Ciao!

Penultimo dispaccio quotidiano di Areale dal Climate Social Camp e dal Meeting europeo di Fridays for Future di Torino. Domani, venerdì 29 luglio, si sciolgono le righe, ci sarà la manifestazione conclusiva in città, bilancio partecipato di questi cinque giorni di conversazioni e prologo del Global Strike del 23 settembre. Qualcuno andrà al festival Alta Felicità in Val Susa, molti tornano a casa, vedremo dove porteranno questi semi, cosa muore, cosa si perde, cosa nasce. Sarà un autunno impegnativo, decisivo, senza fiato. Quindi oggi mi chiedo: cosa rimane di tutto questo? Domanda del giovedì: e l’impatto fuori dalla bolla?

«Se non ora, quando?»

Ne parlavo con Maria Domenica Grimaldi, un’attivista di Aversa (Caserta). «Forse i tempi davvero non sono maturi per il cambiamento che stiamo chiedendo, ma, se non lo sono ora, quando mai lo saranno?».

Già. La legislatura che si assembla alle elezioni del 25 settembre ci porterà fino al 2027, ho sentito più di una volta qualcuno sussurrare qui a Torino: forse è a quella data che dobbiamo prepararci, non alle elezioni che vengono, ma a quelle successive. Come dire: diamo per perso questo passaggio, guardiamo oltre. Ecco, no. Ma proprio: no.

Da qualunque prospettiva si guardi lo scenario italiano, dare per perso il quinquennio 2022-2027 è un privilegio che non abbiamo, che nessuno ha. Sono cinque degli ultimi otto anni e mezzo che l’Europa, e quindi anche l’Italia, hanno per tagliare le emissioni del 55 per cento. È lo strappo più grande, brusco e drastico al nostro attuale modello di produzione e consumo. Chi lo deve fare? Possiamo accettare a scatola chiusa di affidarlo a Meloni, Salvini, Procaccini eccetera? Per i dettagli, leggere Francesca De Benedetti qui

Sta cambiando qualcosa nelle reazioni chimiche tra piazza e politica, attivismo e istituzioni. A Torino è diventato lampante che siamo in un’altra fase. L’evoluzione dei movimenti per il clima mi sembra questa: la stagione da postini del messaggio scientifico si sta concludendo. Non vogliono essere più soltanto i piccioni viaggiatori che sintetizzano e diffondono i report dell’Ipcc. È giunto il momento, per i Fridays for future e ogni altra sigla satellite, di climatizzare le lotte sociali e politicizzare quelle climatiche: da qui il dialogo in corso con i collettivi delle fabbriche, i sindacati di base, il lavoro per la Terra dei fuochi, le proteste di Gela, Bologna, Piombino, Coltano. «Per questo, per altro, per tutto», come il mantra del collettivo di fabbrica Gkn.

In più, Fridays for future prova a diventare un soggetto federatore delle lotte ecologiche locali dimenticate, delle zone di sacrificio d’Italia. Se lo strike di settembre è globale e solo incidentalmente collocato a margine delle elezioni (posizione comunque fertile e ambiziosa, perché quella sarà una giornata interessante per ogni persona abbia avuto anche solo una vaga attenzione all’ecologia nella propria vita), Fridays&Co progettano altre azioni già a ottobre, nella terra di nessuno della formazione del nuovo governo, il primo della legislatura. Ma prima c’è il voto. 

«Vogliamo essere protagonisti di questa campagna elettorale, non vestiremo più i panni del sensibilizzatore disarmato», mi ha spiegato Giorgio De Girolamo. «Vogliamo esserci, e ci piacerebbe anche avere qualcosa da sostenere in modo aperto, come ha fatto Greenpeace con Mélenchon in Francia, ma qui di Mélenchon purtroppo non ne abbiamo». E allora il lavoro che uscirà da questi giorni di confronto e di politica (di cui parleremo in un lungo e approfondito pezzo di bilancio e prospettiva sull’edizione di Domani di lunedì 1° agosto) è una serie di proposte da lanciare nella campagna elettorale, alla ricerca di specifici interlocutori, un’agenda climatica sulla quale incalzare tutti i partiti politici, di cui un pilastro sarà, per esempio, la richiesta di soluzioni di trasporto pubblico gratuito come misura di riduzione di emissioni e consumi energetici, sul modello di quello che succederà in Spagna con la rete ferroviaria in autunno. 

Per l’ambientalismo italiano non è facile tenere insieme i livelli, il planetario e il locale, elezioni politiche e prospettive globali. Il Climate Social Camp è stato uno dei pochissimi luoghi in Italia dove poter ascoltare le storie delle popolazioni affette dalla crisi climatica, un paio di decine di attivisti in rappresentanza di miliardi di esseri umani, i cui bisogni vengono alternativamente ignorati o strumentalizzati. Ho ascoltato la voce di rappresentanti di cause giudicate altrimenti perse da chiunque altro, come la difesa dei diritti e delle prospettive dal Sahara occidentale.

E poi però c’è la prosaica, concreta questione del presente immediato, scoraggiante ma necessaria. I prossimi mesi saranno delicati, ci diranno qual è la capacità di questi movimenti di esserci e contare, nel dibattito e poi nelle scelte di partiti ed elettori. È stata una chiamata alle armi improvvisa, fino a poche settimane fa nessuno pensava di dover uscire da questi meeting con dei punti programmatici da sottoporre ai partiti e poi alle urne nel giro di otto settimane. Eppure questa è l’acqua.

È ancora presto per pesare quanto il clima sarà presente nella mente di chi voterà il 25 settembre. Stanno sicuramente crescendo le menzioni, i riferimenti, i punti, le interviste in quasi ogni partito. L’ammuina insomma, il disordine. E il greenwashing politico.

Difficilmente vedremo endorsement da questo pezzo di società, però vedremo giudizi sulle voci dei partiti, sulla serietà di contenuti e concetti. Qualcosa a cui – chi voterà anche per il clima a settembre – dovrà prestare attenzione. 

Ci sentiamo domani per il racconto del corteo di chiusura e per i saluti prima delle vacanze, per qualsiasi domanda, come sempre, scrivimi a ferdinando.cotugno@gmail.com.

A presto!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata