Entro il 2030 dovremmo “salvare” dalla pesca il 10 per cento dei nostri mari. A oggi, però, siamo allo 0,04 per cento. E il dato è destinato a calare ancora. Il governo studia forme diverse di protezione, come la rete Natura 2000, che consentono alla nostra flotta, la più grande del Mediterraneo, di proseguire nella sua attività. Le associazioni: «Non c’è alcun controllo»
Entro il 2030 l’Italia si è impegnata a garantire una “protezione totale” al 10 per cento dei propri mari, per contribuire a salvare la biodiversità del Mediterraneo, ma a oggi soltanto lo 0,04 per cento delle acque nazionali sono precluse alla pesca, mentre il governo sta cercando strade per rispondere agli impegni internazionali senza limitare l’attività della propria flotta.
«L’Italia dovrebbe riuscire a fare in modo per il 2030 di proteggere in modo efficace il 30 per cento dei propri mari, e il 10 per cento con aree protette in modo rigoroso», afferma Leonardo Tunesi, dirigente di ricerca emerito, associato all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Secondo Tunesi, la definizione di “protezione rigorosa” (strict protected areas) in Unione europea significa una totale chiusura delle attività di pesca, e in Italia «attualmente, con le nostre superfici, siamo allo 0,04 per cento».
L’obiettivo 30x30 per l’Italia è messo nero su bianco nella Strategia nazionale per la biodiversità, ma nasce da un trattato delle Nazioni unite, che impegna i paesi a mettere sotto protezione il 30 per cento degli oceani entro la fine del decennio.
Le tutele mancanti
Il Mediterraneo è un hotspot di biodiversità, particolarmente importante per questa sfida: secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), vanta una varietà tra le 15 e le 25mila specie vegetali e almeno 1.900 specie animali, ma «circa il 19 per cento sono a rischio estinzione» per la perdita degli habitat dovuta all’attività antropica e alla crisi climatica, all’arrivo di specie aliene, al sovrasfruttamento.
La pesca è considerata uno dei principali fattori di stress: la Fao stima che il 58 per cento delle specie ittiche nel Mediterraneo e nel Mar Nero sia in condizioni di sovrapesca, con alcune specie come il nasello, l’anguilla, la sardina, la sogliola, la triglia, lo scampo o il pesce spada in condizioni di grave sovrasfruttamento. L’Italia rappresenta di gran lunga la più grande flotta del Mediterraneo, con circa 10mila imbarcazioni e il 39 per cento delle catture totali.
Ma la strategia italiana per limitare le aree di pesca soffre gravi ritardi, mentre diverse voci contestano al governo la creazione di “parchi di carta”: aree nominalmente sotto tutela, ma che mancano di reali protezioni, in particolare nei confronti della pesca.
«In Italia nelle aree marine protette non si pesca», afferma Valentina Di Miccoli, responsabile campagna mare di Greenpeace Italia. «Nonostante gli effetti del cambiamento climatico si notino anche qui, si vede che la biodiversità risponde meglio». Il problema, secondo Di Miccoli, è che «parliamo di aree molto piccole», mentre il ministero dell’Ambiente per raggiungere gli obiettivi sta guardando ad altre forme di protezione, come le aree protette della rete Natura 2000, legate alla direttiva Europea Habitat, dove rispetto alla pesca «non c’è nessuna misura di tutela: si può pescare, si può fare lo strascico, si può fare tutto».
Secondo Susan Gallon, responsabile scientifico di MedPan, rete degli enti gestori delle aree protette nel Mediterraneo, «la maggior parte delle aree Natura 2000 permettono la pesca, perché sono state progettate per delle esigenze specifiche di protezione, di alcuni habitat o di alcune specie. Se un’area Natura 2000 è stata creata per tutelare degli uccelli marini», afferma, «ai pescatori viene detto di non curarsene».
Le criticità delle aree Natura 2000 e la procedura Ue
Dal 2024 l'Italia è sotto procedura di infrazione europea, perché la regolare attività di strascico in alcune aree Natura 2000 ha comportato un numero eccessivo di catture accidentali di uccelli marini tutelati, come la berta maggiore e la berta minore, rimasti impigliati nelle reti. «Le violazioni riguardano la flotta italiana e l'attuazione della direttiva Habitat», ha detto a inizio luglio la commissaria Ue all’ambiente Jessika Roswall. «Diverse località e siti Natura 2000 in tutta Italia sono stati considerati come esempi delle violazioni oggetto di contestazione».
Secondo Greenpeace, che ha condotto un monitoraggio sulle catture accidentali nelle aree Natura 2000 italiane in collaborazione con la Lipu, «una sola “calata” di ami di tonni, che può comportare il dispiegamento di circa 600 ami, ha comportato l’uccisione di 25 berte solo nel più recente giorno di osservazione».
Eppure Ispra, per conto del ministero, annovera queste aree tra quelle sotto tutela in ottica 30x30: «Con una nuova serie di siti che sono stati proposti adesso, probabilmente supereremo il 30 per cento» di protezione, ci dice Tunesi, che pure ammette che in queste aree «a livello europeo bisognerebbe cominciare a pensare a misure per regolamentare il prelievo ittico».
Ispra e ministero includono nel loro conteggio anche altre porzioni di mare, come il Santuario dei Cetacei, al largo della Liguria, dove la pesca è regolarmente consentita. Analogamente, stanno cercando di farsi “validare” dalle autorità internazionali altre aree dove la sola pesca a strascico è vietata o limitata, come quelle con profondità sopra gli 800 metri o le “Zone di tutela biologica” (Ztb), istituite dal ministero dell’Agricoltura per il ripopolamento di alcuni stock come il nasello, usate come “misure di compensazione” per permettere un aumento dei giorni di pesca delle flotte in altre aree.
L’estensione della giurisdizione marittima: nuove sfide
La scarsa performance dell’Italia sulle aree protette è in linea con gli altri paesi del Mediterraneo, dove si stima che meno dello 0,06 per cento del mare goda di una protezione totale, quasi esclusivamente grazie ai paesi Ue, mentre paesi come la Libia non hanno attivato alcuna forma di protezione. «Oltre il 97 per cento delle Aree marine protette si trova in acque comunitarie», ci dice Susan Gallon. «Si tratta di un divario enorme in termini di protezione nel Mediterraneo tra Nord e Sud».
Eppure il problema in Italia ha un peso specifico diverso, sia perché l’Italia ha la più grande flotta e rappresenta il 39 per cento delle catture totali, sia perché l’attuale dato 0,04 per cento è destinato a crollare ulteriormente. In questi giorni il governo Italiano sta formalizzando una “zona economica esclusiva” in mare, estendendo la propria sovranità dalle attuali 12 miglia fino a 200 miglia nautiche - aumentando esponenzialmente l’area su cui ha giurisdizione, e su cui quindi dovrebbe garantire delle tutele.
«Questo è un grosso problema per fare in modo che l’Italia arrivi al 30 per cento», ci dice Tunesi. «In realtà tutto quello che è all’interno delle 12 miglia sarebbe già il 30 per cento, non sarebbe neanche sufficiente, andrebbe chiuso tutto».
Sullo sfondo il nodo del consumo: l’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche non riesce comunque a soddisfare il consumo pro capite, in Italia stabile a 30kg di pesce l’anno, superiore alla media Ue di 23kg. Questo già oggi genera una forte dipendenza dalle importazioni da paesi extra UE, delocalizzando la sovrappesca in altre aree del pianeta.
Questo articolo è stato realizzato con il supporto di Journalismfund Europe
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