Nel ciclo metabolico accelerato con cui percepiamo e dimentichiamo tutto, l’episodio di negazionismo climatico al quale abbiamo assistito a Piazza Pulita dieci giorni fa sembra già digerito ed espulso dal nostro sistema. Però io ci sto pensando ancora.

Breve riassunto: l’attivista di Ultima Generazione Chloe Bertini ha abbandonato lo studio, esasperata dalla messa in circolo, davanti a milioni di spettatori, di informazioni pericolose e screditate, come se il punto fosse un duello retorico all’arma bianca (dove l’arma bianca sono: grafici inventati). Ci siamo illusi che la battaglia contro il negazionismo climatico fosse ormai vinta, ci è sembrato di essere in una nuova fase, col problema ormai visualizzato e compreso, in cui contassero solo le soluzioni, le resistenze, l’inerzia dello status quo.

È vero, siamo in questa nuova fase, ma quella vecchia è ancora aperta e il negazionismo climatico in Italia sta vivendo una nuova (seconda? terza? ennesima?) ondata, e quindi è un fronte che va continuamente presidiato. Scuola, politica, informazione: valute fuori corso come i grafici mostrati a Piazza Pulita da Alberto Prestininzi sono ancora allegramente in circolazione, erba cattiva che spunta sempre, abusano della nostra stanchezza, della furbizia di chi cerca tempo col quale speculare, del divertimento di chi preme il trigger dell’ecoansia solo per fare spettacolo travestito da dibattito.

Sui social lo vedo molto bene: gli avvelenatori di pozzi sono in forma come non lo erano da anni, hanno messo un bersaglio sul clima, è un momento delicato. Questo è l’episodio 122 di Areale, cominciamo.

Eni, la realtà e il greenwashing

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Quando faremo i bilanci energetici del 2023, di questo passo Eni potrebbe risultare la terza multinazionale fossile al mondo per volume di nuovi progetti di petrolio e gas approvati per uno sviluppo futuro. Su scala globale, solo QatarEnergy e Petrobras alla fine dell’anno avranno messo in cantiere più nuovi buchi alla ricerca di idrocarburi rispetto alla controllata di stato italiana. Nel prossimo triennio, Eni aumenterà le estrazioni di petrolio e gas del 3-4 per cento ogni anno, almeno fino al 2026.

Sono dati che emergono da una nuova analisi di Oil Change International. Nella settimana in cui si è svolta l’assemblea dei soci (quarta edizione consecutiva a porte chiuse, per l’effetto di una pandemia dichiarata ormai chiusa anche dall’Oms) e dopo la citazione in tribunale per violazione dei diritti umani da parte di ReCommon e Greenpeace Italia, Eni è stata oggetto di un approfondito focus intitolato Big Oil Reality Check 2023: Eni.

Dal rapporto di Oil Change International emerge la dura realtà sotto il greenwashing: nella percezione pubblica italiana, accompagnata dal carrozzone delle grandi sponsorizzazioni di festival ed eventi, Eni spinge l’identità sostenibile del nuovo prodotto rinnovabile e verde Plenitude. La realtà industriale dell’azienda, guidata per il quarto mandato di fila dall’amministratore delegato Claudio Descalzi, racconta però un’altra storia. Per ogni euro investito in energia pulita, Eni ne investe ancora quindici in combustibili fossili che contribuiscono al riscaldamento globale e amplificano l’emergenza climatica. Non c’è nessuna svolta verde in corso.

Come dice Kelly Trout, co-direttrice della ricerca di Oil Change International: «I piani di Eni sono in netto contrasto con le conclusioni del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), secondo cui il mondo ha già costruito troppe infrastrutture per i combustibili fossili, e la produzione di petrolio e gas deve diminuire sostanzialmente entro il 2030 per limitare il riscaldamento a 1,5ºC».

