È difficile restituire la scala del disastro che ha colpito il Pakistan, di gran lunga il più vasto evento climatico del 2022 finora. È ancora più sconfortante confrontare la catastrofe che ha colpito il quinto paese al mondo per numero di abitanti col disinteresse che le ha riservato un’Italia focalizzata su una campagna elettorale dove leader e partiti provano per la prima volta a parlare di clima, ma lo fanno come se la crisi si fermasse ai nostri confini.

Le inondazioni di una violentissima stagione dei monsoni hanno fatto, da giugno, almeno 1.200 vittime (tra queste ci sono quasi 400 bambini), hanno distrutto oltre un milione di case, 3.500 chilometri di strade e 162 ponti, hanno devastato raccolti e ucciso 800mila capi di bestiame. Ci sono campi profughi da mezzo milione di persone, in tutto sono trenta milioni i pachistani che hanno immediato bisogno di aiuto: il 15 per cento di tutta la popolazione.

Le piogge torrenziali, direttamente attribuibili alla crisi climatica e anticipate da ogni modello, sono state fino a cinque volte più intense delle piovose medie del periodo monsonico, secondo il governo hanno coperto d’acqua un terzo del paese, con una superficie alluvionata totale di poco superiore a quella dell’intera Italia. È una ferita così devastante da essere diventata visibile anche dallo spazio.

Il 30 agosto le immagini satellitari della Nasa hanno mostrato come al centro del Pakistan, dove c’erano campagne e villaggi, sia apparso un immenso lago che prima non c’era, largo più di 100 chilometri. Nel 2022 il Pakistan ha sperimentato nel giro di una manciata di mesi gli opposti effetti del riscaldamento globale: tra marzo e maggio c’era stata un’ondata di calore da record per intensità, precocità e durata, con temperature che avevano toccato i 50°C. Dopo il caldo opprimente, è arrivata l’acqua.

Il precedente del 2010

«Questo è un disastro umanitario di epiche proporzioni indotto dal clima», ha detto Sherry Rehman, ministra per il Climate change del nuovo governo formato dopo la crisi politica di primavera. Nel 2010 un’altra tempesta da «una sola volta ogni secolo» aveva allagato il Pakistan, causando danni su una scala simile a quella di oggi, sia per numero dei morti che degli sfollati.

Quello del 2010 sembrava un evento irripetibile per diverse generazioni, dodici anni dopo ne è arrivato uno ancora più forte. Un ponte nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, nel nord-ovest del paese, era crollato durante le inondazioni del 2010: quello nuovo lo avevano ricostruito cinque metri più alto del precedente, convinti che almeno così sarebbe stato fuori dalla portata di qualsiasi inondazione futura. L’acqua invece è arrivata anche lì. Il video di questo ponte, pubblicato su Twitter da Rehman, è l’illustrazione di come alla crisi climatica ci si possa adattare solo fino a un certo punto.

Il Pakistan sarebbe stato in una situazione delicata anche senza la micidiale doppietta di ondata di calore e monsone: il governo in carica è stato sfiduciato e sostituito nel corso di quest’anno, durante una crisi politica estremamente tesa. Imran Khan, presidente fino ad aprile, è stato accusato di terrorismo e la sua ingombrante presenza continua ad agitare la società.

L’economia intanto è a pezzi: il Pakistan ha ottenuto dal Fondo monetario internazionale un pacchetto di aiuti da 1,1 miliardi di dollari, a lungo invocato e sbloccato solo quando sono arrivate le immagini di interi palazzi che venivano portati via dai fiumi. Sono soldi che serviranno a evitare la bancarotta, non a pagare il conto dei danni del monsone, che secondo una prima stima sono almeno dieci volte più alti di quel prestito.

A novembre, a Sharm el-Sheikh, in Egitto, ci sarà il ventisettesimo episodio delle Cop, le conferenze delle parti dell'Onu sui cambiamenti climatici. Uno dei temi di massimo scontro sarà proprio questo: chi paga i danni? Le emissioni di gas serra del Pakistan sono meno dell’un per cento del totale, il danno climatico è stato per i pachistani sproporzionatamente più alto di ciò che loro hanno fatto per crearlo. È un’ingiustizia che da tempo i paesi africani e asiatici hanno scelto di politicizzare.

Danni e perdite

La domanda che dal 6 novembre spaccherà ulteriormente una comunità internazionale già divisa dall’aggressione russa contro l’Ucraina sarà dunque: il Pakistan a chi presenterà il conto per questi danni? E ancora più a monte: il Pakistan e tutte le altre nazioni devastate da episodi climatici di questo tipo hanno diritto a presentare a qualcuno il conto e a farsi risarcire? La formula usata dalla diplomazia internazionale per affrontare una questione così complessa è “loss and damage”, danni e perdite.

Sono le riparazioni che i paesi del sud globale da anni chiedono alle economie più storicamente responsabili delle emissioni di gas serra e della crisi, come gli Stati Uniti e l’Unione europea. Finora i paesi più ricchi hanno accettato solo di contribuire a finanziare la transizione di quelli più poveri, aiutandoli a convertire i sistemi energetici e adeguare le infrastrutture, con uno strumento sottofinanziato e contestato chiamato Green Climate Fund. Non hanno però mai accettato il principio di dover ripagare i danni causati dal clima. È una posizione che diventa sempre più difficile da difendere, quando un paese come il Pakistan si trova allagato per un terzo del territorio per la seconda volta in un decennio.

Cop27 inizierà in Egitto meno di un mese e mezzo dopo le elezioni italiane. Non sappiamo con quale governo, con quale ministro della Transizione ecologica e con quali idee parteciperemo, anche se sarà comunque difficile fare peggio di Cop26 gestita da Roberto Cingolani, dove l’Italia è riuscita a essere contemporaneamente paese co-organizzatore insieme al Regno Unito e politicamente invisibile a ogni livello.

Probabilmente ci nasconderemo dietro la diplomazia dell’Unione europea, anche se l’Italia, nell’ultimo anno, ha comunque lavorato intensamente per indebolire le sue misure climatiche, a partire dal negoziato sul pacchetto Fit for 55 e sul bando delle auto a motore termico dal 2035. L’assenza di qualsiasi menzione alla catastrofe pachistana però dimostra come la politica italiana, trasversalmente agli schieramenti, non abbia ancora capito la struttura del problema “crisi climatica”. I programmi e le dichiarazioni sono declinati al presente e su scala nazionale, alla visione climatica dei partiti non manca solo il futuro, manca anche la dimensione globale del problema. 

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