Ti scrivo mentre mi trovo a poche centinaia di chilometri dal Circolo polare artico, in Finlandia, è quasi mezzanotte e c'è una luce che allo stesso tempo è dolce e piena, in quello strano negoziato interiore che chiamiamo felicità, o almeno benessere, o promessa di benessere.

Ho appena letto che un Artico senza ghiaccio d'estate potrebbe essere la realtà già con un decennio di anticipo rispetto a quanto pensavamo, già negli anni '30 del nostro secolo, negli unici anni '30 che vivremo nella nostra vita. Nel secolo scorso gli anni '30 non furono fortunati, e non portarono niente di buono, nemmeno in questo secolo sembrano particolarmente pieni di promesse positive.

Eppure, eppure davanti ai miei occhi la bellezza avviene apparentemente ignara, placida e silenziosa, so che questa estate succederà anche a te, almeno per un momento, o forse (lo spero) più di uno.

A cosa possiamo credere, a cosa dobbiamo credere? Non lo so nemmeno io. La bellezza e la distruzione della bellezza stanno lottando davanti ai nostri occhi, noi che siamo allo stesso tempo soggetto, arbitro e vittima di questo conflitto. Questo è il numero 126 di Areale, cominciamo, senza conoscere la risposta, non questo weekend, almeno.

Bonn, a metà strada tra presente e Dubai

I negoziati di giugno dell'Onu sul clima di Bonn, in Germania, sono solitamente un passaggio intermedio, tecnico, che fa da ponte tra una COP e l'altra: si preparano le agende, si discutono regole, si mettono a punto i budget e le procedure, molti incontri ma poche notizie.

Le COP sono la scena madre, il vertice di Bonn è una sorta di back office per addetti ai lavori, un'officina diplomatica dove si preparano i dettagli per l'evento più importante dell'anno.

Ormai però non c'è più niente di esclusivamente «procedurale» nell'azione multilaterale per il clima, ogni aspetto tecnico è diventato anche politico, nessun contesto è neutro. E quindi il vertice nella città tedesca, che è la sede dell'UNFCCC, l'agenzia dell'Onu per la lotta ai cambiamenti climatici, è diventato un passaggio fondamentale per il futuro stesso delle COP, due settimane utili per capire se questo strumento ha ancora senso e la capacità di portare risultati.

Il contesto è fosco. Da un lato ci sono i segnali che arrivano dalla scienza: un mese fa l'Organizzazione meteorologica mondiale ha previsto che l'aumento di temperature di +1.5°C sarà superato con ogni probabilità per la prima volta già entro i prossimi cinque anni. Ogni anno che passa si aggiunge un numero accanto a una COP (COP1... COP26, COP27), il margine di azione diminuisce e il senso di urgenza aumenta. Lo ha ribadito anche il segretario UNFCCC Simon Stiell al suo discorso inaugurale del vertice di Bonn. «Siamo a un punto critico. Sappiamo che un rapido cambiamento spesso segue un lungo periodo di gestazione. E il periodo di gestazione per l'azione sul clima è stato lungo abbastanza. Dobbiamo darci una mossa».

Dall'altro lato, la tensione che si respira a Bonn deriva dal fatto che siamo a sei mesi dall'inaugurazione della ventottesima e, per certi versi, della più problematica delle conferenze Onu sul clima, quella che si tiene in un petrostato, gli Emirati Arabi, con l'amministratore delegato di una azienda oil and gas come presidente e guida politica del negoziato. I negoziati intermedi si tengono a Bonn fino al 15 giugno, ma l'attenzione è tutta per quello che si riesce a captare da Dubai. Non casualmente Sultan Al Jaber, presidente di COP28 e CEO di Adnoc, ha trascorso un solo giorno in Germania, un modo per ridurre la superficie d'impatto e i rischi politici.

