Da sempre quando si parla di foreste e benefici all’umanità, ci si concentra principalmente sulla loro capacità nel sequestrare l'anidride carbonica dall’atmosfera e nella conseguente mitigazione del riscaldamento globale. 

La foresta però, è un ambiente estremamente complesso ed è qualcosa che è molto di più che “un insieme di alberi”. Ci sono tanti elementi importanti che danno vita e che tengono in vita una foresta. Un nuovo studio ha cercato di fare chiarezza su tutto ciò. Evapotraspirazione, irregolarità della chioma e albedo (capacità di riflettere la luce solare) sono elementi fondamentali per avere una foresta in grado di sopravvivere.

“Sebbene tutte le latitudini beneficino di coperture forestali (ad eccezione di quelle più vicine ai Poli), non c’è dubbio che le foreste tropicali portano maggiori benefici all’ambiente”, spiega Louis Verchot, uno degli autori dell'articolo e ricercatore presso il Centro Internazionale per l'Agricoltura tropicale in Colombia. Sottolinea Michael Coe, coautore dello studio e direttore del programma sui tropici presso il Woodwell Climate Research Center: “Oggi è ormai certo che l’insieme dei meccanismi che lavorano in una foresta danno risultati simili ad un sistema di aria condizionata. 

In Brasile, ad esempio, le aree deforestate sono 5°C più calde in media durante l'anno rispetto alle aree boschive”. Stando alla ricerca vi è la conferma che l'evapotraspirazione delle foreste tropicali aumenta la copertura nuvolosa e aiuta la produzione di precipitazioni rilasciando “composti organici volatili”, che sono estremamente reattivi nell'atmosfera. 

Tali elementi infatti, creano nuclei di condensazione delle nuvole che sono fondamentali per produrre le piogge e mantenere così, il ciclo idrologico. La maggior parte delle masse d'aria che attraversano la foresta pluviale amazzonica, ad esempio, provengono dall'Oceano Atlantico. 

Quando raggiungono l'Amazzonia occidentale e le Ande, dal 60 al 70 per cento del loro vapore è già precipitato da qualche parte sotto forma di pioggia, ma grazie alle foreste viene riportato in atmosfera per farlo ricadere di nuovo", ha spiegato Verchot “e questo grazie alla evapotraspirazione”.

La superficie irregolare di una volta forestale, quella che viene chiamata “rugosità della chioma”, poi, aiuta ad attenuare gli effetti delle temperature più calde. La rugosità del baldacchino infatti, porta ad una maggiore turbolenza dell'aria, che ridistribuisce il calore dal suolo della foresta all'atmosfera. Secondo Coe, quando le aree perdono la ruvidità della chioma (come accade quando vengono disboscate), il risultato ha “un effetto padella. E’ come se si mettesse un coperchio sull'atmosfera che mantiene il riscaldamento locale senza alcuna variabilità".

Per Mateo Estrada, coordinatore ambientale per l'Organizzazione dei popoli indigeni dell'Amazzonia colombiana, la nuova ricerca aiuta a creare "spazi di dialogo dove le aziende, i governi e gli abitanti delle città possono riconoscere l'importanza delle foreste per il loro successo economico e per la sopravvivenza”. 

Estrada sottolinea un esempio: Bogotá, una città con oltre 7 milioni di abitanti, potrebbe perdere circa il 60 per cento delle sue precipitazioni annuali se la deforestazione dovesse continuare in Amazzonia. “E’ necessario – dice Coe - che si capisca che proteggere, espandere e migliorare la gestione delle foreste tropicali, è una delle migliori strategie per mitigare e adattarsi al riscaldamento globale. Le foreste sono una delle nostre più grandi risorse; sono uno dei modi migliori con cui possiamo stabilizzare il clima e aiutare a salvare vite, semplicemente senza fare nulla. Dobbiamo solo tenerle al loro posto”.

In Cina il carbone torna a correre…

Nonostante le molte iniziative che la Cina sta prendendo per produrre energia da fonti rinnovabili, il Paese è responsabile di più della metà delle centrali a carbone in costruzione su tutto il Pianeta. Durante l'ultima COP26, quasi 200 Paesi avevano promesso di ridurre, seppur in modo graduale, l'utilizzo del carbone, ma la realtà dice che la situazione non sta ancora prendendo la strada giusta.

Secondo i dati della Global Energy Monitor, un gruppo di ricerca senza scopi di lucro, si scopre che a livello globale il numero di centrali a carbone sta crescendo, in quanto il numero di quelle in costruzione è superiore a quelle dismesse o in fase di dismissione. 

Il maggior numero di centrali a carbone in fase di costruzione si trovano in Asia e la Cina produrrà il 52 per cento dei 176 gigawatt che verranno prodotti nel prossimo futuro da una ventina di Paesi. In realtà la proiezione è leggermente diminuita rispetto a quanto si ipotizzava nel 2020; allora infatti, si parlava di 181 gigawatt in fase di produzione. Spiega Lauri Myllyvirta del Center for Research on Energy and Clean Air: "Stiamo assistendo ad una situazione quasi paradossale. Quasi ovunque al di fuori della Cina i piani per costruire nuove centrali elettriche a carbone sono stati drasticamente ridimensionati, mentre le aziende cinesi hanno continuato ad annunciare nuove centrali e da parte del Governo vi è un chiaro sostegno a loro favore.

