L’arma di distrazione di massa delle riforme è stata costruita. È già pronta per essere attivata al momento giusto e fare il giusto rumore, un diversivo per coprire tutti gli altri temi. Soprattutto quelli più indigesti al governo. Il testo, approvato ieri a Palazzo Chigi, non presenta sorprese: è il «premierato all’italiana», come ama definirlo la ministra Elisabetta Alberti Casellati, che sembra un premierato pasticciato, più all’amatriciana.

Nel disegno di legge sono presenti i feticci ideologici della leader di Fratelli d’Italia: la norma «anti-ribaltone» che di fatto lega le mani al capo dello Stato, ridotto a un ruolo notarile, e unisce i destini del parlamento a una sola persona, il premier. Può cambiare solo un presidente del Consiglio in una legislatura, a patto che sia un parlamentare alla coalizione vincente. «Non ci sarà più la possibilità di fare maggioranze arcobaleno, è la fine dei governi tecnici», ha detto chiaro e tondo Meloni. Nei fatti il destino delle legislature è legato alle sorti di una sola persona, il premier. Viene eliminata poi la possibilità del Colle di nominare nuovi senatori a vita, ruolo che spetterà di diritto sono ai presidenti della Repubblica emeriti. Resta da definire il ruolo dei gruppi parlamentari, che vengono uniti da un patto inscindibile alla coalizione elettorale.

Riforme per distrarre

I contenuti, però, hanno un valore relativo. Meloni ha ora a disposizione lo strumento ideale per distogliere l’attenzione dai problemi reali. La modifica della Costituzione prevede un iter lungo. Nella migliore delle ipotesi, in caso di cammino a tappe forzate, sarà di un anno. La sensazione è che si procederà più a rilento. A Palazzo Chigi serve che le riforme siano in fase di approvazione, non devono essere completate. A quel punto diventerebbero un’arma scarica. È il modello Colle Oppio assurto a metodo di governo, con la regia dell’onnipresente sottosegretaria, Giovanbattista Fazzolari: la comunicazione che copre i vuoti politici, la propaganda che prevarica l’inazione. Nel manuale della leader di Fdi, erede della tradizione della fiamma, è scolpita la strategia della distrazione dell’opinione pubblica. Le riforme istituzionali - «la madre di tutte le riforme» per usare il lessico della presidente del Consiglio - sono ideali per questa funzione. Da usare al momento giusto, a intermittenza.

Che i tempi non saranno brevi, lo conferma la mancanza anche di un’idea di legge elettorale, un “collegato” fondamentale alla riforma. Casellati ha spiegato di «essere al lavoro» per realizzarla. «Ci sarà un’ampia consultazione» è la frase clou, in pratica l’annuncio indiretto che ripartirà tutta la rumba del confronto, dei tavoli. L’accordo non è affatto semplice, bisognerà decidere sul ballottaggio, sulla soglia di sbarramento per l’ingresso in parlamento e l’eventuale ritorno delle preferenze. Argomenti che dividono da anni le forze politiche.

Spauracchio referendum

Il testo della riforma è già di per sé talmente rigido da precludere possibilità di confronto. Manca addirittura la norma sul tetto di mandati, che secondo i costituzionalisti sarebbe una condizione minima per evitare derive personalistiche. Il limite esiste in tutti Paesi in cui c’è una corsa così concentrata sulla persona. I casi sono vari: in Francia (anche se in questo caso si tratta di un semi-presidenzialismo), in Portogallo, in Croazia, ma anche in Romania e in Repubblica Ceca. Insomma, laddove è l’elettore a indicare un presidente, non si va oltre i due mandati. Una mancanza che non è passata inosservata. «Nel testo di riforma costituzionale, presentato dal governo, non compare il limite dei due mandati per il presidente del consiglio eletto direttamente», ha osservato il presidente dell’Anci, Antonio Decaro. «Mi pare – ha sottolineato il sindaco di Bari – che a questo punto si renda inevitabile togliere questo limite all’unica figura istituzionale che invece continua ad averlo, cioè i sindaci».
Per il governo lo spauracchio sullo sfondo resta il referendum, che al momento è un'opzione inevitabile. L’unica parziale apertura al dialogo è arrivata da Italia viva. Addirittura Azione ha bocciato la proposta: «Inseguono le bandiere a lungo agitate», ha sintetizzato la senatrice Mariastella Gelmini. La scena è un remake riveduto e corretto di quanto accaduto con Matteo Renzi: un leader all’apice della popolarità che apre il capitolo-riforme. La parabola dell’ex presidente del Consiglio è nota. Tanto che nei giorni scorsi, in Transatlantico, il capogruppo di Fdi alla Camera, Tommaso Foti, ha messo le mani avanti: «Questa è diversa dalla riforma di Renzi, fu lui a dire che si sarebbe dimesso in caso di sconfitta al referendum». Non è un automatismo.
E gli alleati di governo? La prima reazione non è stata di entusiasmo a tutto campo. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha rimesso sul tavolo il tema dell’autonomia. «Rafforzare il governo a livello centrale e applicare l’autonomia significa dare più senso al voto dei cittadini», ha detto. Solo nel corpaccione dei parlamentari di Fdi c’è stata la batteria di dichiarazioni elogiative. Tra gli altri si è fatto sentire qualcuno qua e là. Con calma.

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