Non si può dire che sia stata una sorpresa per nessuno, ma quando un laboratorio della Lancaster University ha analizzato le emissioni del mondiale 2022 in Qatar ha scoperto che la Fifa aveva mentito, apertamente e di molto.
La carbon footprint «ufficiale» della prima Coppa del mondo ad aria condizionata era di 3,6 milioni di tonnellate di CO2, la verità invece era che le emissioni erano almeno di tre volte superiori. Un divario tra immagine e realtà che il climatologo della Manchester University Kevin Anderson aveva definito «profondamente fuorviante e incredibilmente pericoloso». Insomma, la credibilità climatica della Fifa è pari a quella dimostrata sui diritti umani: nessuna.

Alla Cop26 di Glasgow la Fifa si erano impegnata a dimezzare le emissioni delle proprie attività nel 2030 e azzerarle nel 2040. Nel 2030, invece, quello che succederà è che avremo un Mondiale organizzato come se il riscaldamento globale proprio non esistesse, uno sfregio climatico che si svolgerà in sei paesi (Argentina, Paraguay, Uruguay, Spagna, Portogallo e Marocco), tre continenti, due emisferi, due stagioni diverse.
L’assegnazione per altro serve a spalancare la via al primo mondiale saudita, nel 2034: tutte le altre contendenti sono state accorpate in una sola edizione, il successivo può andare solo in Asia o Oceania, e da quel lato esiste un solo organizzatore accreditato, che da anni lavora per averlo: Mohammad bin Salman.

Imporre il cambiamento

Quindi nel 2034 il carrozzone Fifa con ogni probabilità tornerà a esercitare d’inverno, come in Qatar, mentre quattro anni prima la manifestazione si svolgerà d’estate in tre paesi del Mediterraneo dove rischia di essere inumano giocare a calcio, a giugno o luglio. Spagna e Portogallo vengono da un’annata in cui le ondate di calore con temperature superiori ai 40°C sono iniziate ad aprile, il mondiale si svolgerà anche nel pieno della stagione degli incendi (in Portogallo nel 2017 fecero cento morti).
Non solo le trasferte oceaniche e i turni eliminatori giocati a fusi orari diversi: il mondiale 2030 rischia di mettere in pericolo la salute stessa dei giocatori. In diversi sport abbiamo visto atleti denunciare le condizioni di gioco inumane: nel tennis Medvedev agli ultimi Us Open aveva detto alle telecamere: «A un certo punto qualcuno ci muore, qui, e vediamo».

C’erano 35°C. Nello sci duecento atleti hanno scritto alla Federazione Internazionale per chiedere di organizzare il calendario della Coppa del mondo in modo da razionalizzare i voli intercontinentali (e non fare avanti e indietro sull’Atlantico varie volte).
È un modo per dire che lo sport non cambia perché i vertici decidono che cambi. Lo sport cambia quando sono gli atleti a chiedere, o imporre, un cambiamento. A parte pochi esempi individuali (uno gioca in Italia, nel Genoa, il norvegese Morten Thorsby) e di club, per ora c’è il silenzio.
Anzi, proprio con la grande campagna di acquisizione saudita di talenti, anche alcuni tra i calciatori più esposti politicamente (come l’ex capitano del Liverpool Jordan Henderson) hanno preferito gli stipendi del petrostato alla comunità Lgbt che sostenevano.

Alzare l’asticella

Sarà un problema di mitigazione e adattamento anche il prossimo Mondiale di calcio, quello che si giocherà nel 2026 tra Canada, Stati Uniti e Messico. Anche qui sarà un mix di profitti record (Infantino ha parlato di oltre 600 milioni di dollari), lunghissime distanze (gli stadi più lontani tra loro, quello di Vancouver e l’Azteca di Città del Messico, distano 4000 chilometri), emissioni record (5,5 milioni di tonnellate, l’80 per cento per gli spostamenti) e condizioni climaticamente pericolose per giocare.

Alla Bbc, la Fifa ha dichiarato: «Siamo pienamente consapevoli che il cambiamento climatico è una delle più importanti sfide dei nostri tempi e crediamo che richieda azioni immediate e sostenibili. Siamo consapevoli che i mega eventi hanno un impatto e stiamo facendo grandi sforzi per ridurlo».
Come dimostrato dal caso Qatar, le cui emissioni reali erano il triplo di quelle dichiarate, quello della Fifa non è solo greenwashing, ed è anche greenwashing pigro, non particolarmente sofisticato. Finché non saranno gli atleti ad alzare l’asticella, ai padroni del calcio andrà bene così.

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