Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un numero di Areale inviato dall’Uganda (sì, è un periodo che sono spesso in giro). Mi trovo qui per un motivo per il quale ci leggeremo, appunto, su Domani. Intanto cominciamo.

Lo stato degli uccelli

Un buon modo per misurare lo stato di salute della Terra è guardare agli uccelli. Sono la classe di vertebrati più ubiquamente diffusa, sono estremamente studiati e sono incredibilmente sensibili a quello che succede negli ecosistemi: rispondono «come il canarino della miniera» alla crisi climatica, alla distruzione degli habitat, all’inquinamento, oltre che alla caccia diretta (e in questo purtroppo l’Italia ha diversi tristi primati). Per questo motivo è interessante leggere la ricerca State of the World’s Birds, pubblicata su Annual Review of Environment and Resources.

Nel mondo ci sono circa 11mila specie diverse di uccelli. La popolazione di metà delle specie di uccelli che esistono sta diminuendo, mentre solo il 6 per cento delle specie di uccelli è in crescita. Tra le aree più pericolose per essere un volatile ci sono i paesi ricchi dell’emisfero settentrionale, cioè noi: la popolazione totale di uccelli di Stati Uniti e Canada ha perso 3 miliardi di esemplari rispetto al 1970, quella in Europa 600 milioni di esemplari rispetto agli anni ottanta, 2,7 milioni di uccelli muoiono ogni anno in Canada per l’ingestione di pesticidi, i gatti domestici ne uccidono oltre due miliardi all’anno negli Usa.

Le specie più in difficoltà sono quelle più grandi, che ci mettono più tempo a riprodursi, come albatros, gru, pappagalli. Ogni paese al mondo ospita almeno una specie in via di estinzione. La conservazione funziona, 70 specie hanno abbassato il loro livello di rischio dal 1988 e ci sono popolazioni che stanno meglio, come gli uccelli acquatici, che sono aumentati del 13 per cento rispetto al 1970, segno che specifici progetti funzionano, ed è una buona notizia.

Altre cattive notizie invece sono che 391 specie hanno visto il proprio status deteriorarsi e ora rischiano di più che trent’anni fa e che le aree rurali dell’Europa hanno visto le popolazioni crollare del 57 per cento. «Se vogliamo che gli agricoltori proteggano la biodiversità, dobbiamo pagarli come società per il servizio reso», ha detto al Guardian Alexander Lees, della Manchester Metropolitan University, che ha coordinato la ricerca. È il grande capitolo del pagamento dei servizi ecosistemici, ancora molto indietro in Italia.

Il crinale dell’Amazzonia

Torniamo al volo a parlare di deforestazione, dopo i dati del World Resources Institute di cui avevamo discusso due settimane fa, col Brasile leader mondiale della distruzione forestale anche nel 2021. Ecco: il mese di aprile è il terzo da record (su quattro finora) del 2022, dopo gennaio e febbraio, secondo i dati dell’Agenzia spaziale brasiliana, che effettua questo tipo di rilevazioni via satellite ed è la fonte di informazioni più accurata su questo fronte. La distruzione dell’Amazzonia ad aprile è arrivata a 1012,5 km quadrati. Nei primi mesi dell’anno è aumentata del 69 per cento rispetto all’inizio del 2021 (che, ricordiamo, era già da record), e non è un caso che questo sia un anno elettorale per il Brasile. A ottobre si vota per le elezioni presidenziali, per gli equilibri climatici della Terra è estremamente importante che Jair Bolsonaro non sia più presidente. Questo saccheggio finale lo dimostra.

Sempre su questo argomento, ho letto un intervento interessante di Robert Muggah (co-fondatore del think tank Igarapé Institute) e Mac Margolis (autore di Last New World: The Conquest of the Amazon Frontier) sul Washington Post. Il tema è la connessione tra la disinformazione – in un paese estremamente polarizzato come il Brasile, quindi vulnerabile – e la deforestazione, e come la presidenza di Bolsonaro abbia compiuto un totale rebranding di questo saccheggio dell’Amazzonia, usando il lessico base del capitalismo: sviluppo, modernizzazione, impresa.

