Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questa è una nuova puntata di Areale, scritta per voi in una gelida e insolitamente nebbiosa Milano. Parleremo della legge sul clima in Italia (oggi non c’è, ci sarà mai?), del complesso legame tra i tornado e la crisi, dell’Antartide che scricchiola e di alcuni fatti sulle rinnovabili. Cominciamo? Cominciamo.

Legge clima e decluttering climatico

Per parlare di leggi sul clima dobbiamo partire innanzitutto da questa mappa, che è la fotografia dell’Europa al momento, di chi c’è e chi non c’è. 

Dove siamo noi? In un buco legislativo a forma di Italia. Il grigio italiano – assenza totale sia di una legge sul clima sia della prospettiva di averne una – spicca, si fa notare, è piuttosto brutto.

I paesi scandinavi, la Francia, la Germania, l’Olanda, il Lussemburgo, l’Irlanda, l’Ungheria ne hanno una. Lettonia, Portogallo e Spagna ne avranno una a breve. Grecia e Belgio la stanno preparando. E l’Italia è quindi il paese più grande e importante (oltre che l’unico fondatore dell’Ue) a non averne una all’orizzonte.

Lunedì 13 dicembre alla Camera dei deputati c’è stato un dibattito (organizzato dal think tank Ecco) che ha provato a indagare i motivi di questo vuoto e l’utilità di colmarlo. Ho partecipato e tra poco vi parlo dell’idea che me ne sono fatto.

Ho anche ascoltato e raccolto vari pareri, tra questi mi ha colpito chi mi ha detto: «Un’altra legge? Non serve l’ennesima legge quadro, in Italia le leggi si fanno e poi rimangono lì, inutili e inapplicate». È un punto di vista del quale mi colpisce soprattutto lo scetticismo rispetto al ruolo del parlamento, che effettivamente oggi sembra diventato un organo di ratifica di quello che fa il governo.

Anche alla Camera, dentro la Camera, da una parlamentare, al convegno ho ascoltato la parola «commissariamento», presentato come un dato di fatto. Non va benissimo.

Avere una discussione in merito a una legge sul clima servirebbe innanzitutto a questo: rimettere il parlamento al centro del processo, avere un dibattito strutturato e pubblico sulla transizione ecologica, su cosa comporta questo cambiamento urgente, radicale e complesso del funzionamento del nostro paese e della vita di tutti noi. Non sarebbe cosa da poco, vista la quantità di parole in libertà che circolano sul tema ogni settimana.

Ma poi, perché sarebbe utile una legge sul clima, dal punto di vista pratico?

Il primo effetto sarebbe quello di mettere ordine dentro una transizione ecologica che in Italia – prima ancora che fatta bene o male, velocemente o lentamente – è disordinata, una giungla di piani europei e italiani (al quale si aggiungerà presto il Piano per la transizione ecologica, quello che Cingolani definisce «piano dei piani»), misure, regole, semplificazioni che finiscono col complicare, layer su layer di una torta sempre più complessa e indigesta, dove spesso le policy concrete del presente smentiscono i target a lungo termine.

Diciamo di voler arrivare al taglio di emissioni del 55 per cento al 2030 e a zero emissioni al 2050 e continuiamo – solo per fare un esempio – a erogare sussidi ambientalmente dannosi. Inoltre, la maggior parte delle leggi sul clima in Europa fa un’altra cosa molto utile: definisce un carbon budget nazionale e poi lo spacchetta per singoli settori. In Italia tutto questo non c’è. Decidere quanto possiamo emettere per legge, anno per anno, sarebbe un ponte utile tra il presente e gli obiettivi.

Inoltre, la transizione ecologica italica ha un altro problema: non si monitorano gli effetti delle misure, si fanno le cose e le si lascia lì, senza sapere che risultati stanno portando. Una legge clima metterebbe degli obiettivi e degli standard come base per un monitoraggio del quale abbiamo decisamente bisogno.

Poi, parlando ancora di disordine, in Italia ne abbiamo anche uno istituzionale, un intreccio di competenze tra il governo e i vari livelli dell’amministrazione locale: c’è urgenza di avere un’assegnazione precisa delle competenze e delle responsabilità in una materia che è nuova e senza precedenti storici ai quali affidarsi. La legge quadro sul clima ci permetterebbe di fare decluttering, per dirla alla Marie Kondo, e sapere con precisione chi deve fare cosa.