Dopo anni di appuntamenti andati a vario titolo a vuoto, in cui più che di emissioni si è parlato di finanza, c'è un solo modo per salvare le COP da se stesse ed è che da Dubai si esca con un impegno globale coordinato per il phase-out di tutti i combustibili fossili, con una roadmap e un orizzonte condivisi.

Il problema è che questo risultato va raggiunto giocando «fuori casa», per usare lessico calcistico, nel contesto più difficile di tutti, un paese che ha costruito tutto il suo sviluppo sui combustibili fossili.

L'atmosfera di Bonn è un modo per misurare quanto sarà difficile arrivare a un patto di Dubai credibile sulla mitigazione del danno, sotto la guida di un paese che ancora oggi ottiene il 90 per cento delle proprie entrate dalla causa del danno stesso, cioè le esportazioni oil & gas.

Al Jaber, a Bonn e altrove, mette spesso sul piatto i progressi che gli Emirati stanno facendo sull'installazione di rinnovabili, provando a far passare la decarbonizzazione dell'economia di un paese di 10 milioni di abitanti come più importante del fatto che quello stesso paese ha il terzo tasso di crescita al mondo per estrazioni di petrolio e gas (dati Rystad Energy).

E infatti il gioco delle parti interno all'autocrazia di Dubai ha fatto sì che la ministra per il climate change, Mariam Almheiri, dicesse a Reuters che il mondo non è pronto a spegnere i combustibili fossili. Questa è la posizione di chi condurrà il negoziato. All'ultima riunione Opec+ gli Emirati hanno stretto un accordo per aumentare la produzione di petrolio di 200mila barili al giorno nel 2024.

Per capire quanto sarà inquinato il dibattito, basta seguire la segnalazione di Mark Owen Jones, ricercatore sull'autoritarismo nei paesi del Golfo, che ha segnalato come Twitter sia già invaso da account finti, che usano foto di stock, biografie inventate e spunte blu a pagamento per promuovere la politica estera e la decarbonizzazione degli Emirati e attaccarne i nemici.

Il punto chiave lo ricorda James Lynch, co-direttore di Fair Square: democrazia e diritti umani. «Il livello di controllo interno degli Emirati non potrebbe essere mai raggiunto senza le esportazioni di petrolio e gas, che assicurano la fedeltà delle élite e svuotano il dissenso dall'interno». Per la famiglia Al Nahyan al potere, il business as usual non è solo una questione di profitti, è una questione di potere.  

Chi metterà i soldi nel loss and damage: un'idea

AP

Nel marzo del 1967 una petroliera battente bandiera liberiana si arenò al largo della Cornovaglia, nel Regno Unito. Fu un disastro enorme, all'epoca era la più grande imbarcazione di sempre ad affondare.

Una storia assurda e per alcuni tratti anche bizzarra: per ridurre la perdita di petrolio la Royal Air Force britannica bombardò il relitto per giorni. Non servì a molto. I danni si sentirono per decenni. Le eredità di quel disastro sono due. La prima è una canzone del 1968 di Serge Gainsbourg (Torrey Canyon, come il nome della petroliera).

La seconda fu la creazione nel 1971 di un fondo chiamato International Oil Pollution Compensation Funds (IOPC), uno strumento ancora oggi operativo, attivabile in pochissimo tempo per trovare risorse per ripulire i danni da perdite di petrolio dopo incidenti come quello del 1967.

Nel corso degli anni ce ne sono stati 150 per i quali è stato necessario attingere all'IOPC, che ha sborsato in tutto 930 milioni di dollari. Il fondo viene finanziato da 120 paesi, con una quota per ogni barile di petrolio venduto.

Forse avrai capito dove voglio arrivare. In quest'anno di ponte tra la COP d'Egitto e quella degli Emirati uno dei temi chiave è come rendere operativo il fondo danni e perdite creato a Sharm el-Sheikh.

