Prenotare un tavolo, sedersi, consumare, chiedendo un buon servizio. Saldare il conto e andare via. Soddisfatti o meno, è una questione di gusti. È una serie di operazioni di routine, che viene portata avanti ogni qualvolta si esce fuori a pranzo o a cena. Ma che, senza rendersene conto, comporta un impatto sull’ambiente. Eccome.

Riavvolgendo il nastro di una tavolata al ristorante, infatti, il risultato, oltre all’eventuale piacere personale, è quello degli sprechi che finiscono nella pattumiera. La questione attiene ai vari momenti della filiera, dall’approvvigionamento al consumo, passando per la lavorazione e la preparazione.

Così al termine di questo tragitto si giunge a una conclusione: la pesante insostenibilità del settore Horeca (sigla che indica hotel, ristorazione e catering), che tra le altre cose richiede l’impiego di risorse idriche ed energetiche. Un problema che si ingigantisce dinanzi a menù chilometrici e che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono causa di spreco. L’attività ristorativa diventa dunque l’emblema di uno stile di vita difficile da sostenere, almeno nelle modalità che conosciamo.

Sprechi ed emissioni

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Il discorso è prima di tutto teorico, perché «la ristorazione nasce come momento ludico, inevitabilmente mette le basi nel superfluo, nell’eccesso rispetto a quanto avremmo bisogno», dice Marco Ambrosino, chef di Procida. Un discorso che non è solo sociologico, ma suffragato dai numeri che fotografano il rapporto tra sostenibilità e il settore Horeca. E che, nei vari passaggi, non esenta affatto il cliente dalla corresponsabilità.
Alla base c’è infatti lo spreco alimentare complessivo, che include quello domestico.

Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), circa un terzo degli alimenti prodotti viene sprecato. Nella sola Unione europea, ogni anno finiscono nella spazzatura qualcosa come 87 milioni di tonnellate di cibo. L’ultima analisi relativa all’Italia, realizzata dall’osservatorio Waste Watcher di Last Minute Market/Swg, ha rivelato che in Italia vengono persi, ogni anno, 36 chilogrammi di alimenti a persona.

Questi sono i numeri complessivi, quindi: all’interno c’è l’impatto del comparto della ristorazione, che incide in maniera significativa, circa un terzo rispetto agli sprechi domestici. A completare il panorama statistico c’è la ricerca sulla sostenibilità della ristorazione italiana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, realizzata da Roberto Di Pierro, grazie al conferimento della borsa di studio da parte della fondazione Invernizzi, sotto la supervisione del professore Ettore Capri.

«Lo spreco alimentare è emblematico, pari a circa il 14 per cento dell’intera filiera agroalimentare in Italia», si legge nel dossier di sintesi. Si tratta di qualcosa pari a circa 700 mila tonnellate di cibo sprecato all’anno per un valore, in termini economici, di quasi due miliardi di euro, nell’ambito della ristorazione.

Il comparto Horeca è responsabile delle emissioni di circa 110.201 kg di CO2 equivalente (eq) all’anno. Di questi 6.601,56 kg di CO2/e sono risorse energetiche e 103.600 kg di CO2/eq relative allo spreco alimentare. Lo studio indica poi che per «assorbire l'eccesso di CO2 prodotto, ci vorrebbero circa 7.346 alberi, corrispondenti a 16 ettari di terreno».
Un punto critico è pressoché strutturale: la corsa al ristorante genera un consumo che va oltre la soglia della sostenibilità. Si torna al punto di partenza, all’Horeca come elemento ludico. L’andamento in Italia è quello di avviare nuove attività, nonostante le difficoltà economiche.

Nel suo rapporto annuale, riferito al 2021, la Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe) ha rilevato che ci sono 196.031 unità «alla voce ristoranti e attività di ristorazione mobile». In confronto all’anno precedente c’è stato un saldo di 8mila nuove realtà che hanno aperto in tutta Italia, sfidando anche le incertezze legate alla pandemia.

Ancora più significativo il raffronto rispetto a dieci anni fa: nel 2012, il dato era di poco inferiore a 160mila attività. Il bilancio è di 40mila imprese in più. Nell’ottica della sostenibilità ambientale, la notizia non è positiva.

Fasi dello scarto

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Una ricerca realizzata in maniera congiunta dai ricercatori della Lumsa e di Roma Tre, firmata da Laura Michelini e Ludovica Principato, ha indagato le varie fasi che portano allo spreco. La maggior parte avviene durante la preparazione degli alimenti, il 45 per cento del totale. Una quota altrettanto consistente, il 34 per cento, è legata agli avanzi nei piatti dei clienti. Infine su un caso ogni cinque, il 21 per cento, il problema è legato al deterioramento dei cibi, che non finiscono nemmeno per essere preparati.