Detto questo, dal dibattito alla Camera è emerso quanto sarà difficile avere una legge quadro sul clima entro la fine di questa legislatura, soprattutto nella sua accezione più alta: un testo concordato tra i partiti, costruito sulla ricerca di un comune denominatore che nel nostro parlamento sembra impossibile da trovare, anche tra forze che attualmente governano insieme.

I tornado e la crisi climatica

I tornado sono uno dei fenomeni più difficili da inserire in un modello climatico, perché sono semplicemente troppo piccoli per essere collegati a una scala così grande. Maggiore è la magnitudo di un evento (per esempio un uragano, una siccità o una gigantesca cupola di calore) e più lineare sarà l’attribuzione al clima.

Non vuol dire però che non ci sia collegamento tra l’evoluzione dei tornado e il riscaldamento globale. Come ha scritto il meteorologo Marshall Shepherd: «Non vuol dire che non ci sia influenza del cambiamento climatico, ma solo che le prove che abbiamo al momento non ci permettono di arrivare a conclusioni forti».

Siamo in assenza di prove, che non è la stessa cosa di prova dell’assenza di una correlazione.

Quello sui tornado nel contesto della crisi climatica è un settore di ricerca ancora giovane, al quale però tutti hanno guardato dopo il devastante episodio che ha colpito gli stati del sud est americano, in un corridoio di twister che è partito dall’Arkansas ed è arrivato fino al Kentucky, dove ci sono stati gli effetti più catastrofici. Mai un sistema convettivo aveva viaggiato così a lungo senza perdere forza, per 400 chilometri.

La conta delle vittime è ancora in corso: almeno novanta persone hanno perso la vita. La forza del vento in questa sequenza di tornado ha superato i 400 km/h, i detriti sono stati scagliati fino all’altezza di un volo di linea. È stato uno degli eventi più spaventosi e fuori scala di un anno che in Nord America è stato pieno di eventi spaventosi e fuori scala.

Proprio per la difficoltà a «vedere» i tornado nei modelli climatici, c’è ancora prudenza nell’attribuire questa devastazione allo stesso contesto che sappiamo aver aumentato – per fare due esempi – le condizioni per gli incendi dell’ovest o le alluvioni di questo autunno.

Sappiamo però tre cose con certezza. Il numero complessivo di tornado non è aumentato negli ultimi decenni, anzi pare sia leggermente diminuito. È aumentata però la loro tendenza a presentarsi in cluster, quindi in sequenze (cosa che li rende più pericolosi) ed è cresciuta la loro potenza media (di circa il 5 per cento). Una giornata con trenta tornado è diventata più probabile oggi che negli anni Sessanta. In ogni caso, questa è la mappa americana dei tornado.

Non sappiamo però cosa sia all’origine di questa modifica nel loro comportamento. Nella titubanza scientifica a fare attribuzioni dirette c’è da notare che l’ultimo rapporto Ipcc parlava esattamente di questo: i giorni con forti tornado negli Stati Uniti sono diventati più frequenti.

È importante sottolineare che queste sono attribuzioni probabilistiche: nessun evento è direttamente causato dal clima, che però aumenta le condizioni perché fenomeni estremi si verifichino più spesso, la tempesta del secolo che avviene ogni decennio (o ogni anno) è crisi climatica.

Un’altra anomalia è il periodo dell’anno. I tornado si formano per la produzione di energia che si verifica nello scontro tra l’aria fredda della corrente a getto con quella più calda che arriva dal Golfo del Messico. Per questo motivo le stagioni classiche in cui suonano le inquietanti sirene d’allarme nella Tornado Alley sono la tarda primavera e l’inizio dell’autunno, perché di solito a dicembre manca uno degli elementi dell’equazione, l’aria calda che arriva da sud.

Secondo una ricerca pubblicata appena un mese fa, l’innalzamento di un grado di temperatura aumenta le probabilità di eventi convettivi estremi (come i tornado) fino al 20 per cento. Nei prossimi mesi saranno spacchettati e analizzati i dati del disastro di dicembre e probabilmente avremo qualche certezza in più, questo è un campo in cui la scienza sta inseguendo la crisi climatica.

