Aggiungi due anni e mezzo alla tua vita. Quasi mille giorni di te in più. È quello che succede alla longevità umana quando il nostro corpo e la nostra esistenza sono esposti agli spazi naturali. Si vive in media due anni e mezzo in più.

È il risultato di una ricerca condotta dalla Northwestern University Feinberg School of Medicine e pubblicata questa settimana su Science Advance, la prima a quantificare in modo così esatto l'impatto sulla salute e sulle sue prospettive per chi ha più accesso a spazi naturali.

Il nostro corpo ha un'età anagrafica e un'età biologica. La prima è algebra. La seconda è algebra più stile di vita: cosa mangi, quanto ti muovi, come dormi. E ora possiamo davvero aggiungere: quanto verde hai intorno.

Secondo i ricercatori, questa dimensione naturale ha effetti molecolari che possono essere rintracciati nel nostro sangue. «La natura ti entra sotto la pelle», hanno detto al Washington Post. Bello. Ed è uno scudo contro lo scorrere del tempo. Questo è il numero 130 di Areale e ora iniziamo.

I draghi e le mappe

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È stata una settimana particolare, per il clima. Com'è stato, per esempio, il tuo lunedì?

Qualunque cosa tu stessi facendo quel giorno, lavoro, inizio delle vacanze, fine delle vacanze, attesa, ansia, cura, ecco, quel giorno la civiltà umana di cui fai parte anche tu stava affrontando il giorno più caldo della sua storia. Per la prima volta da quando siamo in grado di registrare le temperature, quella media terrestre ha superato i 17°C. Mai successo. Mai.

Il precedente record resisteva da sette anni, dal 2016, anno più caldo della storia e comunque quell’anno non avevamo mai superato, in nessuna giornata, i 17°C. Ed era stato l'anno più caldo finora (ci saranno un sacco di finora nelle prossime righe).

E martedì? Com'è stato il tuo martedì?

Martedì abbiamo battuto il record di lunedì, che ha resistito quindi solo un giorno. Martedì 5 luglio, giorno più caldo degli ultimi 125mila. Lo abbiamo fatto noi. Secondo l'Onu la settimana in corso potrebbe essere stata la più calda della storia umana (finora, appunto). Secondo l'osservatorio Copernicus abbiamo appena mandato in archivio il mese di giugno più caldo di sempre (finora).
Il Pacifico orientale è ufficialmente entrato nella sua fase El Niño, un'oscillazione ciclica naturale, che tende a riscaldare la superficie dell'oceano e da lì quella del mondo. E che va a combinarsi ai danni che facciamo noi. Ma oggi a fare paura è soprattutto l'Atlantico orientale, ne abbiamo parlato spesso qui, una striscia di acqua superficiale caldissima che va dall'Irlanda alla Mauritania.

«Uncharted territory», stanno dicendo gli scienziati. Nella storia umana, prima della rivoluzione scientifica e prima dell'arrivo della consapevolezza che il mondo ha la forma di un globo e non di un foglio, il territorio non mappato terminava con i confini geografici visibili, hic sunt leones, dopo questo stretto di mare non sappiamo cosa c'è, sirene, mostri, creature spaventose, e quindi non ci avventuriamo, per ora.

Poi ci siamo avventurati: ora la superficie della Terra è tutta mappata, un gemello digitale per ogni oceano, città, montagna, deserto. E a rimanere non mappato è il futuro. Anzi. La combinazione di futuro e temperatura, la febbre che ancora non conosciamo e i suoi effetti sistemici. La verità è che non sappiamo quanto sarà forte questa fase di Niño. Moderata? Estrema, come quelle di inizio anni '80 e fine anni '90? Non sappiamo quanto durerà. Nove mesi? Un anno? Un anno e mezzo? Non sappiamo come sarà la sua combinazione con il riscaldamento di origine umana.

Ti ricordi l'obiettivo 1.5°C? L'accordo di Parigi impone di rimanerci il più vicini possibile, entro fine secolo e sulla scala del clima, i trent'anni. Dove siamo su quella scala? Mettiamo delle puntine. L'abbiamo già superato sulla scala dei giorni, a inizio giugno abbiamo avuto giorni in cui la media globale della temperatura terrestre era sopra +1.5°C rispetto all’era pre-industriale. Ma era solo un giorno o due, non il clima. Okay.