«Se evito di buttare le cime della carote, lancio un messaggio importante anche per chi poi le preparerà a casa. Ma chiaramente non è sufficiente per salvare il pianeta», dice ancora Ambrosino, parlando anche della sua esperienza diretta.

La ragione risiede, infatti, nell’approvvigionamento dei prodotti da parte della maggioranza dei ristoranti: c’è chi ordina ortaggi e frutta già lavata e pronta; e così diventa praticamente impossibile risalire alla quantità di sprechi, perché avviene a monte di un processo industriale. Il tracciamento diventa impossibile. Altro che salvaguardia delle cime delle carote.
«La visione è pavesiana, è indiscutibilmente negativa. La proiezione futura è che, nella migliore delle ipotesi, peggiora di un po’. Altrimenti peggiora tanto», dice Giuseppe Zen, titolare della Macelleria popolare di Milano. C’è dunque un forte scetticismo sulla capacità di gestire con effettiva oculatezza i prodotti.

Storia dei rifiuti

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La questione parte da un’analisi storica. Fino all’inizio del Novecento l’Amsa, la società che gestisce la raccolta dei rifiuti a Milano, non esisteva ancora: l’anno di fondazione è il 1907. Il servizio di raccolta dei rifiuti era qualcosa di profondamente diverso da oggi. Lo stesso vale per altre città, come Roma. Non che fosse una cosa positiva: il progresso ha consentito di togliere dalla strada la spazzatura, individuare dei punti dove smaltirla, con benefici palesi sotto il profilo della salute pubblica.

L’elemento sociale è tuttavia un altro: prima si parlava di pulizia di strada, in quanto la produzione di rifiuti era minore rispetto a quella attuale che, senza addentrarsi in questioni politiche, richiede infrastrutture per lo stoccaggio e lo smaltimento. Nella pattumiera ci finiva proprio quello che non aveva più possibilità di essere utilizzato, l’avanzo alimentare trovava una nuova vita fino a quando non c’era proprio possibilità di un riuso. Una sorta di economia circolare ante litteram.

Senza per forza rinvangare la trita nostalgia dei bei tempi andati, un monito arriva dal passato. Prima le polpette classiche milanesi, i mondeghili, rappresentavano la prosecuzione del pranzo domenicale: la rielaborazione di quanto consumato precedentemente. Il punto resta sempre nella modalità in cui c’è stata l’evoluzione. E non sempre è negativa: oggi, grazie alle applicazioni digitali, è possibile mettere in vendita quel che è avanzato nella giornata. Un’offerta a prezzo ridotto ha una ricaduta addirittura sociale, consentendo a chi non può permettersi l’uscita al ristorante di consumare comunque una cena preparata in cucina.

Lo spreco, così, si conferma come un dato culturale, iniziato principalmente dal secondo Dopoguerra: «Ora è inamovibile come una cattedrale in cemento armato. Ma ottant’anni fa non c’era nemmeno la corsa al ristorante. La gran parte della ristorazione è una modalità industriale per sfamare orde di persone», aggiunge Zen, collegandosi all’analisi storica. Gli esempi abbondano, andando oltre gli alimenti a rapido deperimento, come la verdura e gli ortaggi.

Migliaia di ristoratori, anche nell’approvvigionamento delle carni, non ci pensano nemmeno all’acquisto dell’intero animale, né all’attenzione sugli allevamenti intensivi che in tema di emissioni meritano un capitolo a parte. Un pollo, un capretto o qualsiasi altro animale arrivano nei frigoriferi delle attività ristorative già a pezzi: il petto, il cosciotto e così via. La provenienza? Chissà.

Diversamente, se fosse acquistato un intero capretto, lo si cucinerebbe, attingendo a ogni possibile ricetta della tradizione per fare in modo che non avanzi nulla, riducendo lo scarto. Invece, per esigenze di velocizzazione, arriva già pronto, solo da mettere sul fornello per eseguire la ricetta.

Gli scarti rappresentano solo la parte più visibile dell’insostenibilità dell’Horeca. C’è, dietro le quinte della cucina, un altro pezzo di spreco: l’abbondante impiego di acqua, anche solo per pulire gli alimenti da preparare e servire. Stando ai dati della ricerca dell’Università Cattolica, il 28 per cento di risorse idriche viene usato in eccesso rispetto alle dimensioni dei locali.

Una razionalizzazione permetterebbe la riduzione di sprechi di acqua di un terzo. Ancora una volta, dietro alle cifre ci sono storie reali: per lavare la frutta e la verdura bisogna avere un’oculatezza. Impiegare decine di litri d’acqua per ripulire un porro o la solita carota, è sbagliato. Anche per ragioni economiche, non solo ambientali.

