Il modo in cui si racconta la crisi climatica cambia le soluzioni adottate e le prospettive. Negli ultimi tre anni Greta Thunberg, i Fridays for Future e gli altri movimenti hanno dato la sveglia alle opinioni pubbliche mondiali: non si può restare indifferenti mentre l’attività umana mette a rischio la vita stessa sul pianeta.

Grazie a Greta e a tutti gli altri, ci siamo svegliati eccome. Intorno alla questione ambientale, si agitano energie intellettuali e politiche ignorate dai partiti tradizionali ma potenti.

In estrema sintesi, il movimento ambientale sta reinventando la sinistra per il Ventunesimo secolo: l’equità non viene più declinata soltanto su base orizzontale, tra classi sociali, ma anche in verticale, tra generazioni.

La nuova sinistra

Al centro di questa nuova sinistra non c’è più il lavoro, ma la giustizia, intesa come il rifiuto delle esternalità negative che sono alla base della crisi climatica: soltanto tenendo conto delle conseguenze delle nostre azioni su tutti gli altri, di oggi e di domani, si possono attuare politiche moralmente difendibili ed economicamente sostenibili.

La seconda differenza sostanziale rispetto ai primi allarmi di Greta, nel 2019, è che la crisi climatica ha assunto una dimensione geopolitica: non si tratta più di arginare i danni, ma di guidare il cambiamento.

La Cina è leader mondiale nella produzione di energia rinnovabile, ne produce il doppio che nel 2020, nel 2021 ha investito l’equivalente di 380 miliardi di dollari, più di ogni altro paese.

Gli Stati Uniti hanno reagito con l’Inflation Reduction Act che, a dispetto del nome, è un gigantesco piano di sussidi pubblici giustificati in nome della questione ambientale: vale 370 miliardi di dollari e ne mobiliterà molti di più.

L’obiettivo è di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 40 per cento entro il 2030 e ridurre il costo della crisi climatica per gli Stati Uniti di 2.000 miliardi entro il 2050.

Tutte le stime a lungo termine sono discutibili, ma le analisi del Fondo monetario, tra gli altri, dimostrano che prima si cambia meno costa.

Anche se ridurre le emissioni del 25 per cento entro il 2030 costa almeno tra lo 0,15 e lo 0,25 per cento del Pil ogni anno. Non è poco, ma più si rimanda, più il conto sale.

Non è più questione di dividersi tra negazionisti e catastrofisti. La battaglia climatica è già in corso, bisogna decidere su quale lato schierarsi, cioè quale aspetto privilegiare: la sicurezza energetica immediata (più gas, più carbone, più nucleare) o la costruzione di una autonomia strategica di medio periodo, accorciando filiere e costruendo alleanze energetiche?

Si devono proteggere i lavoratori, sussidiando industrie energivore e inquinanti, o i cittadini, ai quali però è inevitabile imporre restrizioni ai consumi?

La crisi climatica è  l’arena nella quale la politica, dai partiti agli elettori, si muove e agisce.

Come giornale, Domani ha un approccio pragmatico: questi sono per noi gli argomenti più importanti. Nel nostro evento Speranze Climatiche a Torino il 3 e 4 dicembre, e poi nelle nostre pagine, nella newsletter di Ferdinando Cotugno Areale e in tutte le altre declinazioni, cerchiamo di mettere insieme tutti i protagonisti decisivi di questo dibattito, gli attivisti, i politici, le aziende, gli intellettuali.

Non per far andare tutti d’accordo, anzi, proprio per far emergere la rilevanza delle questioni in discussione e degli interessi contrapposti. Perché prendere atto della posta in gioco è il primo passo verso un utile compromesso.

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