La protesta degli agricoltori sembra crescere giorno dopo giorno, tanto da aver raggiunto l’attenzione del palcoscenico più importante dell’anno, il Festival di Sanremo. E mentre i trattori continuano la loro avanzata verso i luoghi che decidono il futuro dell’agricoltura (mentre scrivo si trovano alle porte di Roma), dobbiamo iniziare a leggere questa protesta nelle sue diverse forme e stratificazioni. Dobbiamo, cioè, fare lo sforzo di guardare le legittime preoccupazioni di migliaia di agricoltori in difficoltà e comprendere le fatiche di migliaia di piccoli produttori costretti ad arrendersi e chiudere le loro aziende.

Ma, allo stesso tempo, possiamo iniziare a scorgere il compimento di una strategia che, in Europa, ha cominciato a prendere corpo almeno un paio d’anni fa e che è molto chiara: screditare le misure ecologiche in agricoltura, attribuire alla sostenibilità (quella che Giorgia Meloni furbescamente definisce «transizione ideologica») tutte le responsabilità dell’aumento dei costi, così da creare le condizioni – e il consenso – per fermare definitivamente ogni velleità green. Il messaggio alimentato da buona parte della destra e di parte della lobby agricola è esattamente questo e sta creando scientificamente una dicotomia tra ambiente e agricoltura. E lo sta facendo strumentalizzando la buona fede di migliaia di agricoltori.

Partiamo da un paio di premesse.

La prima. L’agricoltura non è tutta uguale, non lo sono neanche i trattori. Ci sono decine di migliaia di aziende, di agricoltori, di contadini (perlopiù sotto rappresentati), che interpretano l’agricoltura in modo ecologico e che, ad esempio, non si ostinano a voler coltivare il 4 per cento dei terreni a riposo perché sanno che quel riposo fa bene alla terra, alla biodiversità e quindi all’agricoltura.

La seconda. L’agricoltura vive da troppo tempo una fase drammatica, fatta di costi alti e salari bassi. Fino a quando produrre cibo sarà più costoso di vendere, gli agricoltori saranno in sofferenza.

L’invasione russa

Fatte queste premesse, per capire quel che succede realmente dobbiamo spostare le lancette dell’orologio a due anni fa, febbraio 2022, quando cioè la Russia ha invaso l’Ucraina. Dopo anni di pace, l’Europa sperimenta nuovamente un sentimento di inquietudine, la paura del conflitto che rischia di varcare il confine dell’Unione. E poi c’è la paura della fame. Non importa che sia una paura razionale o indotta, non ha importanza sapere che l’olio di girasole dagli scaffali dei supermercati non sparirà (siamo andati tutti a fare scorta di olio in quei giorni), non ha importanza spiegare che l’Ucraina non è il “granaio d’Europa”, ma anzi l’Europa produce grano in abbondanza e ne esporta a sua volta. Non ha importanza tutto questo perché sono i giorni della paura, dell’incertezza e ogni contro-narrazione trova poco spazio sui mezzi di comunicazione.

Quello che conta è che il panico e la paura sono gli ingredienti perfetti per mettere in discussione ogni ipotesi di transizione ecologica del modello produttivo europeo. L’Europa, si inizia a dire, deve diventare più autonoma dal punto di vista alimentare, una sorta di grande continente autarchico.

Ed è proprio da questa linea di pensiero che viene riesumato un concetto utilizzato più spesso in tutt’altri contesti: la sovranità alimentare. “L’Europa deve tornare alla sovranità alimentare” è il messaggio diffuso. Si compie, cioè una torsione semantica che capovolge il senso originario della sovranità alimentare che da quel momento in più significa produzione forsennata.

Le due Europa

La guerra diventa quindi il momento per sollevare un confronto tra due volti dell’Europa: da un lato c’è l’Europa del Green Deal, che spinge perché tutte le politiche – comprese quelle agricole – prendano una piega più ecologica. Dall’altro c’è la forza del produttivismo che vede nella dottrina ecologica e nella sfida ai cambiamenti climatici degli inutili orpelli da radical chic. Per le forze che guidano questa crociata, il conflitto è una grande opportunità di rimettere tutto in discussione. Lo scoppio della guerra mette a nudo questo scontro rimasto latente tra le pieghe delle burocrazie. I detrattori della causa ambientale, i promotori del produttivismo agricolo, hanno gioco facile nel convincere le istituzioni che c’è bisogno di produrre di più senza i consueti lacci e lacciuoli.