Nuovi standard

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In questo senso la ricerca di Di Pierro non si è limitata a tratteggiare i malfunzionamenti. Ha cercato di indicare delle possibili soluzioni, che richiedono innanzitutto un’assunzione di responsabilità collettiva. Secondo lo studio, gli sprechi diminuirebbero almeno del 30 per cento seguendo degli adeguati standard di gestione. Per arrivarci, tuttavia, è necessario a monte un cambio di paradigma culturale sia per il ristoratore che per il consumatore.

La parola chiave è pianificazione, in un’ottica di sostenibilità ambientale, che si tramuta in opportunità economica. La cattiva gestione delle risorse comporta in media una perdita del 5 per cento del fatturato, che significano migliaia di euro all’anno. Soldi in più che resterebbero in cassa con una migliore organizzazione su più livelli, dalla fase di approvvigionamento degli alimenti alla loro preparazione, includendo l’offerta al consumatore.

Una questione centrale è infatti il perimetro menù, «che deve essere pensato in base ai coperti del locale, e non può prescindere dalla stagionalità dei prodotti», dice Di Pierro. La riduzione del numero di portate favorisce il taglio degli sprechi. «Il vincolo dei prodotti di stagione da inserire nel menù è un tema abbracciato da alcuni ristoratori», racconta Marco Morello, una delle menti del progetto del mercato di Testaccio. Scendendo nel pratico: il pomodoro fresco può essere presente nelle proposte dei piatti per l’estate, mentre per le altre stagioni può essere lavorato e conservato, sotto forma di pelati.
Per di più, una delimitazione delle scelte riduce il rischio di deperimento degli alimenti in fase di conservazione: il cibo viene consumato e non va a male.

Un ragionamento che viene suffragato da Davide Longoni, di professione panificatore: «Per razionalizzare al meglio la produzione giornaliera, chiediamo ai clienti di provvedere a fare delle prenotazioni, così da mettere in vendita una quantità di pane adeguata alla domanda», dice. L’obiettivo di fine giornata diventa quello di avere gli scaffali vuoti, sinonimo di una buona pianificazione. «Questo è garanzia per il consumatore. Il sold out deve essere visto come un valore positivo non come un disservizio. È errata l’idea di voler trovare sempre tutto a disposizione», spiega Longoni. E qui entra in ballo l’appello all’acquirente, alla necessità di adattamento. Se non ha prenotato il pane, deve adeguarsi alle opzioni di scelta. Vale per il pane come per l’ordinazione al tavolo di un ristorante.
C’è un altro punto che coinvolge il consumatore: la consapevolezza di avere dei costi maggiori, altrimenti il prezzo risparmiato in fase di pagamento del conto viene pagato dall’ambiente. Ma in tema di economia, c’è un punto nevralgico della vicenda: il rapporto costi-benefici per tutti, ristoratore compreso. «A Roma c’è un comparto ristorativo enorme, che prevede anche le cosiddette trappole per turisti», dice Morello.

Una sensibilizzazione che prima di parlare di sostenibilità ambientale debba sapersi soffermare sul vantaggio economico. «Il commerciante», osserva Morello, «è abituato a ragionare sul plusvalore economico. Non si deve chiedere un cambio di mentalità, di abitudini talvolta radicate, senza dare nulla in cambio. Con il ristoratore serve un confronto, alla pari e senza supponenze, per spiegare come quel cambiamento possa creare profitti».

In quel caso anche il commerciante più ostile ai cambiamenti si ferma a riflettere. Un esempio valido è quello dell’autoproduzione, che «non significa avere un orto o una fattoria di propria gestione», dice Di Pierro. Qualcosa di impensabile oltre agli agriturismi. Ma tra i prodotti fatti in casa possono esserci anche il pane e la pasta, che non necessitano la proprietà di terreni: bastano pochi macchinari e un personale dedito alla sua preparazione, che apporterebbe un vantaggio in termini di qualità del prodotto proposto al cliente.
Una prospettiva futura che viene perseguita da un’élite. Ma, al momento, nel corpaccione del settore della ristorazione non ha fatto breccia, perché c’è da considerare una quantità vasta di attività, che appunto è in costante crescita.

Ambrosino invita a guardare la questione a 360 gradi: «Occorre una visione integrata su vari livelli, politici, culturali e ambientali, coinvolgendo il centro e la periferia». Perché tutto l’iter della sostenibilità della ristorazione non può essere derubricato solo a una questione meramente ambientale. Lo studio di Di Pierro ha dimostrato che è opportuno sintonizzarsi sul raggiungimento dei 17 Obiettivo di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite. Tutto questo «porta a impatti equilibrati in tutti e tre i domini della sostenibilità, con una leggera propensione verso la sostenibilità sociale (41 per cento), seguita dalla sostenibilità economica (31 per cento) e dalla sostenibilità ambientale (28 per cento)». Tre fili che si annodano e portano a un risultato: il beneficio per la collettività.

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