Per arrivare dalle profondità del nostro pianeta alla gioielleria vicino casa, i diamanti compiono un viaggio che dura milioni di anni e centinaia di chilometri. Quel viaggio è legato alla kimberlite, un tipo di magma originatosi nel mantello che trasporta i diamanti in superficie attraverso un raro tipo (mai visto da uomo in attività), di bocca vulcanica. La maggior parte delle eruzioni di kimberlite infatti, si sono verificate milioni di anni fa. Poiché nessuno ha mai osservato un’eruzione di tal tipo di magma, molto rimane sconosciuto circa il fenomeno.

Un nuovo studio su Nature Geoscience, tuttavia, ha modellato il modo con cui le risalite di calore provenienti da 2.900 chilometri sotto terra (come bolle d’aria di una pentola messa sul fuoco) possono guidare questi eventi enigmatici. I ricercatori hanno utilizzato un supercomputer per mostrare come “risalite di calore” che viaggiano dal nucleo terrestre verso la superficie possono essere abbinate a noti siti di eruzione di kimberlite in tutto il mondo.

Nel cuore del pianeta

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Sviluppare questo tipo di approccio e ricerca potrà essere utile a chi desidera cercare e trovare altri giacimenti di diamanti ad oggi sconosciuti e altri depositi minerari.

«Le kimberlite sono entusiasmanti per due motivi. In primo luogo, sono le principali portatrici di diamanti verso la superficie», ha affermato il geochimico Andrea Giuliani dell’Istituto di geochimica e petrologia dell’ETH di Zurigo, che non è stato coinvolto nello studio, «e in secondo luogo, poiché sono magmi che arrivano dalle più elevate profondità del pianeta, offrono realmente una prospettiva unica sulla Terra profonda».

La ricerca negli anni Settanta e Ottanta ha suggerito che le eruzioni di kimberlite potrebbero essere causate da pennacchi di mantello in risalita verso la superficie, che arrivano da una profondità di quasi 3.000 chilometri, al confine tra il mantello terrestre e il nucleo. Uno studio del 2010 ha inoltre suggerito che i principali pennacchi siano partiti dai bordi di due bolle molto calde di tale materiale che si trovano sotto l’Africa e l’oceano Pacifico. Più recentemente, attraverso la modellazione al computer, i ricercatori hanno esaminato come questi “blob” di materiale magmatico potrebbero essersi spostati nel tempo e aver dato origine ad altri depositi di kimberliti in superficie ad oggi non ancora trovati. Attorno alle kimberliti tuttavia ci sono ancora molte domande. Una di queste la pone il geodinamico Ömer Bodur dell’università di Wollongong in Australia e uno degli autori dello studio: «Vogliamo capire perché queste eruzioni di kimberlite si sono verificate in determinati luoghi e in determinati momenti della storia del pianeta. Questa è la nostra grande domanda». È per questo che Bodur e i suoi colleghi hanno utilizzato un supercomputer per creare modelli di risalita di materiale dal mantello per simulare tali risalite tenendo conto della posizione delle zolle terrestri e conseguentemente dei continenti negli ultimi miliardi di anni. Le simulazioni sono state in grado di modellare nel corso del tempo i pennacchi di calore provenienti dal confine nucleo-mantello e si è trovata una chiara correlazione con noti siti di eruzioni di kimberlite in Africa, nelle Americhe e in Asia.

«Questi modelli geodinamici mostrano chiaramente, nello spazio e nel tempo, il legame tra le eruzioni di kimberlite e la risalita nel mantello terrestre», ha affermato Oğuz Göğüş, un geofisico dell’università Tecnica di Istanbul, non coinvolto nello studio. «Trovare una miniera di diamanti è come trovare un proverbiale ago nel pagliaio», ha detto Giuliani. «Molti sono appena sotto la superficie, magari ricoperti da sottili strati di altre rocce o si trovano in ambienti difficili come l’Artico o la giungla. E quindi non sono facili da scoprire».

Ecco perché società minerarie di diamanti hanno un notevole interesse nell’utilizzare modelli come quello di Bodur e colleghi, perché permettono di circoscrivere aree dove potrebbero esserci giacimenti non sfruttati. Questi modelli possono essere utilizzati anche da altri tipi di industrie minerarie per trovare diversi minerali che si formano grazie a flussi di calore elevati provenienti dalle profondità della Terra. Attualmente, i ricercatori di Sydney stanno utilizzando questi modelli per individuare riserve di nichel e minerali delle terre rare che potrebbero essere utili nella transizione globale verso un’energia più verde.