È la stessa conclusione a cui è giunta da tempo anche la solitamente conservatrice Agenzia internazionale dell’energia: per arrivare al net zero al 2050 bisogna esaurire le riserve esistenti di petrolio e gas, ed è pericoloso, oltre che finanziariamente non sostenibile, aprire nuovi progetti. Esattamente l’opposto della strategia che fatto guadagnare a Descalzi la riconferma come amministratore delegato.

Nel 2022 Eni ha portato ai suoi azionisti profitti da record, come la maggior parte delle major del fossile. Per Eni parliamo di 13,3 miliardi di euro di utile. Il punto è il futuro per l’azienda e per l’Italia che questi utili contribuiscono a costruire con l’attuale guida e idea industriale: nello stesso anno quasi l’80 per cento degli investimenti di Eni sono andati in estrazione e ricerca di petrolio e gas. Un circolo vizioso che non solo ha un impatto devastante sul clima, ma rischia di danneggiare anche il futuro stesso di Eni.

La domanda centrale la pone Luca Iacoboni, responsabile strategie per la decarbonizzazione per il think tank ECCO: «A chi venderà il gas Eni nel 2030? La sfida, per colossi dell’energia come Eni, è sapersi trasformare per sopravvivere e crescere nella transizione. Per farlo è necessario spostare rapidamente gli investimenti dai combustibili fossili verso tecnologie compatibili con gli obiettivi climatici. Il rischio non è solo climatico. La domanda di gas in Europa, secondo stime della Commissione europea e dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, scenderà del 40 per cento tra il 2019 e il 2030, mentre, secondo gli scenari elaborati da Snam-Terna e RSE, quella italiana calerà rispettivamente tra il 21 per cento e il 34 per cento».

Il problema di questa strategia a trazione fossile è duplice: da un lato le emissioni di gas serra, dall’altro la perdita di competitività che rischia di arrivare tra meno di un decennio, quando una delle aziende centrali del sistema economico italiano rischia di trovarsi piena di stranded assets, infrastrutture, tubi e pozzi di una risorsa energetica che avrà sempre meno domanda e valore.

Verso Sud: l’assemblea di Fridays for Future a Bari

Fridays for Future è il movimento da cui è partito tutto, soprattutto in Italia, con quegli scioperi oceanici del 2019. Tutta la biodiversità politica che osserviamo oggi nel campo del neoambientalismo, per quanto ci riguarda, nasce lì. Siamo nel loro quinto anno di attività, di recente hanno tenuto una nuova assemblea nazionale, alla Fiera del Levante a Bari, e sapere cosa vedono e come si muoveranno è importante per capire tutta la direzione di un movimento del quale loro sono ancora architrave simbolica e politica.

Fridays ha partecipato al dibattito pubblico italiano in stagioni molto diverse tra loro, ormai ha attraversato quattro governi, è stato infinitamente citato, blandito, convocato, ha guidato e indirizzato la conversazione nell’ambientalismo italiano in modi che ancora non abbiamo del tutto compreso. Oggi sembra aver perso parte di quella centralità, per l’inevitabile logoramento del tempo, per la concorrenza di gruppi comunicativamente più aggressivi ed efficaci, per tutto quello che è successo in questi cinque anni (Covid, crisi energetica, guerra).

D’altra parte, per gli stessi motivi, è una cosa grandiosa che Fridays for Future sia ancora qui, che abbia resistito a tutto, che abbia mostrato questa tenacia e longevità e che sia stato in grado di portare quasi 200 attivisti per tre giorni a lavorare su un nuovo atto di costruzione di futuro, di movimento e collettivo.

Ne ho parlato con Marco Modugno, che nella sua Bari era in un certo senso padrone di casa e che è uno degli otto portavoce nazionali. «Abbiamo lavorato sull’identità, sulle campagne e sulla struttura», ha spiegato. In pratica: chi siamo, cosa facciamo, come lo facciamo. Fridays è stato un movimento dall’enorme portato morale e simbolico, costruito in modo orizzontale, aperto, plasmabile a seconda di quello che trovava sul territorio. «Ora è giunto il momento di valorizzare questa capillarità che abbiamo creato», spiega Marco, una formula un po’ criptica che significa: usare questa diffusione per saper parlare meglio e di più anche di esigenze locali fuori dalle mappe della politica nazionale.