Tra le fake news più diffuse, il bisogno del Brasile di estrarre potassio dal territori indigeni del Brasile per compensare il crollo di esportazione dei fertilizzanti dopo l’invasione dell’Ucraina, quando i dati dicono che i due terzi delle riserve di potassio del Brasile sono fuori dall’Amazzonia e solo l’11 per cento è in territorio indigeno. Nella fabbrica brasiliana della disinformazione climatica i social sono uno strumento feroce, di fatto una motosega digitale, con video di influencer che giustificano il saccheggio che hanno superato 70 milioni di visualizzazioni su YouTube, per non parlare delle teorie del complotto sulle organizzazioni ambientaliste, raccontate come al soldo di agitatori stranieri. È impossibile non sottolineare quanto c’è in ballo alle elezioni di ottobre.

I tribunali che bloccano la decarbonizzazione

Uno dei primi ordini esecutivi da presidente degli Stati Uniti per Joe Biden è stato mettere la parola fine all’oleodotto Keystone XL, una delle battaglie che hanno definito l’ambientalismo americano negli anni Dieci. Ora l’azienda energetica canadese TC Energy vuole 15 miliardi di dollari dal governo statunitense come compensazione per quella decisione.

È uno degli esempi fatti da una ricerca pubblicata su Science per spiegare uno dei rischi meno raccontati della dismissione delle infrastrutture fossili: le clausole dei contratti e gli arbitrati tra investitori e stati sovrani nelle cosiddette procedure Isds (Investor-state dispute settlement). Questi strumenti sono stati creati a livello internazionale per gestire le dispute tra le aziende e paesi politicamente instabili ma ricchi di materie prime.

Secondo lo studio, condotto dal Boston University Global Development Policy Center, dalla Colorado State University e dalla Queen’s University canadese, i costi delle cause che le aziende energetiche potrebbero condurre contro i paesi che decidano di fare marcia indietro sulle infrastrutture legate ai combustibili fossili potrebbero arrivare a 340 miliardi di dollari. Il 10 per cento della produzione mondiale di petrolio e gas è coperto da un accordo di questo tipo.

È significativo che nel 2020 la finanza per il clima globale per fare la transizione energetica non abbia raggiunto quella cifra e si sia fermata a 321 miliardi di dollari. Questi costi immensi potrebbero essere il cartellino del prezzo per contenere l’aumento di temperature a 1.5°C e rispettare l’accordo di Parigi, ma in realtà sono una leva di protezione finanziaria dello status quo, anche perché molti dei paesi più a rischio di dover rimborsare i colossi del fossile sono economicamente vulnerabili.

Le prime tre economie per esposizione Isds sono infatti il Mozambico, con perdite che potrebbero arrivare a 31 miliardi di dollari, Guyana e Venezuela (21 miliardi di dollari), seguite dalla Russia di Putin (16 miliardi di dollari) e dal Regno Unito (14 miliardi di dollari). Uno dei casi di studio citati dai ricercatori riguarda l’Italia, con il contenzioso della britannica Rockhopper nei confronti del nostro paese dopo lo stop alle trivelle e all’esplorazione lungo la costa dell’Adriatico. È un problema che risale al 2014, quando la società non fu in grado di realizzare una piattaforma al largo di Chieti dopo una una serie di proteste di comitati locali.

A oggi ci sono stati 231 arbitrati tra investitori e stati legati a progetti di estrazione e trasporto dei combustibili fossili, sono il 20 per cento del totale di questo tipo di dispute in tutti i settori. Il 92 per cento sono legati all’oil and gas, e il dato più importante è questo: nel 72 per cento dei casi hanno vinto le aziende energetiche. Anche se i governi non sempre perdono, secondo Science le regole sono abbastanza vaghe da rendere gli esiti imprevedibili.

Dato che il rischio finanziario è molto alto, spesso si tratta di uno strumento che negli effetti scoraggia l’uscita dei paesi dai progetti. L’ammontare medio delle compensazioni è di 600 milioni di dollari e la valutazione del valore di questi asset è difficile da fare, perché dipende dai prezzi di petrolio e gas, che sono molto volatili e sensibili a shock come la pandemia o i conflitti. Le dispute sono risolte da tribunali creati ad hoc, composti di solito da tre membri: uno scelto dall’investitore, uno dal paese coinvolto e uno nominato da organismi delegati, come l’International Centre for the Settlement of Investment Disputes (Icsid), che è parte della Banca mondiale.