Così, a meno di una settimana dallo scoppio della guerra, i ministri europei dell’agricoltura si incontrano per definire il da farsi e il coro unanime è che “è necessario prendere misure rapide e urgenti”. Copa-Cogeca, la più grande organizzazione agricola che tiene insieme diverse sigle europee, una grande lobby che cura i propri interessi e la propria idea di agricoltura, porta in dote la soluzione: «Dare la possibilità agli agricoltori di coltivare tutte le terre disponibili in Europa». Se non lo si fa, spiegano, «la distruzione di intere filiere sarà inevitabile».

Insomma, l’idea è quella di coltivare ogni piccolo lembo di terra per far fronte a una possibile (quanto improbabile) carestia. In pratica, significa consentire la messa in produzione di 4 milioni di ettari di aree verdi a uso agricolo, circa il 6 per cento della superficie coltivabile nell’Ue. E non ha alcuna importanza se quella misura sia davvero necessaria, quello che conta è che è un altro e importante tassello di una strategia che mette sul banco degli imputati l’ambiente e la transizione ecologica.

Così la Commissione approva una serie di interventi «eccezionali e temporanei» che permetteranno di coltivare quei terreni che solitamente vengono lasciati a riposo. Niente è più definitivo di quello che viene dichiarato temporaneo o provvisorio. E infatti, poco dopo la sua approvazione, queste condizioni eccezionali verranno prorogate per un altro anno.

La cavalcata produttivista

Parte da lì la cavalcata dell’area produttivista dell’agricoltura che considera i vincoli ambientali dell’Unione europea e tutto quell’insieme di strategie del Green Deal (la Farm to fork, la strategia sulla biodiversità e il regolamento sui pesticidi) degli inutili impedimenti che, in quanto tali, vanno contrastati e mandati al macero, per evitare che intacchino la competitività delle aziende.

Un’area che ha nella destra sovranista la sua maggiore spinta. Per queste forze, la guerra è un’occasione d’oro per far fallire tutte le cosiddette politiche green per l’agricoltura. L’obiettivo non è quindi produrre di più per far fronte alla guerra. Il conflitto è solo il pretesto per abolire ogni orpello ecologico. Il settore agricolo europeo, infatti, è responsabile di circa il 12 per cento delle emissioni di gas serra Ue e, di queste, quasi il 70 per cento arriva dagli allevamenti. Per ridurre il suo contributo al cambiamento climatico, quindi, l’agricoltura deve cambiare, diventare sostenibile. E questo, per una fetta consistente del mondo produttivo, è un problema.

Il risultato è che l’Europea cede alle pressioni e continua a farlo fino alle ultime proteste dei trattori. E in effetti, in questi due anni, seguendo questo medesimo schema, la destra sovranista e le lobby agricole, hanno perseguito la loro strategia spingendo l’Europa (e l’Italia) a ritrattare sugli impegni presi: è così che si spiega il perché, nella direttiva sulle emissioni industriali non siano state inserite le (enormi) emissioni degli allevamenti bovini.

Per la stessa ragione l’Europarlamento si è opposto al taglio del 50 per cento dei pesticidi previsto dalla strategia Farm to fork. L’elenco di misure green segate sul nascere è lungo, basti pensare che non si è fatto nulla, ad esempio, della proposta di legge quadro dei sistemi alimentari sostenibili o che la nature restoration law ha sostanzialmente azzerato le modifiche previste per l’agricoltura. E che la direttiva Ue sugli imballaggi ha salvato le insalate in busta che pure tanto ecologiche non sono.

La verità è che le fatiche (legittime e sacrosante) dell’agricoltura sono state strumentalizzate per colpire la transizione ecologica e l’Europa intera c’è cascata con tutte le scarpe.

Il problema è che non applicare queste misure farà male per prima cosa agli agricoltori che con fatica coltivano i loro campi e farà male perché, di questo passo, la crisi climatica continuerà a colpire sempre di più, e gli agricoltori continueranno a essere le vittime sacrificali di un modello ancora più insostenibile.

© Riproduzione riservata