Buongiorno,

questo è l’ultimo numero di Areale per il 2022.

Vorrei dire che è volato, ma anche no, è stato un anno complicato, a livello personale e collettivo, ma siamo ancora qui, con tutti i nostri punti di rottura e tutta la speranza che abbiamo, quindi bravi noi. Il 2022 è stata una corsa a perdifiato, sabato dopo sabato, e poi con le coperture quotidiane di Climate Social Camp a Torino e di Cop27 a Sharm El Sheikh. Quindi ora iniziamo con l’ultimo tango, ma prima: grazie. Areale è una delle cose che preferisco fare nella vita, e se è una cosa viva e biodiversa è grazie a te che leggi dall’altra parte di questo schermo e di questa lettera.

Year in Review: il 2022 ha fatto anche cose buone

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Che anno è stato? Il 2022 è stato quel giorno di giugno che è piovuto, dopo mesi senz’acqua, e ho sentito una specie di sollievo aleggiare sulla mia città, una specie di liberazione, ma è stato anche il collasso della Marmolada, le prime ore non si riusciva nemmeno a parlare o scrivere, figurarsi elaborare, poi le Marche, poi Ischia.

Però è stato anche il giorno in cui il piano si è inclinato a favore della giustizia climatica a Cop27 o, ancora, quando nel Centro congressi di Sharm la sorella di Alaa Abdel Fatteh ha detto ai manifestanti: voi siete tutto quello che mio fratello ha sempre sognato, il motivo per cui lui è in carcere e lotta ancora. Le presentazioni di Primavera ambientale, le restituzioni di Cop27, Speranze climatiche in una Torino gelida. Il 2022 è diecimila cause perse che certi giorni sembrano un po’ meno perse. Le pessime notizie, tutte le settimane, ma anche le buone notizie.

L’Unione europea che trova un accordo politico per il CBAM, il meccanismo di aggiustamento per il prezzo del carbonio alle frontiere, una svolta epocale. Gli avanzamenti tecnologici per le batterie al sodio, che hanno quattro volte la capacità di quelle al litio, per non morire aspettando la fusione nucleare altri cinquant’anni e per non spostare gli squilibri ecologici solo da una fonte all’altra. Le tasse ai jet privati in Belgio e le nuove regole restrittive sui voli brevi in Francia, perché non tutte le battaglie sono invano.

I corsi obbligatori sulla crisi climatica all’Università di Barcellona, una vittoria del movimento End Fossil. L’inizio del programma Early warning for all delle Nazioni unite, un sistema di allarme per eventi estremi per ogni essere umano entro il 2027. Le elezioni in Brasile, e tutto quello che significano, con la fine del mandato di Bolsonaro sull’Amazzonia brasiliana. I numeri sulle rinnovabili di Cina e India, spettacolari e raccontati troppo poco. L’approvazione dell’Inflation reduction act negli Stati Uniti. HSBC che diventa una delle più grandi banche al mondo a interrompere i finanziamenti a nuovi progetti di estrazione di combustibili fossili.

Il ritorno della fauna in Europa e il primo bisonte nato in Inghilterra, a sorpresa. La laguna di Mar Menor in Spagna che diventa il primo spazio naturale a essere protetto legalmente come una persona. Tesla che ha iniziato le consegne dei sui camion elettrici, un primo passo per decarbonizzare uno dei settori più difficili da decarbonizzare. Il ritorno di un iguana che sembrava estinto alle Galápagos, quello dei ghepardi in India dopo settant’anni, il primo avvistamento dopo un secolo e mezzo del piccione fagiano in Papua Nuova Guinea. La Finlandia che si impegna a diventare carbon neutral nel 2035. L’inizio del percorso per avere un accordo internazionale sulla plastica. E aspettiamo la fine di Cop15 a Montreal.

Non basta, niente di tutto questo basta, ma queste sono cose che sono successe quest’anno e che ci ricordano che l’umanità non è né immobile né inerme, che battaglie locali e globali possono avere successo, che c’è un mondo nuovo in costruzione e che pezzi e segnali sono dappertutto.

La criminalizzazione globale dell’attivismo

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Deanna Violet Coco non avrebbe mai immaginato un mucchio di cose. Di diventare un’attivista per il clima, di finire in carcere a poche settimane da Natale, di diventare un simbolo globale della repressione che sta colpendo i movimenti per il clima in tutto il mondo. Il suo risveglio climatico, la sua accensione da lampadina nel buio, è stata tre anni fa, quando Sydney, Australia, è stata avvolta dal fumo degli incendi del 2019, settimane che nessun australiano dimenticherà facilmente. Faceva l’imprenditrice ramo eventi e non aveva nessuna vera storia politica alle spalle, poi ha visto il mondo bruciare e ha deciso di provare a fare qualcosa.

Ora affronta la prospettiva di una condanna a un anno e mezzo di carcere per aver bloccato un ponte e acceso un fumogeno durante una manifestazione, il New South Wales ha da poco votato una delle legislazioni più repressive in un paese democratico contro le proteste ambientaliste, e lei è diventata una delle prime persone senza storia penale e senza aver commesso atti violenti a finire in cella. Ha trascorso undici giorni nel carcere Silverwater di Sydney, è stata condannata, è in attesa dell’appello e ora è libera su cauzione.

In Italia le proteste non violente di Ultima Generazione e di Extinction Rebellion sono accolte con un pugno sempre più duro, denunce, fogli di via, perquisizioni a Roma, Torino, Milano. Uno degli epicentri della criminalizzazione dell’attivismo climatico è il Regno Unito, con centinaia di arresti in tutti i movimenti nati negli ultimi anni, da Insulate Britain a Just Stop Oil, a seguito di proteste vistose ma non violente.