L’eterogeneità è sempre stata allo stesso tempo un valore e un limite di Fridays for Future Italia, «in passato c’è stata una grande dispersione delle energie», ammette Modugno, «il nostro obiettivo è imparare a lavorare su campagne specifiche». Non più everything, everywhere, all at once, ma un tema alla volta.

Un altro punto, un non detto che a Bari è stato esplicitato, è la debolezza del movimento per il clima al sud, e quindi la difficoltà a rappresentarne problemi e visioni. Ci sono intere regioni, come la Calabria o il Molise, senza un gruppo locale Fridays, altri nodi sono stati svuotati dallo spostamento degli attivisti verso nord per studiare o lavorare, è una sorta di circolo vizioso per cui un movimento settentrionale fa battaglie settentrionali e quindi attira anche più persone settentrionali e così via. Mappare i vuoti e rilanciare la presenza di Fridays for Future nelle regioni meridionali è uno degli obiettivi venuti fuori dall’assemblea, che non a caso si è svolta per la prima volta a sud di Roma. Vedere il problema non è la stessa cosa di riuscire a risolverlo, ma è già un passo avanti.

Un altro modo per rendere fertile l’eterogeneità di Fridays for Future Italia è la nuova spinta a non spostare tutto il peso su un’anima o su un’altra, oscillando a seconda del momento come successo in passato: si può essere allo stesso tempo movimentisti, lavorare sulla disobbedienza civile, e guardare alla politica. Di lotta e di governo, avremmo detto una volta.

Già negli ultimi cicli elettorali, diversi attivisti hanno scelto la strada della candidatura in liste locali. Fridays rimane un movimento apartitico ma è anche in grado di produrre gemmazioni che vanno a finire nei partiti, nelle liste, nei consigli comunali e regionali e poi chissà. E in quest’ottica è interessante l’esperimento di Brescia Attiva, una lista che nasce in modo quasi diretto dal gruppo locale di Brescia. Il risultato alle prossime amministrative a Brescia ci dirà molto su quanto gli attivisti possano avvicinarsi alla politica più istituzionale: un buon esito sarebbe un incentivo a riprovarci di più e meglio, un cattivo esito scaverebbe un solco. «Questo tema però prima era un tabù e oggi non lo è più, è stato se non altro legittimato. Il modello Brescia è importante, contiene la possibilità di portare i nostri valori in ambiti diversi. Non faremo più sentire fuori dal movimento chi fa questo passo, manteniamo un rapporto, anche senza spenderci politicamente».

Insomma, il dogma dell’essere apartitici non cade, ma può essere ammorbidito. «Dall’assemblea», conclude Marco, «esco con la meraviglia, l’emozione nel vedere tanti di noi che lo fanno perché ci credono e per nessun altro motivo al mondo, questa cosa mi tocca da un punto di vista emotivo, mi colpisce vedere quanto lavoriamo per una realtà che chiaramente potrebbe non esserci domani, ed è una meraviglia continua che genera una nuova spinta propulsiva. Abbiamo ancora tanto da fare, da creare».

Diario dei nostri naufragi

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Ci sono settimane, periodi, in cui il mondo sembra scricchiolare più di altri. Senza alcuna pretesa di attribuzione, e solo per conoscere la forma cangiante e dolorosa del pianeta che abitiamo, quello che segue è un breve elenco di quello che è successo negli ultimi giorni, sulla traccia del diario dei naufragi marittimi compilato a mano ogni anno da secoli nella sede dei Lloyd’s di Londra del quale ti scrivevo qualche settimana fa.