Ci sono i temi politici da risolvere (quali paesi devono contribuire, e quali paesi possono attingere) ma ancora più cruciali sono le dotazioni finanziarie, cioè la domanda banale e ferale: chi ci mette i soldi? Al momento nessuno lo sa, e se nessuno lo sa è plausibile che debbano farlo i paesi che firmeranno la nascita del fondo: quindi finanza pubblica.

Il problema è che - per usare un cauto eufemismo -  i precedenti sono avversi. Il Green Climate Fund non ancora raggiunto la dotazione promessa per il 2020 (i famosi e famigerati 100 miliardi di dollari l'anno di trasferimento fondi dalle economie avanzate a quelle vulnerabili per fare le transizioni e per l'adattamento).

Quindi sarebbe ingenuo credere che gli stessi paesi possano trovare tra il triplo e il quintuplo delle risorse (queste le stime) per finanziare il fondo danni e perdite.

E quindi? E quindi servono alternative, modelli più agili ed efficaci, e così qualcuno ha pensato di replicare lo strumento IOPC per compensare non le perdite di petrolio ma gli eventi estremi sui quali si provi una causalità con la crisi climatica (tema che, come abbiamo visto la settimana scorsa, non è banale).

Quando dico qualcuno intendo uno dei più rispettati economisti di settore, Avinash Persaud, economista che da qualche anno è il consigliere speciale della prima ministra di Barbados Mia Mottley nella sua crociata per la riforma del sistema finanziario mondiale (c'è un incontro a Parigi con Macron alla fine del mese per parlare di adeguamento al contesto presente del funzionamento di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, a proposito).

Persaud ha proposto una tassa sul mercato dei combustibili fossili per andare a riempire il fondo, una quota dei profitti per ogni barile di petrolio venduto.

L'idea è sul piatto, ha, secondo me, una serie di problematiche e di ingenuità, ma almeno è un modo per stanare chi - come il prossimo presidente di COP28 - intende parlare di «emissioni» invece che di «emissioni da combustibili fossili», artificio retorico, contabilità del linguaggio e della diplomazia per scollegare le cause dagli effetti.

Una rivoluzione nei carbon offset

Un esempio sul fatto che ormai non esiste più niente di semplicemente tecnico: il caos generato da una semplice nota di briefing dell'UNFCCC sul nuovo sistema di scambio di crediti di carbonio regolato dall'articolo 6 dell'Accordo di Parigi.

È un tema discusso a Bonn, e poi sarà discusso anche a Dubai, e la discussione è già un incendio. Il sistema dei crediti di carbonio (risorse economiche in cambio di assorbimento di CO2 dall'atmosfera) è rotto da anni, corrotto, poco trasparente, poco efficace, un paradiso del greenwashing, ed è ovviamente ricchissimo, con proiezioni esplosive: oggi vale 2 miliardi di dollari l'anno, a metà secolo, secondo il centro studi Bloomberg NEF, potrebbe arrivare a 624 miliardi di dollari l'anno.

Come scrive Bloomberg, i modelli sono due. Il primo è relativamente economico ma poco affidabile: le soluzioni basate sulla natura, mettere a dimora nuove alberi e foreste o salvare quelle in pericolo dalla distruzione. Lo scandalo Verra dimostra quanto ci sia da aggiustare in questa soluzione: il 90 per cento dei crediti certificati dal più importante soggetto di settore erano spazzatura. Di recente si è anche dimesso il CEO.

L'alternativa non è aggiustabile perché semplicemente non ha ancora dimostrato di essere arruolabile: la cattura della CO2 dall'atmosfera. Per i report IPCC, dovrà per forza essere una parte del mix di una decarbonizzazione profonda, ma al momento questa tecnologia esiste ancora solo sulla carta, è costosa (parliamo di 600 dollari a tonnellata, per ora) e lontanissima dal portare risultati efficaci e scalabili.

