Ai grandi sconvolgimenti si può reagire in due modi: adattarsi, facendo buon viso a cattivo gioco, o contenerli, trovando soluzioni. In entrambi i casi, per la crisi climatica il tempo sta scadendo. Nel giro degli ultimi tre anni, il cambiamento climatico è diventato crisi climatica, termine rispolverato dal movimento ambientalista degli anni Ottanta ed entrato anche nella strategia della Casa Bianca.

Crisi climatica è la sconvolgente discontinuità globale, i cui effetti trasbordano oltre le sfere della diplomazia e toccano la vita quotidiana, inserendosi in processi complessi a loro tempo già avviati, intricati anche nella loro normalità geopolitica: dalle ondate di caldo alla pandemia, dai dilemmi energetici alla guerra. Fermare questo fiume carsico, adattandosi ma anche contenendolo, è un processo che abbiamo toccato con mano in ambito civile, ma dal quale è stato sostanzialmente escluso il settore della difesa – tra i primi in cima al concorso di colpe che si è abbattuto sui cittadini.

I militari sono ai primi posti al mondo per emissioni di gas serra al mondo, e se l’impronta ecologica dei militari americani in particolare avesse davvero la forma di un piede, allora schiaccerebbe il mondo. Spesso si tende a dimenticarlo, perdendosi e nascondendosi nella segretezza dei processi decisionali della sicurezza e della difesa, tralasciando così la complessità di un settore che influenza non solo l’economia ma anche, direttamente, la violenza.

Secondo i calcoli di uno studio delle università inglesi di Durham e Lancaster, se la difesa americana fosse conteggiata come stato, occuperebbe il quarantasettesimo posto tra i responsabili di emissione di gas serra. La macchina militare americana si attesterebbe infatti attorno ai 60 milioni di tonnellate all’anno, percorrendo una catena logistica che spazia dagli Stati Uniti, al medio oriente, all’Europa, all’Africa e al Pacifico. Tutto questo senza contare i danni derivanti dai rifiuti pericolosi (nucleari, batteriologici, chimici) o quelli agli ecosistemi (sia esercitazioni in tempo di pace sia combattimenti in tempo di guerra), con le severe contaminazioni di suolo, aria e acqua locali; tabù scomodo della Guerra fredda e motore del primo ambientalismo. Una cosa è chiara: se vogliamo davvero fermare la crisi climatica, dobbiamo intervenire anche in campo militare.

Ambiente e mitigazione

La difesa americana si è approcciata da relativamente pochi anni alla questione ambientale e climatica. La superpotenza ha chiuso per decenni gli occhi davanti a un macroscopico stravolgimento geografico, che influenza – anche dalla prospettiva della realpolitik – le operazioni militari, la moltiplicazione delle minacce (nel gergo della sicurezza climatica, threat multiplier), la proiezione di potenza, la solidità delle infrastrutture su suolo patrio e internazionale.

Se toccare il tasto “ambiente” è stato un tentativo delicato e faticoso anche nelle più consolidate sfere della sicurezza, la strada verso la mitigazione si presenta ancor più costellata di diffidenze, disinteresse e faziosità che sono sotto gli occhi di tutti.

Il rapporto tra Pentagono e ambiente era nato proprio su suolo domestico, quando con la legislazione all’avanguardia degli anni Settanta e Ottanta la difesa era stata piegata a rispettare norme in materia ambientale che garantissero la salvaguardia degli ecosistemi e della qualità della vita dei civili in prossimità delle installazioni militari. Le preoccupazioni per gli effetti del cambiamento climatico erano invece circoscritte principalmente ai contesti fragili in ambito internazionale, dalla paura per la desertificazione in Africa e in medio oriente ai monsoni in Asia.

Da allora, passando attraverso l’impulso del Chesapeake bay program (1983) nell’ampio estuario del Susquehanna negli Stati Uniti orientali, la greenization della difesa si è incamminata sul sentiero della mitigazione con l’emblematica iniziativa della Great green fleet (2009), progetto per una marina mossa da biofuels, non più asservita (solo parzialmente per il momento) al potere geopolitico degli idrocarburi.