Durante la Cop26 la Nuova Zelanda non ha aderito come full member al Boga (l’accordo promosso da Costa Rica e Danimarca per programmare l’uscita totale da petrolio e gas) proprio per timore di un arbitrato Isds dal quale rischiava di uscire sconfitta. La ricerca però sottolinea che i paesi più in difficoltà su questo fronte siano quelli a basso o medio reddito, per i quali una sconfitta in un arbitrato di questo tipo rappresenterebbe una catastrofe finanziaria.Tra le misure proposte per evitare che queste dispute rallentino la decarbonizzazione globale c’è quella di inserire una clausola climatica: se il paese che blocca il progetto lo fa per rispettare impegni internazionali sul clima non deve essere sottoposto a risarcimenti.

Un paio di cose su quel libro sugli oleodotti da far saltare

Forse è il libro più consigliato, discusso, prestato o regalato del momento nella bolla dell’ambientalismo, quindi parliamone. Partiamo dal titolo: Come far saltare un oleodotto (Ponte alle grazie) non parla di come si fanno saltare in aria gli oleodotti o le infrastrutture fossili. Parla delle ragioni che Andreas Malm vede per una svolta strategica non-non violenta delle battaglie ambientaliste.

Mi ha colpito anche il pudore dell’editore, che ha tradotto How to Blow Up a Pipeline senza sottolineare troppo dalla copertina l’aspetto incendiario del libro. Insomma, poteva diventare Come far saltare in aria un oleodotto, oppure Come far esplodere un oleodotto, o Come distruggere gli oleodotti, invece Come far saltare un oleodotto ci tiene ancora nella zona di prudenza. In fondo, se uno vede la copertina magari pensa che saltino per mancati investimenti, o per le proteste pubbliche, o per problemi logistici.

Invece no, Andreas Malm ci dice che devono proprio saltare in aria, il suo libro è un invito alle bombe. «Soft, gingerly sabotage» scrive nel libro, ma comunque sabotaggio fisico, per mezzo di detonazioni.

Malm è docente di ecologia umana all’università di Lund, in Svezia, ed è un attivista che ha fatto tutto il giro delle proteste per il clima, dallo sgonfiare le ruote dei Suv a Stoccolma ad assediare un numero ragguardevole di conferenze sul clima. Dopo una lunga militanza accademica e di corteo è giunto alla conclusione che al movimento manchi un fianco radicale per essere efficace. In un capitolo spiega che ci sono troppi Martin Luther King e non abbastanza Malcom X, partendo dalla tesi che il movimento per i diritti civili ottenne le sue vittorie politiche non solo per la pratica non violenta del primo ma anche sull’onda della minaccia più violenta del secondo.

L’ipotesi del sabotaggio secondo Malm va anche oltre le campagne Just Stop Oil che abbiamo visto nel Regno Unito. Ancora troppo poco. Nella sua ricostruzione storica, le infrastrutture fossili sono state prese di mira da rivoluzionari, separatisti, terroristi, per i motivi più vari, ma mai per motivi climatici, e secondo lui è giunto il momento di farlo, altrimenti «la difesa della proprietà privata ci costerà il futuro della Terra».

Come far saltare un oleodotto è una provocazione teorica e cerebrale, e così va affrontata. Malm si prende sul serio nella sua esposizione, ma il suo lavoro va letto come l’esercizio di un paradosso, anche perché se si è convinti delle cose che scrive lui, non si pubblicano manuali filosofici.

Lui cita con ammirazione il caso di Jessica Reznicek, attivista americana condannata a otto anni di carcere per terrorismo dopo una serie di attacchi contro la Dakota Access Pipeline, ma non sembra avere nessuna intenzione di andare lungo quella strada. Il libro è anche un bilancio sul movimento del quale ha fatto parte, sulle strategie di Fridays for Future ed Extinction Rebellion, sulla scelta della non violenza strategica. Per Malm quella strada non sta portando risultati né può portarne in tempo per fermare gli effetti peggiori della crisi climatica.