L'Organizzazione meteorologica mondiale dice che potremmo avere un anno sopra +1.5°C già nel prossimo quinquennio, forse sarà già il 2024. Ma sarebbe solo un anno, non la scala trentennale dell'accordo di Parigi. Okay. Saremmo comunque a metà del percorso in territorio ignoto. Ma okay. E poi?

Ieri ho intervistato Carlo Buontempo, direttore dell'osservatorio Copernicus, l'articolo uscirà nei prossimi giorni, mi ha detto quello che ormai la scienza dà per acquisito: supereremo quella soglia anche sulla scala dell'accordo di Parigi, forse già negli anni '30, non c'è praticamente più dubbio.

L'unica speranza è riuscire a rientrare entro fine secolo. Overshoot. Salire, sbirciare l'ignoto e poi scendere di nuovo giù. Questo potremmo riuscire a fare. Ed è comunque «improbabile». Questo è il territorio non mappato, che percorriamo comodamente seduti su un vascello di indifferenza, un grado alla volta, un gradino alla volta.

In Fargo il killer Lorne Malvo dice a un poliziotto che lungo certe strade non dovremo mai andare. Un tempo le mappe dicevano: «Ci sono i draghi qui». Oggi non lo dicono più. Ma non vuol dire che i draghi non ci siano più. Uncharted territory. Ce la ricorderemo, questa seconda settimana di luglio? Dove eravamo, come abbiamo reagito, che hanno detto le persone, i leader delle istituzioni e tutti quanti, quando abbiamo superato i 17°C?

Decarbonizzare all'italiana

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La bozza del nuovo Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) è la fotografia della decarbonizzazione all'italiana concepita dal governo Meloni: rinnovabili col freno a mano, modello Piombino come buona pratica da tramandare, gas come pilastro del sistema energetico per gli anni a venire, peso spropositato dei biocarburanti e nessuna attenzione al problema dell'inquinamento. Lo ha segnalato una lettera delle principali organizzazioni ambientaliste storiche (Legambiente, Wwf, Greenpeace, Kyoto Club, Transport&Environment).

Il primo dato degno di nota è quello del 65 per cento di rinnovabili elettriche al 2030, con una crescita prevista di gran lunga inferiore al potenziale nazionale. Secondo il Pniec entro la fine del decennio in corso l'obiettivo è di 74 Gw, quando l'asticella del possibile potrebbe essere messa decisamente più in alto: 85 Gw secondo uno studio di Elettricità Futura, addirittura 99 GW di rinnovabili, secondo una ricerca di Ecco Climate e Artelys.

Con i numeri previsti dal governo, l'orizzonte di una decarbonizzazione del sistema elettrico nazionale al 2035 diventa un miraggio.

La bozza del governo sembra tra le righe cristallizzare il doppio binario autorizzativo, il doppio standard, rinnovabili in corsia centrale e gas in quella sorpasso: mentre i colli di bottiglia per i nuovi impianti fotovoltaici ed eolici sono ancora troppo stringenti, nonostante gli ultimi due governi avessero promesso il contrario, la corsia per i rigassificatori non solo continua a essere sgombra ma viene esaltata come un modello da applicare anche in futuro, tutta Italia come Piombino, dove il nuovo impianto per il Gnl è stato autorizzato in pochi mesi, semplificando tutte le valutazioni legate all'ambiente, alla salute e alla sicurezza. Il paradosso è che la motivazione addotta è stata l'emergenza della crisi energetica, sulla quale i nuovi rigassificatori di Piombino e Ravenna non sono stati di nessun aiuto.

Vengono ipotizzate nuove aste di capacity market per impianti termoelettrici a gas. Nella lettura fossile del governo dovrebbero compensare una lentezza delle rinnovabili, che però è solo una scelta politica.

Arrivare a 85 GW di rinnovabili nel 2030 permetterebbe di risparmiare 20 miliardi di metri cubi di gas. Non farlo non è un'emergenza, è una scelta politica.

Nella visione del governo Meloni viene attribuito un ruolo strategico agli impianti di cattura e sequestro del carbonio (Ccs), che per queste tecnologie mai testate su scala è un ruolo nella realtà puramente ipotetico, anzi, una scelta «ideologica», secondo le organizzazioni ambientaliste italiane.