In Canada è iniziata la stagione degli incendi, ed è iniziata molto presto. In Alberta la superficie bruciata è 150 volte superiore a quella degli ultimi cinque anni a questo punto dell’anno. Sono andati in fiamme 410mila ettari, è già sparito l’equivalente della superficie del Lussemburgo, con centinaia di roghi diversi di cui una settantina ancora attivi, con decine di migliaia di persone evacuate e un allarme per i prossimi giorni, visto che è in corso anche la prima ondata di calore e le temperature sono tra 10°C e 15°C sopra le medie del periodo. Il fumo è arrivato fino alla costa orientale degli Stati Uniti. Sembra davvero solo l’inizio.

L’Asia intanto è avvolta in una cupola di calore che ha sfondato diversi record. Lo storico del clima Maximiliano Herrera ha scritto che quello a cui stiamo assistendo in Asia è «uno dei più brutali eventi di calore che il mondo abbia mai sperimentato». In Laos sono stati superati i 43°C, in Vietnam è stata sfondata quota 44°C, in Thailandia siamo a 45°C, temperature più alte mai registrate nelle rispettive storie.

Nella Repubblica Democratica del Congo almeno 400 persone sono morte per un misto di piogge torrenziali, alluvioni e frane, nella provincia del South Kivu, con villaggi sommersi da onde anomale di fango e detriti. I soccorsi sono stati resi molto difficili da infrastrutture fragili, le stesse che hanno amplificato il disastro.

In Uganda e Ruanda, con dinamiche fisiche e geografiche simili (pioggia, alluvioni, frane e crolli), sono morte più di cento persone. Un pianeta che scricchiola.

Due segnalazioni prima di andare

Foto Gaia Squarci

A proposito di ondate di calore e comfort termico, se capiti a Venezia nei prossimi giorni, il 19 maggio inaugura, nel Cortile Grande dell’Università Ca’ Foscari Venezia, una mostra tra arte e scienza intitolata The Cooling Solution, un progetto fotografico coordinato da Enrica De Cian, professoressa di Economia ambientale a Ca’ Foscari e ricercatrice presso la Fondazione CMCC.

Le immagini della fotografa Gaia Squarci, scattate in tre continenti diversi, mostrano come persone con diversi background culturali e socioeconomici si adattino a condizioni di alta temperatura e umidità, in paesi temperati e tropicali. Il progetto è (anche) un modo per mettere in discussione il paradigma dell’adattamento al cambiamento climatico incentrato sull’uso indiscriminato dei condizionatori.

Secondo il rapporto The Future of Cooling pubblicato nel 2018 dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, nei prossimi trent’anni verranno venduti dieci impianti di aria condizionata al secondo, raggiungendo così nel 2050 il numero notevole di 5,6 miliardi di impianti installati a livello mondiale. Dovremmo parlarne. C’è un altro modo? Andiamo a Venezia a vedere?

Stai seguendo il Giro d’Italia? Hai notato qualcosa, oltre e a margine della corsa? Il Giro è una specie di oblò itinerante per osservare l’Italia e quello che ci vedo io è: boschi, tantissimi boschi. È quello che vedono anche i miei compagni di viaggio Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano che, per Lifegate, stanno raccontando proprio questo angolo, con una serie di articoli che ricostruiscono e raccontano il Giro forestale d’Italia al seguito della corsa. Un modo per decodificare quello che intuitivamente vediamo a occhio nudo.

Dice Luigi: «Le immagini trasmesse in mondovisione in occasione del Giro ci raccontano ogni anno la variegata realtà paesaggistica del nostro paese, regalandoci panorami spettacolari, scorci di borghi tradizionali, città, campi coltivati, pascoli e, soprattutto, boschi. Foreste che coprono oltre un terzo d’Italia, diversissime tra loro e, proprio per questo, ricche di biodiversità, legate indissolubilmente da millenni alle attività umane e quindi, oggi, possibili laboratori a cielo aperto di sostenibilità». Si legge qui.

Per questa settimana è tutto, se hai voglia di scrivermi, condividere tecniche di raffrescamento, storie di ciclismo su strada, tecniche agricole e ricette vegane facili, puoi scrivermi come sempre a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per parlare con la redazione, invece: lettori@editorialedomani.it.

Ciao!

Ferdinando Cotugno

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