Uno dei grandi temi del vertice sul clima di Glasgow sono le disuguaglianze: la faglia che c’è tra la parte di mondo responsabile della crisi e quella che la crisi non ha altra alternativa che subirla. Ma anche quella tra chi è più attrezzato per adattarsi e chi rischia di affondare nell’emergenza.

Secondo le ultime proiezioni, l’obiettivo fissato a Parigi nel 2015 dei 100 miliardi di dollari all’anno di finanza per il clima da raccogliere per aiutare i paesi più vulnerabili sarà raggiunto soltanto nel 2023, con tre anni di ritardo.

Ma lungo la strada della giustizia climatica ci sono ostacoli anche più profondi della difficoltà a mettere insieme questa colletta da parte delle economie più ricche.

Ce le raccontano due studi usciti nel corso di questa settimana. Il primo evidenzia l’enorme problema del debito per le nazioni più povere nell’azione per il clima.

Il secondo illumina l’altro versante di questa storia, la predilezione per la fortezza climatica, la tendenza dei paesi più sviluppati a investire nella militarizzazione delle frontiere (anche nella prospettiva di un aumento delle migrazioni ambientali) invece che nella solidarietà nei confronti di quelli che stanno subendo una crisi climatica che hanno contribuito solo in minima parte a causare. 

Due studi

La prima ricerca viene da Jubilee debt campaign, una coalizione di organizzazioni che si battono per la cancellazione del debito, ormai diventato un enorme problema anche nel contrasto alla crisi climatica.

I 34 paesi più poveri al mondo spendono cinque volte in più per ripagare il debito accumulato nei confronti di altri paesi, banche e istituzioni internazionali che in misure di adattamento e mitigazione all’emergenza climatica.

In fondo alla classifica del Pil, i pagamenti annuali sul debito oggi ammontano a 29,4 miliardi di dollari, mentre l’investimento per sopravvivere in un mondo che cambia soltanto a 5,4 miliardi di dollari.

Era anche uno dei temi sollevati nel potente intervento dell’attivista Vanessa Nakate all’evento Youth4Climate di fine settembre a Milano. L’Uganda, il suo paese, ha potuto spendere solo 537 milioni di dollari per infrastrutture di adattamento tra il 2016 e il 2020, un budget annuale di 107,4 milioni, drasticamente inferiore al 739 milioni di dollari pagati nel 2021 per rincorrere il debito.

È una forbice che secondo le proiezione di Jubilee debt campaign non farà che allargarsi: nel 2025 le economie più vulnerabili si troveranno a spendere sette volte di più in pagamento del debito (con interessi che viaggiano intorno al 10 per cento) che in azione per il clima. 

La «grande muraglia climatica»

L’altra faccia sono le economie più ricche e solide, quelle riunite a Roma questo weekend per il G20. La faticosa rincorsa partita nel 2009 per arrivare a 100 miliardi di dollari all’anno era stata sigillata alla Cop21 di Parigi.

La deadline era il 2020, la lentezza e i ritardi nel mettere insieme questa somma sono state uno degli esiti più scoraggianti nell’eredità dell’accordo di Parigi. Una prospettiva interessante sulle scelte e le priorità di questi paesi (tra cui l’Italia) arriva da uno studio della ong Transnational institute, che ha messo a confronto il Green climate fund con quello che ha definito il Global climate wall, la «grande muraglia climatica» di muri e confini altamente sorvegliati che nel prossimi decenni servirà a tenere fuori i migranti spinti a mettersi in viaggio non solo dalla povertà e dalle guerre, ma anche dalle catastrofi ambientali.

I fondi che sono serviti a costruire questa grande muraglia di mare e di terra sono 2,3 volte più alti che quelli finiti negli aiuti ai paesi impegnati ad affrontare l’emergenza climatica.

Spendiamo più per tenere lontane le vittime della crisi che per aiutarle a farci i conti.  

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