Mancano pochi mesi a tre eventi decisivi per il futuro nazionale e globale come la Pre-Cop di Milano, il G20 di Roma e la Cop26 di Glasgow, ma l’Italia non ha ancora nominato il suo inviato per il clima. C’è la norma che istituisce la figura, un decreto legge di fine giugno voluto da Mario Draghi in persona, dopo aver captato l’inquietudine della diplomazia europea per il comportamento dell’Italia. Abbiamo un ruolo importante – presidenza del G20, co-organizzazione della Cop sul clima – al quale non corrisponde un sufficiente impegno diplomatico. C’è la diffusa sensazione che l’Italia non stia facendo la sua parte nel dialogo globale e per questo il presidente del Consiglio ha istituito una carica ad hoc, che però non è stata ancora assegnata. A sceglierlo saranno Farnesina e Transizione ecologica, quindi Luigi Di Maio e Roberto Cingolani, che possono pescare anche fuori dalla Pubblica amministrazione.

Sono due i temi chiave in questo momento: il nome e i tempi. L’omologo americano John Kerry è stato la prima figura scelta da Biden per la sua amministrazione, subito dopo le elezioni di novembre. L’Italia se la sta prendendo comoda ed è un problema, perché il tempo è la materia chiave in diplomazia: per essere efficace servono relazioni, viaggi, strategia politica. L’inviato italiano avrà poco margine per costruire il suo ruolo. Ed è per questo che il nome conta ancora di più: serve una persona pronta, è una nomina che il governo non può sbagliare.

Le scelte degli altri

Gli Usa hanno Kerry, faccia nota in tutto il mondo, ex candidato presidente, ex segretario di Stato, protagonista dell’accordo di Parigi. Il Regno Unito, che con l’Italia organizza la Cop, ha da tempo al lavoro un esperto di clima come Nick Bridge, ex ambasciatore britannico all’Ocse, prima diplomatico in Cina, il principale e più difficile interlocutore della decarbonizzazione, come si è visto al G20 ambiente di Napoli. Nel Regno Unito c’è anche Alok Sharma, presidente della Cop26 con ruolo ministeriale nel governo di Johnson. La Cina ha confermato Xie Zhenhua, abilissimo negoziatore nelle Cop fin da Copenaghen 2009.

«Il Regno Unito ha preso una figura interna alla diplomazia perché se lo può permettere: è un aspetto che curano da tempo, hanno 150 diplomatici esperti di clima tra ambasciate e ministeri, l’Italia ne avrà al massimo tre», spiega Luca Bergamaschi del think tank Ecco.

Per questo il decreto di giugno prevede che l’inviato possa essere esterno alla pubblica amministrazione. Per l’Italia sarebbe un rischio nominare un ambasciatore di prestigio ma senza familiarità con clima, e ambasciatori di prestigio con familiarità col clima non ce ne sono.

In Italia questo tipo di relazioni internazionali sono spesso state «delegate» alle partecipate statali dell’energia ed è possibile che facciano sentire il proprio peso anche sulla scelta dell’inviato, suggerendo nomi o imponendo veti. «La scelta sarà anche un messaggio sulle intenzioni dell’Italia», conclude Bergamaschi, «non solo nei confronti degli altri paesi ma anche della società civile, che sul clima è un interlocutore fondamentale». Scegliere un non esperto o una persona compromessa con le fonti fossili sarebbe un colpo alla credibilità italiana.

Opzione Frassoni

«Serve una persona con capacità relazionale, competenza geopolitica ma anche sui dettagli tecnici delle emissioni, qualcuno che sappia andare oltre la tragica banalizzazione che si fa nel dibattito politico italiano», spiega Rossella Muroni, deputata di Facciamo Eco, la parlamentare italiana più credibile sui temi ambientali, che ha lanciato un appello per scegliere bene e velocemente l’inviato per il clima. «L’Italia sta giocando la partita decarbonizzazione in difesa, soprattutto in Europa, serve qualcuno che sappia andare all’attacco, unendo il discorso ambientale con quello della competitività, perché il futuro della nostra economia passa da qui». Un nome che circola è quello di Monica Frassoni, europeista ed ecologista, tanta politica coi Verdi all’Europarlamento ma altrettanto dialogo con le imprese: ha fondato il think tank European Alliance to Save Energy. Ha una lunga esperienza nei negoziati sul clima ed è anche conoscitrice dell’Africa: ha partecipato alla creazione di European Centre for Electoral Support, che ha gestito l’assistenza elettorale ai processi democratici in decine di paesi. Per Muroni sarebbe un nome corretto. Innanzitutto perché «è un’ambientalista né del sì né del no, ma del come, insomma, un’ambientalista moderna». E poi perché è una donna, sarebbe un altro segnale importante in un mondo - la diplomazia climatica - al momento dominato dagli uomini. «Sulla questione ambientale le donne hanno sempre espresso più attenzione a temi come la giustizia sociale e la povertà energetica, e capisce le connessioni tra economia ed ecologia». Che sia un’inviata o un inviato per il clima, per l’Italia è importante che il nome arrivi in fretta e che sia credibile.

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