Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questa edizione della newsletter Areale viene scritta e inviata grazie all’accoglienza di un circolo Acli di Pisogne, sul lago d’Iseo.

La nostra coscienza è ancora viva

In queste settimane sto parlando spesso con le scuole e in generale con persone giovani o molto giovani. Sono sempre conversazioni delicate, che affronto con cautela, con un cauto realismo anzi, perché a volte non ci rendiamo proprio conto di cosa possano rappresentare l’eco-ansia e la paura del futuro per generazioni che hanno formato la propria visione del mondo in un contesto già di crisi cronica. Pensavo che chi frequenta le scuole superiori oggi è nato quando usciva il documentario Una scomoda verità di Davis Guggenheim, sui viaggi, gli incontri di divulgazione climatica e le slide di Al Gore. Una delle tante sveglie su cui l’umanità ha premuto snooze, posponi di altri quindici minuti (anni).

Si concludeva così, quel documentario: «Le generazioni future potrebbero avere l’occasione di chiedersi: ma cosa stavano facendo i nostri genitori? Perché non si sono svegliati quando ne avevano ancora la possibilità. Dobbiamo ascoltare queste domande, ora». Ecco, sono passati sedici anni da Una scomoda verità, non siamo nello stesso mondo del 2006, ma siamo in una posizione ancora troppo simile: nel 2021 le emissioni di gas climalteranti sono cresciute con il balzo più alto della storia, sprecando tutto il risparmio involontario dei lockdown del 2020.

Eravamo vicini al precipizio allora, siamo vicini al precipizio ancora oggi. Non eravamo caduti allora, non siamo ancora caduti. Lo status quo però ha dimostrato una capacità di resistenza incredibile, riuscendo a capitalizzare ogni evento (vedi: la guerra) a proprio vantaggio. Le persone giovani che ascolto, con cui parlo, non sono arrabbiate perché il futuro è compromesso. Sono arrabbiate perché il futuro è salvabile, perché il clima è ancora oggi, sei anni dopo l’accordo di Parigi, sedici dopo Una scomoda verità, ventisette dopo la prima Cop, una storia dal finale non scritto.

Abbiamo gli strumenti, le tecnologie, le risorse e le idee per salvarne la stabilità. E allora la domanda a cui devo rispondere più spesso nelle scuole è sempre la stessa: perché?

È da poco uscito un libro scritto da un’autrice significativa per almeno un paio di motivi. Si chiama Britt Wray, ha 35 anni, è una ricercatrice dello Stanford University’s Center for Innovation in Global Health ed è stata co-firmataria della più grande ricerca mai condotta sull’eco-ansia e sull’effetto che sta avendo sulle persone giovani, fatta attraverso un campione sparso in dieci paesi diversi.

Lo studio era stato poi pubblicato su Lancet: più di metà delle persone tra i 16 e i 25 anni intervistate pensano che l’umanità sia condannata. È una percentuale spaventosa, se uno ci pensa. E il 40 per cento ha paura all’idea di avere un giorno dei figli, per gli stessi motivi. Il libro di Wray però parla anche di antidoti contro questo senso di impotenza. Si intitola Generation Dread: Finding Purpose in an Age of Climate Crisis.

«Questo stress può essere anche un supercarburante, la rabbia può essere enormemente motivante. Quando è basata su un vero senso di ingiustizia, mostra che la tua coscienza è ancora viva, che il tuo senso morale è intatto».

Non sopprimere la rabbia, ma metterla al servizio del cambiamento. Fare della propria rabbia una turbina eolica, una fonte rinnovabile di energia. È lo stesso effetto che si prova in ogni momento di smarrimento collettivo, quando i diritti acquisiti e conquistati vengono messi in discussione (come la bozza di sentenza della Corte Suprema americana che metterebbe in discussione il diritto federale all’aborto negli Stati Uniti garantito da decenni) o quelli futuri sembrano compromessi. Ecco, quello è un buon momento per smettere di sentirsi persi da soli e mettersi al lavoro insieme.