La svolta Joe Biden

La vera svolta è avvenuta, però, solo recentemente con l’elezione di Joe Biden, che ha potuto contare su un processo di identificazione, adattamento e mitigazione avviato durante il mandato del suo predecessore democratico. Obama, forte di un secondo mandato più libero dagli imperativi politici legati a una possibile rielezione, aveva infatti avviato e partecipato a iniziative politiche già orientate alla mitigazione, tra cui il Clean power plan, l’Accordo di Parigi, la negazione dei permessi per la costruzione dell’oleodotto Keystone XL e un impegno più ampio nell’ambito della diplomazia climatica, anche in collaborazione con la Cina.

Importante in questo senso, ma principalmente per adattamento e resilienza, è stato l’ordine esecutivo 13653 indirizzato all’apparato federale. Con Biden, l’imperativo si è sviluppato ancora una volta su forte spinta presidenziale, lungo una catena che partendo dalla Casa Bianca è arrivata ai singoli servizi delle forze armate americane, reintroducendo nella politica americana quanto precedentemente interrotto da Trump (letteralmente cancellato: il menzionato ordine esecutivo 13653 era stato revocato, i permessi per il Keystone XL ripresi con un ordine esecutivo presidenziale) grazie alla cascata di ordini esecutivi del gennaio 2021.

Con un consenso bipartisan del Congresso degli anni di Trump – almeno nel campo delle ricadute del cambiamento climatico sulla potenza americana – la legge di bilancio della difesa di fine 2021 ha richiesto al Pentagono diverse misure volte al potenziamento della resilienza (vedasi: adattamento) e della sostenibilità (vedasi: mitigazione). A inizio dicembre 2021 l’ordine esecutivo 14057 ha ordinato alle agenzie federali di tagliare le proprie emissioni per raggiungere la compensazione di tutte le emissioni entro il 2050, seguendo percorsi per così dire contestuali, ovvero tagliati su misura da singoli imperativi, specificità e potenzialità delle agenzie.

Uno dei primi risultati è infatti freschissimo: lo scorso ottobre è stato approvato il piano di mitigazione dell’esercito, che ha puntato ad avere energia elettrica pulita per tutte le installazioni entro il 2030 e piena compensazione delle emissioni (sempre per le installazioni) entro il 2045, andando a tagliare metà del contributo già entro il 2032.

Difficoltà di valutazione

È possibile giudicare gli sforzi finora compiuti? La risposta è più amara della domanda. Da sempre valutare la reale volontà della difesa di contribuire al problema ambientale è quasi impossibile. Le forze armate non sono uno stato, ma al tempo stesso non rispondono pubblicamente alle rendicontazioni a cui vengono (normalmente) sottoposte le altre industrie: i reali dati non sono mai di dominio pubblico.

Molti fanno notare come i rischi associati alla greenization possano derivare da logiche distorte, funzionali in realtà a un processo di greenwashing che punterebbe a cementare l’indipendenza energetica nello scenario attuale piuttosto che a contribuire efficacemente al taglio delle emissioni, come nel caso della più controversa Great green fleet. Si corre il rischio, dunque, che le iniziative green portino alla militarizzazione della crisi climatica, in uno scenario dove la mancanza di responsabilità pubblica tipica della difesa possa agire da schermo all’effettiva volontà di contribuire alla mitigazione.

Se per i commentatori più critici la militarizzazione e la greenization non sono altro che humus per la proliferazione di strumenti disfunzionali al benessere della società civile, è tuttavia vero che un serio impegno in materia ambientale compenserebbe gli sforzi in termini di ripensamento, know-how e investimento sia nella sfera ambientale che in quella civile.

Responsabilizzare il settore della difesa davanti alla platea internazionale della Cop27 sarebbe a ragion veduta una prima prova di un impegno a beneficio di tutti: di tempo, per mitigare, ormai non ce ne resta più molto.

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