia blu che funziona molto bene soprattutto in assenza di veri concorrenti.

Draghi e Macron erano entrambi a Madrid per il vertice Nato: il primo è tornato in Italia per risolvere le note beghe di politica interna, mentre il secondo ha trovato il tempo per proseguire il suo viaggio in Portogallo. Il presidente francese ha toccato il vero nervo scoperto della politica oceanica, il fatto che la Convenzione sulla legge del mare deve essere aggiornata per includere la prospettiva della conservazione e della sostenibilità. «Ne stiamo discutendo da sette anni, è giunto il momento di agire». La sede per farlo non era, appunto, Lisbona, ma sarà il prossimo round di negoziati a New York.

Macron ha anche rilanciato l’obiettivo della protezione del 30 per cento della superficie terrestre e oceanica entro il 2030, altro capitolo della diplomazia ambientale in questo momento gestito dalla Francia, che insieme al Costa Rica gestisce la High Ambition Coalition for Nature and People. «Insieme dobbiamo proteggere la biodiversità e gli oceani allo stesso modo in cui abbiamo deciso di tutelare il clima con l’accordo di Parigi», ha concluso Macron.

Il piano di Jane Fonda e il cane di Ed Yong

Prima di salutarci, visto che le notizie erano tante e non tutte ottime, tre frammenti di ispirazione.

Il primo viene da Jane Fonda, 84 anni, un magnifico cappotto rosso del quale ci si augura il ritorno il prossimo autunno, un decennio di battaglie per il clima negli Stati Uniti, una lista di nemici più lunga del secolo breve. Ha parlato con il Washington Post in un’intervista fatta mentre si trova in Italia (a girare il film Book Club 2: The Next Chapter) (Non ho idea di cosa sia, ma ci sono Jane Fonda, Diane Keaton e Candice Bergen che amano i libri e fanno una vacanza nel nostro paese) di un tema fondamentale, che ci riporta dritti al disastro della Corte Suprema.

L’innovazione che ci serve per questo decisivo decennio non è tecnologica – su quella a oggi siamo a posto. L’innovazione che ci serve è di immaginazione politica. I sistemi democratici stanno fallendo nell’affrontare una sfida che era impensabile quando sono stati progettati. Il primo e primario obiettivo di qualsiasi attivista/organizzazione per il clima deve essere l’innovazione politica, la riforma del funzionamento del sistema, dal basso e dall’alto.

Dunque, quello che fa Jane Fonda è il Jane Fonda Climate Pac. Pac vuol dire Political Action Committee. Una struttura costruita per veicolare fondi a candidati e partiti. Il Jane Fonda Climate Pac vuole portare risorse alle primarie dei democratici in vista delle elezioni di midterm, per fare in modo che vengano candidate persone senza legami finanziari con l’industria del carbone, del petrolio e del gas. Per il voto d’autunno saranno decisive tante piccole primarie dentro il partito, ed è a quelle primarie che Jane Fonda punta: ha raccolto 1,2 milioni di dollari (le campagne elettorali costano).

Al Washington Post ha detto: «Il tempo sta finendo, abbiamo meno di otto anni per tagliare le emissioni, secondo la scienza: vuol dire quattro cicli elettorali. È il momento di un’azione agile e aggressiva ed è quello che stiamo provando a fare». Ecco: misurare il tempo che manca alle scadenze climatiche in termini di cicli elettorali sui quali lavorare: è questo il metodo giusto. Una battaglia che merita di essere seguita.

Ed Yong invece è uno dei più bravi giornalisti scientifici al mondo. Ha vinto un Pulitzer e durante la pandemia i suoi articoli per The Atlantic erano spesso i meglio documentati e argomentati che si potessero trovare in giro. Yong ha un cane che si chiama Typo, «refuso», e non riesco a immaginare un nome migliore per un cane. Ne ha parlato in un bell’articolo per il New York Times sul tema: ma com’è, davvero, sentirsi un animale? Cosa ne capiamo noi?

Mi ha fatto pensare che – nella mia vita privata – uso spesso animali-metafora, la mia lingua è un bestiario in cui piego l’essenza selvatica a quello che provo a dire su altri argomenti. Yong dice una cosa simile sui documentari sulla natura, che grazie all’innovazione tecnologica diventano sempre più immersivi e spettacolari. (Fun fact che una volta mi hanno raccontato alle Isole Svalbard: non è mai stata filmata nella storia del cinema una scena completa di caccia di un orso polare, è come un Graal dei documentaristi, quelli che vediamo sono solo frammenti di scene diverse).

Il problema dei documentari sulla natura è che sono costruiti su narrative umane. Devono avere storie che siano rilevanti per noi. Di sofferenza e rinascita, di ricerca, conflitto, sono personaggi con un arco: «La famiglia di elefanti che cerca l’acqua, il bradipo che cerca l’amore». I drammi della natura sono i nostri melodrammi. Ne avevo scritto una volta qui, parlando del famoso documentario di Netflix sui polpi. Cerchiamo i trope della violenza, del sesso, dell’amore, della perseveranza, cerchiamo noi. Perché cerchiamo sempre noi? Difficile da dire.

Ma soprattutto: cosa troveremmo se non cercassimo sempre e solo noi? Yong cita il biologo Jakob von Uexküll, che all’inizio del secolo scorso provò a codificare il mondo percettivo degli animali, «quel misto di vista, odori, suoni e sensazioni», – nell’idea di Umwelt. Dato che in tedesco c’è una parola per tutto, ma in italiano no, di solito si traduce con «universo sensoriale».

L’Umwelt di una zecca è il contatto con la peluria, l’odore della pelle, il calore del sangue umano, quello di uno squalo di campi elettrici, quello di un serpente a sonagli di luce ultravioletta. Non c’è ricerca e non c’è amore e non c’è storia o arco, solo vita. «L’Umwelt è uno dei concetti più profondi e belli della biologia, ci dice che provare a capire la natura nella nostra esperienza soggettiva è un’illusione».

Ed non saprà mai come si sente Typo quando fa le sue passeggiate, ma «avverto la gioia di un compito impossibile che però deve essere tentato. In questi piccoli atti di empatia, comprendo gli animali più profondamente, non come estensioni della mia vita, ma come entità uniche, a sé stanti, come le chiavi per cogliere per un attimo la vera immensità del mondo».

Per questa settimana è tutto, se volete raccontarmi la vostra Umwelt e provare a cogliere insieme quella del vostro animale domestico o guida, parliamone. Qui: ferdinando.cotugno@gmail.com. Altrimenti potete scrivere a Domani: lettori@editorialedomani.it.

A presto.

Ferdinando Cotugno

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