L’estate dei record

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Nelle ultime settimane, i record climatici sono stati infranti in tutto il mondo. Il 4 luglio è stato il giorno medio globale più caldo mai registrato, battendo il nuovo record stabilito il giorno precedente. Le temperature medie della superficie del mare sono state le più alte mai registrate e l’estensione del ghiaccio marino antartico la più bassa mai osservata.

Sempre il 4 luglio, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha dichiarato che El Niño era iniziato, «ponendo le basi per un probabile aumento delle temperature globali e condizioni climatiche dirompenti». Cosa sta succedendo al clima e perché stiamo vedendo crollare tutti questi record contemporaneamente?

Le cause sembrano abbastanza chiare e una volta tanto il cambiamento climatico fa da sfondo e non è l’unica causa: infatti, l’arrivo di El Niño sta già avendo un effetto additivo notevole, spingendo le temperature a livelli record. Ma c’è anche un altro elemento: una riduzione degli aerosol, che sono piccole particelle che possono respingere nello spazio la radiazione solare in arrivo.

Il riscaldamento estremo è dovuto in gran parte all’attuale El Niño. El Niño viene dichiarato presente ed attivo quando la temperatura della superficie del mare dell’oceano Pacifico tropicale si riscalda in modo significativo. Queste temperature più calde della media sulla superficie dell’oceano contribuiscono a temperature superiori alla media anche sulla terraferma. L’ultimo forte El Niño si è verificato nel 2016, ma da allora abbiamo rilasciato nell’atmosfera circa 240 miliardi di tonnellate di CO₂. El Niño non crea ulteriore calore, ma ridistribuisce il calore esistente dall’oceano all’atmosfera. E se in questo lasso di tempo abbiamo immesso in atmosfera grandi quantità di gas serra che hanno contribuito a trattenere ancor più energia, gli oceani, che sono enormi, hanno immagazzinato grandi quantità di calore grazie alla loro elevata capacità termica specifica.

Meno aerosol

Un altro fattore che probabilmente contribuisce all’insolito calore, si diceva, è la riduzione degli aerosol. Gli aerosol sono piccole particelle presenti in atmosfera che possono respingere la radiazione solare in arrivo. Derivano sia da attività umane che comportano la combustione di combustibili fossili, biocarburanti e vegetali, sia da fonti naturali (come polvere del deserto, spruzzi marini ed eruzioni vulcaniche). Le particelle di aerosol sono minuscole, ma numerose e spesso comprendono un numero di sostanze inorganiche e organiche. Pompare aerosol nella stratosfera è uno dei potenziali metodi di geoingegneria che vari ricercatori stanno valutando per ridurre gli impatti del riscaldamento globale.

Se si riducono gli aerosol si può avere un aumento delle temperature. Uno studio del 2008 ha concluso che il 35 per cento dei cambiamenti annuali della temperatura della superficie del mare sull’oceano Atlantico dell’emisfero settentrionale durante l’estate potrebbe essere spiegato dalle variazioni della polvere sahariana che viene sollevata in atmosfera. Ultimamente i livelli di polvere sahariana sull’oceano Atlantico sono stati insolitamente bassi.

A questa variazione degli aerosol naturali va ricordato che 2020 sono state introdotte nuove normative internazionali sulle particelle di zolfo nei carburanti per il trasporto marittimo, che hanno portato a una riduzione globale delle emissioni di anidride solforosa (e aerosol) sugli oceani. E questo è un ulteriore elemento che fa aumentare la temperatura planetaria. Nessuno invoca un maggior inquinamento per raffreddare il pianeta, ma la riduzione porta a tale conseguenza.

Mettendo insieme questi parametri si capisce come le cause che hanno portato un giugno e un luglio così caldi abbiano una spiegazione che si aggiunge al riscaldamento globale generale.

Tutto questo potrebbe realmente far sì che entro i prossimi cinque anni l’aumento della temperatura superi la barriera di 1,5°C che gli accordi internazionali non vorrebbero superare. Anche se non siamo proprio al punto di non ritorno, la finestra temporale per scongiurare un pericoloso cambiamento climatico si sta rapidamente chiudendo e l’unico modo per evitarlo è ridurre al minimo, se non eliminare, l’uso dei combustibili fossili.

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