Lavori come quello di Britt Wray ci mostrano però come questa faglia generazionale sia consistente e ancora non sufficientemente vista: «Noi millennial abbiamo avuto il privilegio di vivere le prime fasi di sviluppo della nostra vita senza pensare al clima ogni giorno e senza ricevere segnali continui che le nostre prospettive stanno diminuendo. I più giovani non hanno avuto questo lusso. Per loro questa paura arriva prima ancora che possano sviluppare aspetti importanti della propria identità. Non possono semplicemente godersi l’idea di essere quello che sono e attraversare l’infanzia in modo sereno, senza pressione esistenziale e senza porsi problemi più grandi di loro».

Ogni volta che incrocio le scuole e parlo a studenti e studentesse mi rendo conto che quella pressione – due anni di pandemia alle spalle e la crisi climatica davanti, a sedici anni – io non la posso nemmeno immaginare.

L’India sta soffocando

Un’ondata di calore senza precedenti per questo periodo dell’anno sta opprimendo da settimane l’India settentrionale e il Pakistan, che si sono trasformati nella dimostrazione pratica delle previsioni contenute negli ultimi rapporti Ipcc sui cambiamenti climatici.

Delhi è arrivata a superare i 46°C, con notti che non riescono a scendere sotto i 30°C. In tutto sono 15 gli stati indiani coinvolti, anche alcuni (come il settentrionale e montagnoso Himachal Pradesh) di solito molto più freschi. L’India era già reduce dal marzo più caldo di tutta la sua storia: è la parte più preoccupante di questa ondata di calore, il fatto che stia durando molto a lungo e che sia arrivata troppo in anticipo rispetto a qualsiasi modello.

In Pakistan intanto, nella città di Nawabshah, la temperature ha sfiorato i 50°C, la più alta registrata dell’emisfero settentrionale quest’anno, una delle più elevate mai misurate ad aprile.

Per l’Organizzazione meteorologica mondiale è ancora presto per stabilire scientificamente una connessione diretta con la crisi climatica, ma i dati «sono coerenti con quello che ci aspettiamo in un clima che cambia: le ondate di calore saranno più frequenti, più intense e inizieranno prima che in passato». La stessa domanda – è colpa dei cambiamenti climatici o no? – sta diventando «obsoleta», secondo la climatologa Friederike Otto, una delle massime esperte nella scienza dell’attribuzione, quella che collega i fenomeni meteo al riscaldamento globale. Il punto è smettere di sorprendersi per gli estremi e iniziare ad adattarsi, ha detto.

Il punto è che ci sono dei limiti anche alla capacità di adattamento, il tasso di avanzamento della crisi è superiore alla capacità dei paesi e delle città di attrezzare contromisure. Quello che sta succedendo in India e Pakistan è una sfida per la capacità umana di sopravvivenza, soprattutto per la combinazione tra le elevate temperature e il tasso di umidità.

È la cosiddetta «temperatura di bulbo umido», oltre la quale un corpo umano – anche quello di una persona sana a riposo – non riesce più a gestire la sudorazione e a raffreddarsi. Si arriva in questa zona di estremo pericolo con una temperatura superiore ai 31°C e con un’umidità del 95 per cento. In India solo il 12 per cento della popolazione dispone di aria condizionata per affrontare tutto questo, in Pakistan ancora meno. E questo è un mondo “solo” 1.1°C più caldo dell’era pre-industriale.

Senza un taglio molto drastico delle temperature, le medie della regione rischiano di superare i 3.5°C di aumento medio entro fine secolo. Già durante questa ondata di calore, il Pakistan ha avuto picchi di temperature superiori alle medie di 5°C / 8°C.

Queste settimane di caldo anomalo stanno avendo conseguenze a catena sull’economia e sul mercato energetico dei due paesi. Uno studio di Lancet del 2018 aveva calcolato che globalmente le ore di lavoro perse ogni anno perché fa troppo caldo sono 150 miliardi, una perdita di produttività che rappresenta oggi un duro colpo per paesi che stanno uscendo a fatica dalla pandemia.

L’India sta avendo la peggior situazione di deficit di potenza energetica da decenni, in sei stati l’energia è stata razionata e viene staccata per otto ore al giorno. Il 70 per cento dell’energia indiana viene prodotta bruciando carbone, ma i consumi così intensi a causa del caldo hanno fatto crollare gli stock, i prezzi sono alle stelle e, in un tentativo di spostare più velocemente la risorsa dove serve di più, Indian Railways ha cancellato 600 tratte passeggeri per dedicarle al trasporto di carbone via rotaia in direzione nord.

