La conferenza delle Nazioni unite che si è svolta in Francia a inizio giugno deve diventare un trampolino di lancio per un’azione più incisiva sugli oceani da presentare a Belém. Possiamo diventare la generazione che ha trasformato l’ambizione in azione
Si è chiusa lo scorso 13 giugno la terza conferenza delle Nazioni unite sugli oceani tenutasi a Nizza. Molte sono le cose da festeggiare, ma altrettante le questioni in sospeso che il mondo dovrà affrontare alla conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici (Cop30) prevista per la fine dell’anno a Belém, in Brasile.
In un contesto di incertezza globale e di dubbi sulla capacità dei processi multilaterali di produrre risultati, i paesi rappresentati a Nizza sono stati perlopiù concordi sulla necessità di dare una risposta più ambiziosa alle sfide che minacciano i nostri oceani. Ma Nizza è stata solo la prima tappa del viaggio. Per tutelare in tempo questo bene collettivo in grado di preservare la vita, c’è bisogno di fare molto altro prima della Cop30.
Tra i risultati da celebrare vi sono i notevoli progressi compiuti dal trattato sull’alto mare. Dopo la ratifica a Nizza da parte di diciannove paesi, e l’impegno di un’altra decina ad aderirvi prossimamente, siamo sulla buona strada per rendere operativo questo storico accordo globale, che consentirà la creazione di aree marine protette in alto mare, entro l’inizio del 2026. Si andrà così a colmare un’enorme lacuna nella governance degli oceani.
Protezione marina
Non si può raggiungere l’obiettivo di proteggere almeno il 30 per cento degli oceani del pianeta entro il 2030 senza tutelare ampie zone del mare aperto, un’area che rappresenta due terzi della superficie oceanica e metà di quella terrestre.
Fornire una protezione marina efficace è particolarmente urgente nelle regioni polari, che sono tra le più colpite dalla crisi climatica.
La situazione nell’oceano meridionale è disastrosa e richiede un intervento immediato per portare ad attuazione le proposte di aree marine protette, da tempo bloccate. Tali protezioni salvaguarderanno la capacità dell’oceano di contribuire a mitigare i cambiamenti climatici (assorbendo il carbonio) e aumenteranno la resistenza delle specie marine al riscaldamento delle temperature (ad esempio eliminando le pressioni derivanti dalla pesca intensiva).
A Nizza, diversi paesi hanno anche annunciato l’istituzione di nuove, significative protezioni marine nelle loro acque nazionali. Tra questi, la Polinesia francese ha presentato quella che, con quasi cinque milioni di chilometri quadrati, sarà la più grande rete di aree protette al mondo. La conferenza ha inoltre permesso di compiere progressi apprezzabili nella lotta all’inquinamento da plastiche e nella limitazione delle pratiche di pesca più dannose.
Quello che resta da fare
Nessuno di questi importanti risultati, tuttavia, andrebbe interpretato come un punto di svolta nella protezione degli oceani. Piuttosto, ognuno dev’essere considerato come parte di un cambiamento più ampio: una marea crescente di ambizioni elevate che ha ancora molta strada da percorrere.
Consideriamo ciò che resta da fare. Innanzitutto, siamo ancora molto indietro riguardo alla designazione e all’istituzione delle aree marine protette. Anche dopo Nizza, solo il 10 per cento degli oceani gode di una qualche forma di tutela. Siamo ben lontani dal target del 30 per cento che dobbiamo raggiungere entro la fine del decennio.
Quel che è peggio è che molte aree protette lo sono solo sulla carta. Ad esempio, molti speravano che un paese paladino dell’ambiente come la Francia avrebbe annunciato un rigido divieto di pesca a strascico nelle sue aree tutelate. Comunque, c’è ancora tempo perché altri paesi lancino un segnale in tal senso, anche alla Cop30.
Il denaro conta sempre
In secondo luogo, il denaro conta sempre. Persiste, infatti, un forte divario tra quanto promesso e quanto effettivamente stanziato. A livello globale, solo 1,2 miliardi di dollari vengono destinati ogni anno alla protezione degli oceani, meno del 10 per cento del necessario, malgrado alcuni studi dimostrino che sottoporre a tutela il 30 per cento degli oceani entro il 2030 potrebbe sbloccare 85 miliardi di dollari l’anno entro il 2050.
Di fatto, distogliere i fondi destinati ai sussidi per metodi di pesca dannosi in soli dieci paesi basterebbe a colmare il deficit di finanziamenti per la tutela degli oceani. La spesa pubblica deve riabilitare, non debilitare, questa risorsa essenziale.
In terzo luogo, il silenzio a Nizza sulla fine della nostra dipendenza dai combustibili fossili è stato assordante. Sebbene il mondo si sia impegnato due anni fa, in occasione della Cop28 di Dubai, ad “abbandonare” i combustibili fossili, la questione sembra suscitare polemiche a ogni incontro multilaterale.
Dal momento che la crisi climatica rappresenta una minaccia esistenziale per tutte le forme di vita sul nostro pianeta blu, lo sviluppo di nuovi progetti per l’estrazione completa di petrolio e gas offshore è antitetico a tutti i nostri obiettivi dichiarati.
Un elemento positivo, tuttavia, è rappresentato dalla Blue NDC Challenge, un’iniziativa lanciata da Brasile e Francia e sostenuta da otto paesi inaugurali, che sta spingendo affinché misure specifiche legate agli oceani siano incluse nei piani climatici nazionali.
Un trampolino di lancio
La conferenza di Nizza deve diventare un trampolino di lancio per un’azione più incisiva sugli oceani da presentare a Belém. La Cop30 è la piattaforma ideale per annunciare nuove protezioni marine e finanziamenti per interventi di conservazione nei paesi in via di sviluppo, nonché per la creazione di resilienza nei paesi insulari e costieri vulnerabili.
In qualità di presidente di turno della Cop30 e di paese costiero, il Brasile ha l’opportunità di sfruttare lo slancio emerso a Nizza per integrare la risposta mondiale alle crisi del clima e degli oceani. Abbiamo la possibilità di scegliere. Possiamo diventare la generazione che ha trasformato l’ambizione in azione, oppure lasciare che il nostro bene comune globale più importante vada irrimediabilmente in rovina. L’oceano non può aspettare, la Cop30 deve dare i suoi frutti.
John F. Kerry è stato segretario di Stato degli Stati Uniti e inviato speciale del presidente per il clima.
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