La repressione ha due facce: quella poliziesca e penale, che sta diventando sempre più muscolare, e quella culturale: il tentativo di isolare i movimenti, oscurare le ragioni delle proteste, drammatizzarne le forme, scavare un solco che impedisca al messaggio di uscire dalla bolla dell’ambientalismo. Arresti e delegittimazioni sono due pezzi dello stesso discorso. È una traccia da osservare, per il 2023.

Il manuale della lobby del gas

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La transizione energetica europea al tempo della guerra in Ucraina si svolge ancora su un piano inclinato, una contesa continua tra le ragioni del fossile e quelle dell’energia pulita. Su questo piano contano investimenti e politiche energetiche, ma anche narrative e strategie di pressione più o meno trasparenti, come dimostra il caso Qatargate, che non riguarda direttamente i combustibili fossili ma comunque coinvolge un partner energetico dell’Unione.

Il centro studi Influence Map ha analizzato la strategia climatica di lobby dell’International Gas Union (IGU), che lavora per conto di aziende energetiche come Shell, TotalEnergies, Exxon Mobil. Sul suo sito IGU si descrive come «portavoce globale dell’industria del gas». I documenti risalgono al 2021 e rivelano come le strategie politiche e di disinformazione della lobby del gas fossero già attrezzate a un «cigno nero», un evento in grado di sconvolgere durante questo decennio l’agenda politica globale.

Erano già pronti, quando a febbraio il cigno nero ha preso la forma dell’invasione russa in Ucraina. Il conflitto, secondo l’Onu o l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), dovrebbe essere un manifesto per le ragioni di una decarbonizzazione profonda delle nostre economie, da slegare al più presto dai mercati internazionali del gas, che ormai secondo la Iea non può nemmeno più essere considerato una fonte energetica ponte, di transizione, ma solo come un grande stranded asset di cui liberarsi.

IGU invece ha lavorato sulla narrativa opposta, presentando presso i centri nevralgici del potere internazionale il gas liquefatto come la soluzione ai problemi energetici del presente e del futuro. Gli interlocutori sono stati Onu, G20, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, banche di sviluppo regionali. La lobby del gas scrive che il dibattito sui cambiamenti climatici è «una minaccia esistenziale per la catena del valore del gas naturale». Per questo motivo il manuale per l’inquinamento di quel dibattito è tarato sul livello di coscienza ambientale dei diversi blocchi locali.

In Europa il messaggio è tutto indirizzato al «greening of gas», un eufemismo evidente per greenwashing, per presentare questa fonte fossile come energia sostenibile e a basso impatto di carbonio. Una strategia di successo, come dimostrano la tassonomia verde europea, che ha incluso il gas tra le fonti sostenibili verso cui indirizzare gli investimenti finanziari, o il documento finale di Cop27, dove accanto alle rinnovabili sono state inserite proprio fonti «low carbon», scappatoia proprio per far guadagnare al gas ancora decenni di operatività sul mercato. La traduzione concreta di questa strategia sono i massicci investimenti in infrastrutture per ricevere gas liquefatto da esportatori come Qatar o Stati Uniti.

Un altro centro studi, Global Energy Monitor, ha di recente analizzato cosa significa la corsa europea alla costruzione di terminal per il gas dal punto di vista climatico. Il potenziale di assorbimento di GNL raddoppierà nei prossimi anni, crescendo del 92 per cento da qui al 2026, una strada che rischia di mandare all’aria tutte le scadenze per la riduzione delle emissioni. I paesi più compromessi in questa corsa a dotarsi di nuovi terminal per assorbire combustibile fossile sono Germania e Italia.

Il gas in Europa non viene per niente trattato come una fonte energetica da superare nei prossimi decenni: la maggior parte dei nuovi contratti per assorbirlo nei terminal in costruzione partirà nel 2026 e avrà una durata di quindici, venti anni. Non risolvono la crisi delle bollette al presente per famiglie e aziende e, una volta che questa costosa infrastruttura sarà stata messa in piedi e sarà operativa, sarà molto difficile liberarsene, perché vorrebbe dire bruciare miliardi di euro di investimenti. Dal punto di vista concreto, significa un’Europa che entra addirittura negli anni Quaranta di questo secolo ancora alimentata a tutto gas, scelta che si porta dietro problemi ecologici e una lunga serie di relazioni geopolitiche problematiche, oltre al legame con mercati che continuano a essere costosi, volatili e imprevedibili. Una scelta in totale contraddizione con il piano REPowerEU (che prevede la riduzione del consumo di gas del 52 per cento entro il 2030) o con la legge europea sul clima. È la prova che le narrative sul gas stanno ancora dominando la politica.

Lettrici e lettori, per quest’anno da Areale è tutto, noi ci sentiamo dopo le feste. Ti lascio una lettura finale, un’intervista che mi ha fatto Caterina Orsenigo per Il Tascabile, in cui riesco a dire molte cose che ho a cuore sul rapporto tra informazione, clima, attivismo e realtà. Riposiamoci, stiamoci vicini, recuperiamo le forze, poi verrà un altro anno importante. Stai bene, se ne hai voglia scrivimi e teniamoci in contatto (e facciamoci gli auguri!). L’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per parlare con Domani scrivi a lettori@editorialedomani.it.

All’anno prossimo!

Ferdinando Cotugno

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