Tra gli effetti di questa ondata di calore ai quali si guarda con più attenzione c’è quello sulla produzione agricola. Quando 55,4 milioni di tonnellate di grano sono sparite dai mercati internazionali a causa della guerra in Ucraina, l’India sembrava poter compensare, grazie a cinque anni di raccolti ottimi. Ma il caldo record di queste settimane sta avendo un effetto tragico sull’agricoltura del subcontinente.

Secondo Monika Tothova, economista che lavora alla Fao citata da The Atlantic, fino al 15 per cento dei raccolti è andato perso a causa di queste alte temperature. Secondo un reportage del Guardian, ci sono zone dove il grano perso arriva al 50 per cento del totale. Una mazzata per i paesi più colpiti dalla crisi ucraina dal punto di vista alimentare: Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Yemen, Etiopia.

Ecologia nazionalista

«Ma possiamo davvero pensare che gli obiettivi nel piano Next Generation Eu e del Pnrr oggi debbano essere quelli della transizione verde?». E ancora: «Ma chi l’ha scritta questa strategia, Greta Thunberg?».

Sono due passaggi del discorso di Giorgia Meloni durante Italia energia da liberare, la convention di Fratelli d’Italia dello scorso fine settimana a Milano. Era il momento in cui il partito che oggi è in testa ai sondaggi e che tra un anno potrebbe andare a Palazzo Chigi presentava la sua idea di governo e di Italia. È una buona occasione per ricordarci che la situazione politica di oggi può anche sembrare deludente (lo è, da un punto di vista ambientale, soprattutto date le premesse di febbraio 2021), ma domani potrebbe essere decisamente peggio.

L’ecologia conservatrice proposta da Meloni solleva temi reali – come l’eccessiva dipendenza strategica dell’Italia e dell’Europa da risorse minerarie e produttive distanti geograficamente e politicamente – ma li strumentalizza per arrivare alla conclusione che tanto vale non fare nessuna transizione ecologica, perché «ha obiettivi che sono sempre più distanti dai nostri interessi nazionali».

È un buon modo per ricordare che il modello di sviluppo capitalista ha creato le condizioni per la devastazione climatica, ma il nazionalismo e il sovranismo sono oggi i principali ostacoli a un’azione efficace. L’atmosfera non ha confini, i cambiamenti climatici sono sovranazionali e globali, sono planetari, e solo un’azione a quel livello può sperare di portare dei risultati.

Il responsabile ambiente di Fratelli d’Italia si chiama Nicola Procaccini, avevo parlato con lui un anno fa per un articolo sull’ecologia di destra. Al congresso ha ribadito le idee che mi aveva raccontato: «L’ecologia rappresenta la quintessenza della causa conservatrice perché è l’essenza di quell’alleanza tra i morti, i vivi e i non ancora nati». (A proposito di strumentalizzazioni e anche di come potrebbe cambiare il diritto all’aborto in Italia con un governo di destra destra).

«Volutamente non uso la parola ambientalismo ma ecologia perché nella sua etimologia troviamo la nostra identità. Ecologia significa occuparsi della propria casa e la grande differenza tra l’ambientalismo di sinistra e l’ecologia della destra sta anche nella nostra spiritualità contro il loro materialismo. Per noi la vita è sacra in tutte le sue forme: è quello che porta a batterci per la vita di un cucciolo di foca ma a maggior ragione per il cucciolo custodito nel grembo di una donna».  

Questa visione di conservazione nazionalista della natura è limitata e velleitaria anche perché oggi non c’è futuro per la vita umana e non umana sulla Terra senza la cooperazione globale, che è messa a rischio dalla guerra in Ucraina e dalle altre 59 guerre in corso nel mondo, ma anche da un’idea nazionalista dell’ecologia.

Per questa settimana, dal lago d’Iseo è tutto. Per scrivermi, come sempre, l’indirizzo e-mail è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, dovete scrivere a lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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