Tutto ciò è un segnale preoccupante". Stando allo studio non ci si aspetta che la Cina cambi rotta sul carbone nel vicino futuro, anche se sono stati bloccati i finanziamenti per progetti per la costruzione di centrali a carbone all'estero per un totale di 13 gigawatt e altri 37 gigawatt potrebbero non trovare più sostegno quest'anno. In questo contesto, a dimostrazione che ancora molto c’è da fare, vi è il fatto che l'anno scorso è stata bruciata una quantità record di carbone, probabilmente dovuto ad un aumento del prezzo del gas.

Le bioplastiche non sono poi così bio

Se disperse nell’ambiente, anche le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio. Lo dimostrano i risultati di un innovativo esperimento condotto congiuntamente da Consiglio nazionale delle ricerche e altri gruppi di ricerca.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Open Access Polymers, ha riguardato il comportamento a lungo termine di differenti tipologie di granuli di plastica vergine utilizzati per realizzare oggetti di uso comune. Sono stati comparati due polimeri (particolari molecole con forme a catena allungata) tra i più impiegati negli oggetti di plastica (HDPE e PP) e due polimeri di plastica biodegradabile (PLA e PBAT), verificandone il grado di invecchiamento e degradazione rispettivamente in acqua di mare e sabbia: in entrambi gli ambienti, nell’arco di sei mesi di osservazione, né i polimeri tradizionali né quelli bio hanno mostrato una degradazione significativa.

L’osservazione dei campioni, unitamente all’esito di analisi chimiche, spettroscopiche e termiche condotte presso il laboratorio pisano del Cnr-Ipfc, coordinato dalla ricercatrice Simona Bronco, mostra che nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale.

“Data l’altissima diffusione di questi materiali, è importante essere consapevoli dei rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento: è necessario informare correttamente”, spiega la ricercatrice Silvia Merlino del Cnr-Ismar di Lerici (La Spezia), coordinatrice del progetto.

“Questo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”, aggiunge Marina Locritani, ricercatrice dell’INGV e co-coordinatrice dello studio.

L’esperimento, ad oggi il primo di questo tipo realizzato interamente in situ, ha utilizzato per il set up sperimentale la piattaforma di monitoraggio ambientale  “Stazione  Costiera del  Lab Mare”  posta a  10 metri di  profondità nella  Baia di Santa Teresa nel Golfo  della  Spezia, realizzata nell’ambito del progetto Laboratorio Mare del Distretto ligure per le tecnologie marine (cofinanziamento Regione  Liguria,  risorse  PAR-FSC  2007-2013  “Fondo  per  lo sviluppo  e  la coesione”),  alla quale collaborano anche l’Istituto Idrografico della Marina e l’Enea. 

Sul fondo sono state alloggiate particolari “gabbie” progettate per contenere i campioni di plastica; è stata inoltre predisposta una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici per simulare la superficie di una spiaggia. L’esperimento è tuttora in corso e si concluderà nel 2023. Ulteriori esperimenti riguarderanno lo studio dei processi di degradazione in condizioni di maggiore profondità, grazie all’installazione di ulteriori gabbie contenenti plastiche e bioplastiche nella “Stazione profonda del Lab Mare” a circa 400 metri di profondità, sempre in acque liguri.

“Violento” terremoto su Marte

Senza dubbio è il più violento terremoto mai registrato su un altro corpo del sistema solare: si tratta del sisma che ha registrato il Lander della NASA Insight lo scorso 4 maggio, durante il 1222 giorno marziano. Il sisma ho toccato magnitudo 5. Questo evento supera il precedente record, un terremoto di magnitudo 4,2 che Insight registrò il 25 agosto 2021. Un terremoto di magnitudo 5 sulla Terra sarebbe classificato come moderato, causando solo lievi danni, ma non ci si aspettava che sul pianeta rosso potessero verificarsi eventi di tale intensità. Al momento non si sa cosa abbia causato il terremoto o dove abbia avuto origine sul pianeta rosso, ma è già di grande interesse per i ricercatori. 

Si aggiunge agli oltre 1.300 terremoti che Insight ha rilevato dall'atterraggio nel novembre 2018. Studiando le onde sismiche che viaggiano attraverso Marte, gli scienziati sperano di saperne di più sulla crosta, il mantello e il nucleo del pianeta e ciò dovrebbe permettere di conoscere meglio le modalità con cui si formò il pianeta e quale fu la sua evoluzione. "Da quando abbiamo depositato il nostro sismometro nel dicembre 2018 sulla superficie, stavamo aspettando 'il Big One di Marte'", afferma il geofisico planetario Bruce Banerdt  del Jet Propulsion Laboratory (JPL) in California e il leader della missione InSight. "Sembra essere arrivato e questo terremoto fornirà sicuramente una visione del pianeta come nessun altro".

Vi sono diverse ipotesi per spiegare questi terremoti, alcune ipotizzano che essi vengano prodotti dalle movimento di magmi che ancora non si sono raffreddati all'interno della crosta del pianeta, altre vogliono che vi sia ancora una certa attività tettonica che muove grandi fratture che si possono vedere dalle sonde che ruotano attorno a Marte. Purtroppo Insight in questo momento si trova in modalità "stand by", perché i pannelli solari non riescono a produrre energia a sufficienza per mantenere attivi gli strumenti. Gli ingegneri della NASA non escludono che sia vicino il momento della fine del robot che ha nel corso della sua vita ha raccolto moltissime informazioni sull'interno di Marte che darà modo scienziati di lavorarci a lungo nei prossimi anni.

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