L’Antartide scricchiola

Le notizie più preoccupanti in fatto di crisi climatica sono arrivate questa settimana dall’Antartide, continente sentinella del futuro che abiteremo. Si sta rompendo il ghiacciaio Thwaites, che si trova nel mare di Amundsen, nella parte occidentale dell’Antartide: è il più largo al mondo, già oggi perde 50 miliardi tonnellate di ghiaccio all’anno, contribuisce da solo al 4 per cento dell’innalzamento del livello dei mare e da decenni ha un faro scientifico puntato sopra, che gli ha anche fatto guadagnare il poco rassicurante appellativo di «ghiacciaio dell’apocalisse». Se viene giù Thwaites, veniamo giù noi con lui.

Purtroppo sembra si stia rompendo «come il parabrezza di un’automobile», hanno detto gli scienziati del progetto congiunto americano-britannico International Thwaites Glacier Collaboration. Una frattura dietro l’altra e poi basta un dosso per farlo crollare.

Il ghiacciaio dell’apocalisse sta accumulando crepe nella parte che ritenevamo più stabile, quella orientale, «protetta» da una catena montuosa sottomarina. Un tappo che si è indebolito a causa delle alte temperature e dell’afflusso di acqua più calda dall’oceano.

Secondo i ricercatori il collasso potrebbe avvenire già tra cinque anni. Lo scenario peggiore porterebbe a un innalzamento del livello globale del mare di 65 centimetri: sarebbe la fine della vita per come la conoscono oggi per 800 milioni di persone che vivono sulle aree costiere.

Questa ipotesi sembrava lontana secoli, probabilmente in questa forma lo è ancora, ma i calcoli erano stati fatti con un ritmo di fusione che ora abbiamo scoperto essere molto più veloce e drammatico.

I prossimi passi serviranno a indagare come l’afflusso sottomarino di acqua più calda stia contribuendo a far saltare il tappo di protezione. Verrà usato anche un sottomarino a guida autonoma, che scenderà in profondità per raccogliere dati e perfezionare il modello. È giallo – come si conviene a un sottomarino – e i ricercatori del progetto lo hanno battezzato Boaty McBoatface. Questo è il suo aspetto.

Povl Abrahamsen

I falsi miti sulle rinnovabili

Prima di salutarci, un articolo interessante e soprattutto ottimista di Yale360, pieno di numeri che provano a smontare cliché e falsi miti sul mix energetico basato su fonti rinnovabili. È lungo e articolato, ma qui sottolineo gli aspetti più utili secondo me al nostro attuale dibattito in Italia.

  • Secondo l’indicatore più usato per valutare l’affidabilità di una rete, il System average interruption duration index (Saidi), in Germania, dove la quota di rinnovabili è arrivata al 50 per cento della generazione elettrica, le interruzioni sono state solo di 0,25 ore per consumatore all’anno. Meno che in paesi europei tradizionalmente nucleari come Francia (0,35 ore) e Svezia (0,61 ore). Negli Stati Uniti, dove le rinnovabili sono al 20 per cento, il tasso è stato cinque volte più alto che in Germania: 1,28 ore all’anno per consumatore. In Germania, mentre le rinnovabili raddoppiavano, il tasso di intermittenza si dimezzava.
  • Il nucleare non è utile a stabilizzare la rete ed è anzi a grosso rischio intermittenza. In Francia le centrali nucleari sono state spente per 96,2 giorni nel 2019 e per 111,5 giorni nel 2020, a causa di interruzioni programmate o forzate. In totale hanno generato solo il 65 per cento dell’elettricità che era previsto generassero. Per la Francia, il nucleare è stata la fonte di energia più imprevedibile, non la più affidabile, come spesso si dice.
  • Le batterie di accumulo sono lo strumento per immagazzinare l’energia prodotta da fonti rinnovabili quando non batte il sole e non c’è vento, la ricerca tecnologica e la produzione stanno facendo passi importanti, ma ci sono anche altri metodi per arrivare allo stesso livello di sicurezza, soprattutto l’efficienza energetica (per ridurre gli sprechi), sistemi di domanda/risposta per abbassare impercettibilmente la domanda nei picchi e la varietà delle fonti rinnovabili (che permette al sistema di avere sempre un backup pronto).

Per questa settimana è tutto, se avete consigli, spunti, riflessioni o critiche scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per contattare Domani, l’indirizzo invece è lettori@editorialedomani.it

Grazie!

Ferdinando Cotugno

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