Malm ha scritto un saggio che tocca le corde dell’ansia, della disperazione, della paura: se siete così spaventati, agite in modo drastico, suggerisce. È un libro interessante, ma la penso come Bill McKibben (criticatissimo nel libro di Malm): andare lungo questa strada è esattamente quello che l’industria fossile vuole. Vorrebbe dire fare a pezzi il capitale morale del movimento, eroderne il consenso sociale, trasformare l’industria degli idrocarburi in una vittima, e sarebbe folle concedere questo vantaggio politico.

Imprenditori-attivisti: italiani che cambiano il mondo un pezzo alla volta

Prima di salutarci, vi racconto un’ultima storia, che intreccia due conversazioni distinte, entrambe importanti e delicate. Il primo è il ruolo della cultura d’impresa durante una crisi climatica. Il secondo è come operare correttamente in Africa, come soddisfare gli immensi bisogni di adattamento e mitigazione del continente.

Glocal Impact Network è un’azienda italiana che fa progetti di impatto sociale in varie aree del mondo, con una forte specializzazione in Sahel, Africa orientale e meridionale. I progetti intrecciano settori chiave per il clima: l’energia e l’agricoltura. Le radici di Glocal Impact Network sono in una bella iniziativa globale: Liter of Light, di cui Lorenzo Giorgi, direttore esecutivo di Glocal Impact Network, è rappresentante italiano.

Liter of Light contiene i valori che poi Giorgi e i suoi soci hanno inserito nell’azienda e funziona così: mettere in condizioni piccole comunità di tutto il mondo, spesso off-grid, di avere fonti di luce attraverso energia solare, riutilizzando bottiglie di plastica e trasformandole in lampade. Un progetto open source e fai da te: la branca italiana in questi anni ha portato l’iniziativa in dieci paesi, installando 4.403 impianti, 747 luci stradali, 3.170 lanterne, 439 lightbox e 46 caricatori portatili di energia.

Ne ho parlato più volte con Lorenzo Giorgi: «Ogni essere umano è un progettista e tutti e tutte insieme dobbiamo fare sempre più ricerca e smettere di sporcare la terra con la progettazione consumistica di oggetti mal disegnati», mi ha detto. «Sono convinto che l’imprenditoria abbia il dovere di produrre soluzioni capaci di rispondere ai bisogni delle persone e migliorare le nostre vite». L’azienda produce connessioni tra mondi che spesso non hanno l’abitudine di parlarsi: innovazione, ricerca accademica, cooperazione. L’obiettivo è mettere a sistema la conoscenza prodotta in questi tre poli per portare innovazione che sia davvero in grado di cambiare la vita delle persone, rendendole autonome.

Per questo i progetti basati sulle fonti rinnovabili di energia o sull’agricoltura idroponica che Glocal Impact Network porta avanti nel sud del mondo sono basati sulla filosofia open source: quindi sono replicabili senza costi aggiuntivi per le comunità locali, anche perché basati su bassa tecnologia e materiali locali.

«Essere neutrali non basta più, abbiamo bisogno di un attivismo per il bene comune. Abbiamo scelto per primi di creare un nuovo modello di impresa per un futuro migliore, questo per noi è l’attivismo. Ogni nostra azione e ogni nostro progetto si trasformano in precise call to action per consegnare alle future generazioni un mondo pacifico, equo, in buona salute e libero da discriminazioni. Il nostro lavoro deve essere in grado di influenzare e lasciarsi influenzare dal dibattito politico soprattutto sul tema socio ambientale».

A proposito, Luca Attanasio ha lanciato una nuova newsletter per Domani sull’Africa. Si intitola Afriche e io vi consiglio molto di iscrivervi. Qui: https://www.editorialedomani.it/newsletter-quijle3c#Afriche

Per questa settimana è tutto, grazie come sempre per aver letto fin qui. Se volete, sentiamoci: il mio indirizzo email è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani invece scrivete a lettori@editorialedomani.it

A presto!

Ferdinando Cotugno

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