Il ponte sullo stretto di Messina a questo punto riguarda tutti. Partiti e parlamentari, imprese e sindacati, governatori regionali e sindaci, senza distinzione politica o geografica. È vero che in tanti faticano a credere che questa sia la volta buona per un progetto di cui si discute da così tanto tempo, ma quanto previsto dalla legge di Bilancio segna un punto forse di non ritorno, con conseguenze che vanno ben oltre l’opera e che dovrebbero far riflettere in un momento così difficile per l’economia e di drastici tagli agli investimenti previsti per il prossimo anno proprio dal governo Meloni.

Per la realizzazione del progetto sono infatti stanziati 780 milioni di euro per l’anno 2024 al fine di consentire l’approvazione e sbloccare i lavori, mentre complessivamente è autorizzata una spesa di 11,63 miliardi di euro per realizzare l’opera.

L’operazione di Salvini ha un chiaro obiettivo politico: dimostrare che una delle più importanti promesse del governo viene mantenuta, ma le modalità con cui si vorrebbe procedere vanno analizzate con calma e chiamano davvero tutti in causa.

Senza precedenti

Ha pochi precedenti nella storia del paese che un’opera venga finanziata per intero ancora prima che il progetto sia approvato e dunque con enormi margini di incertezza rispetto alla fattibilità tecnica, ai costi e ai tempi. La considerazione più banale è che difficilmente le risorse previste per il prossimo anno potranno davvero essere spese, anche considerando i contributi per una progettazione da accelerare vorticosamente e i generosi stipendi di cui beneficerà chi lavorerà all’opera.

Non va infatti dimenticato che ad agosto il governo ha abolito per loro il tetto di 240mila euro di stipendio previsto per «amministratori, titolari e componenti di organi di controllo, dirigenti e dipendenti pubblici». Ma visti i tempi necessari a completare le fasi necessarie fino all’approvazione davvero nel 2024 sarebbero tante le misure più importanti e urgenti da finanziare con 780 milioni di euro: dalla sanità alla scuola, fino agli investimenti infrastrutturali rinviati perché senza copertura.

A questo proposito, dove troveranno copertura le risorse previste con dettaglio fino all’anno 2032? Verranno prelevate dal fondo nuove infrastrutture che prevede uno stanziamento totale di 27 miliardi in quindici anni, nel periodo 2024-2038.

È facile calcolare che fino al 2032, quando il ponte dovrebbe essere completato, avrà catturato larga parte di queste risorse e quindi si dovrà dire addio a nuove metropolitane o tram, infrastrutture che in ogni parte d’Italia si sta provando a programmare e progettare.

Problema di tutti

Per questo il ponte riguarda anche il governatore Zaia in Veneto o il sindaco di Genova Bucci, per non parlare di quelli di Palermo e Catania con bilanci in dissesto e con la necessità di recuperare risorse per interventi che non passano per il Pnrr.

La rassicurazione che la cifra prevista a bilancio è un costo massimo – come riportato alla fine del primo comma dell’articolo 56 – e che eventuali altre risorse che dovessero rendersi disponibili non andrebbero ad accrescere questa cifra, ma a ridurre l’impegno statale, lascia il tempo che trova. Possiamo solo immaginare quanto sarebbero in grado di stanziare a fondo perduto due regioni in bancarotta come la Sicilia e la Calabria.

Fino ad oggi anche l’opposizione è stata silente rispetto all’accelerazione imposta da Salvini, ma se non ora quando aprire una riflessione pubblica e una discussione politica? Perché, al di là di come la si pensi sull’opera, se questo è il quadro è evidente che si sta puntando a realizzare una magnifica, incerta e costosissima cattedrale nel deserto. Salvini sa bene che il ponte servirà ben poco a velocizzare i collegamenti tra la Sicilia, l’Italia e l’Europa. Basti dire che non esistono a bilancio le risorse per completare la velocizzazione del percorso ferroviario da un lato verso Palermo e dall’altro verso Napoli e Roma.

Siamo ancora nel campo dei progetti per stralci, senza alcuna certezza di avere un percorso che sia davvero competitivo nei confronti degli spostamenti in aereo e nave, che consenta velocità e tempi come avviene sulla rete ad alta velocità al nord.

Per non parlare degli altri collegamenti in Sicilia come in Calabria, che avranno certamente una accelerazione con il Pnrr ma che sono ancora lontanissimi dal recuperare i ritardi in termini di elettrificazione delle linee e di velocità di percorrenza dei treni passeggeri e merci rispetto al resto del paese.

Che la posa di prime pietre sia la principale attrazione di chi è al governo non è certamente una novità, ma qualcuno dovrà pur raccontare che non esiste alcuna garanzia che circoleranno più treni in quell’area del paese una volta realizzata l’opera. Per la banale ragione che i treni regionali, quelli che si muovono tra le città capoluogo e presi dai pendolari, sono finanziati attraverso un fondo nazionale che si è ridotto del 20 per cento dal 2009 con la conseguenza che in Calabria e Sicilia oggi circolano meno treni che in passato.

E Salvini non ha mai preso alcun impegno a invertire questa tendenza. Quanto alle Frecce di Trenitalia e ai treni ad alta velocità di Italo, sono a mercato, per cui bisognerà chiedere alle imprese se avranno interesse a mettere nuovi treni e quanti, e dunque a capire se il gioco valeva la candela.

Festeggiano le imprese

Chi di sicuro sta festeggiando sono le imprese a cui Salvini ha riconsegnato un progetto morto da anni, fermato dal governo Monti perché non fattibile tecnicamente e finanziariamente, offrendo la garanzia che non ci saranno problemi di approvazione, che le risorse le garantirà completamente il bilancio dello Stato.

Malgrado il progetto sia ancora da aggiornare come caratteristiche tecniche, e da adeguare ai nuovi tariffari di materiali e lavorazioni, Salvini ha voluto mettere per iscritto la spesa finale, per evitare di incorrere in una nuova gara come chiesto dall’Anac, in base alle norme Ue, nel caso si superi di oltre il 50 per cento il costo originario di otto miliardi dell’appalto.

Poi quanto costerà si vedrà più avanti, ma intanto si dovrebbe riflettere sulla capriola nella narrazione pubblica rispetto all’opera. Perché quando il progetto fu risuscitato nel 2001 da Berlusconi, per l’ennesima volta nella sua lunga storia, con l’allora ministro Lunardi la promessa era che sarebbero state (anche e soprattutto) risorse private a finanziarlo. Veniva assicurato che c’era una lunga fila di investitori italiani e stranieri pronti a entrare nell’operazione.

Oggi almeno quella ipocrisia è stata spazzata via, ma proprio per questo meriterebbe ben altra attenzione nel paese un’accelerazione che sembra avere un chiaro obiettivo propagandistico, un evidente vantaggio privato, ma che lascia tutti i rischi e i costi a carico del pubblico. Ossia di tutti noi, volenti o nolenti.

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