È quello che dice la comunità scientifica da tempo: è una soluzione molto lontana dall'essere pronta, se un giorno lo sarà potremo parlarne, ma oggi è solo una perdita di tempo, la ricerca tecnologica vada avanti, ma qui servono soluzioni per il presente e nel presente il 99 per cento della CO2 rimossa dall'atmosfera viene tolta grazie a nature based solution.

Ed è quello che c'è scritto nella nota di briefing diffusa da UNFCCC: la cattura della CO2 dall'atmosfera non va bene per le attività coperte dall'articolo 6 dell'accordo di Parigi.

È ovviamente scattato un putiferio, perché il livello di investimenti è molto alto e con grandi coperture politiche: il governo USA ha messo quasi 4 miliardi di dollari su questa ricerca.

La bozza Onu contesta il fatto che sia tecnologicamente e finanziariamente non provata come soluzione, il fatto che non sia adatta ai paesi in via di sviluppo e il fatto che non contribuirebbe a ridurre i costi globali della mitigazione.

In sostanza, l'Onu contesta a questa tecnologia il fatto di non avere senso sotto nessun punto di vista. Più di cento organizzazioni di settore hanno risposto con una lettera dura e a tratti passivo aggressiva, segno che il dibattito tra soluzioni tecnologiche o naturali per la rimozione della CO2 sarà uno di quelli che ci porteremo a lungo.

Il fascino discreto di Adam McKay

AP

Come ho scritto un po' di volte, ho un rapporto articolato con il film Don't Look Up, ma sono affascinato dal posizionamento pubblico del suo regista, Adam McKay. Produttore esecutivo di Succession, sceneggiatore con compensi a sei zeri, un Oscar (per La grande scommessa, che era molto meglio di Don't Look Up) e altre sei nomination firmate Academy.

Insomma, potere vero nell'industria dello spettacolo. McKay ha annunciato di aver triplicato le sue donazioni a Just Stop Oil, il più contestato dei movimenti per il clima britannici. McKay ha detto le opportune frasi di circostanza, «Sto dalla parte di chi si è attivato per difendere il clima, svegliare i governi addormentati e fargli vedere la scala della catastrofe che stiamo vivendo».

Ha specificato il suo pensiero in questo articolo su Jacobin, con una serie di proposte, alcune di buon senso, altre meno, ma non è questo il punto. Il punto è una figura pubblica di alto livello che si prende un rischio comunicativo di questo tipo. Mi ha fatto pensare all'Italia.

Abbiamo un buon numero di celebrità che parlano di ambiente e di clima, ma sempre con un approccio generico, il punto non è fare o non fare donazioni a un gruppo politico radicale, il punto è che al di fuori delle bolle in cui viviamo il discorso non è mai politico, a nessun livello, perché cinema, letteratura, musica, o arte in Italia sembrano completamente impermeabili a una conversazione politica sul clima (ma, a quanto pare, apprezzano molto il giardinaggio). A volte sembra davvero che qui siamo l'ultimo baluardo della grande cecità denunciata da Amitav Ghosh.

Per questa settimana è tutto, un paio di segnalazioni da bacheca. Uno dei più grandi amici di questa newsletter, Paolo Della Ventura (ambasciatore del patto europeo per il clima, tra le tantissime altre cose), ha aperto un nuovo blog che si intitola Via col vento (bel nome), in cui parlare di energia rinnovabile, transizione ecologica, crisi climatica.

Paolo è una persona che ci crede davvero, nella possibilità delle cose di cambiare, quindi se hai giorni in cui la tua fiducia vacilla, vai a leggerlo. E poi il 13 giugno, ai Giardini Lea Garofalo di Milano c'è una conferenza di Bici Clima in cui vengono presentati i risultati di una mappatura profonda della ciclabilità dei comuni italiani.

Hanno partecipato 150mila persone, quindi è una cosa importante e su scala. Fine. Vado a dormire. Se hai voglia di scrivermi, l'indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, l'indirizzo è lettori@editorialedomani.it

© Riproduzione riservata