Anche la centralità dell'idrogeno desta interrogativi: l'unica versione energetica dell'idrogeno compatibile con gli scenari net zero è quella verde, prodotta da rinnovabili tramite elettrolisi, ma sono tecnologie costose, da usare con parsimonia (anche perché la coperta delle rinnovabili prevista dal governo rischia di essere troppo corta per tutti questi usi), solo per i settori dove è difficile abbattere le emissioni in qualsiasi altro modo, e non per usi civili come trasporti pubblico o riscaldamento, nei quali le soluzioni più economiche e tecnologicamente pronte sono altre, rispettivamente motori elettrici e pompe di calore.

Sui trasporti stradali viene previsto un raddoppio del contributo dei biocarburanti, che è da tempo la strada scelta dal governo anche nel negoziato sul phase-out dei motori a benzina e diesel previsto dal pacchetto Fit for 55.

Al di là del fatto che questa soluzione non offrirebbe conforto al problema dell'inquinamento (60mila morti l'anno in Italia), sembra anche impraticabile dal punto di vista delle catene di approvvigionamento.

In questo momento c'è un gap tra la disponibilità di materia prima e gli usi previsti dal governo, senza contare che il 90 per cento della materia prima viene importata, su mercati e con standard poco chiari.

Le organizzazioni chiedono anche trasparenza: le bozze sono circolate in modo informale, senza un vero percorso partecipativo. Il piano energia e clima di Meloni risponde a un'idea di transizione ancora legata al mondo del fossile, poco democratica e tutta calata dall'alto.

Il 12 luglio, d-day per la natura europea

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Dopo lo stallo in Commissione ambiente, incoraggiato dal solito voto anti-ecologico del governo italiano, la data chiave per la Nature Restoration Law, la legge europea sul ripristino della natura, è il 12 luglio.

Quel giorno il parlamento europeo, in seduta plenaria, dovrà esprimersi su quella che potrebbe essere una pietra miliare della protezione dell'ambiente in Europa o - in caso di voto contrario - la tessera del domino che inizia a raccontarci l'inizio della fine per le ambizioni europee. Votare a favore confermerebbe gli obiettivi della Strategia per la biodiversità al 2030 e soprattutto gli impegni assunti a livello internazionale con la COP15 di Montreal. Insomma, coerenza e leadership. Il 12 luglio si decide tanto sul futuro dell'ambiente e delle politiche ambientali in Europa.

In ballo c'è l'obiettivo di ripristinare il 20 per cento del territorio terrestre e marino dell'Unione Europea che negli ultimi decenni si è degradato, fermare il deterioramento futuro, rinaturalizzare gli ecosistemi fluviali (e il disastro in Romagna ci ha insegnato quanto sia importante anche per salvare territori e vite umane, non solo la biodiversità), un'agricoltura più compatibile con la biodiversità stessa (soprattutto per evitare una primavera silenziosa europea di uccelli e insetti impollinatori), una gestione più sostenibile delle foreste europee (i cui sink di carbonio sono in crisi e un giorno ne parleremo approfonditamente, perché da questi sink dipendono anche i nostri obiettivi climatici), la rinaturazione delle città. In sostanza, questa è più di una legge quadro, è una legge manifesto esistenziale, in ballo c'è il sostrato naturale dell'Unione Europea. Vedremo come andrà il 12 luglio.

I cargo e l'accordo di Parigi

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Questa settimana, intanto, il settore marittimo ha aggiornato i suoi obiettivi di decarbonizzazione. Come sono?

Migliori di quelli precedenti, ma insufficienti per tenere l'obiettivo 1.5°C alla portata. Il braccio politico del settore shipping ha deciso che tutto sommato non farà la sua parte, e lo ha deciso in una settimana di riunioni a porte chiuse. I meeting della International Maritime Organization (IMO), pur essendo un organismo delle Nazioni unite, non includono né la società civile né tantomeno la stampa, è uno dei settori che prende le decisioni in modo meno trasparente.

La fotografia al momento è quella di 100mila navi cargo che sono la nervatura del commercio internazionale, che portano il 90 per cento delle merci globali e che sono alimentate con i carburanti più inquinanti che esistano. Questa grande flotta rappresenta il 3 per cento delle emissioni globali, più o meno quanto l'aviazione.

È un parallelo interessante, perché l'aviazione civile è soggetta maggiormente allo scrutinio e all'attenzione delle persone, è più visibile e quindi sensibile ai cambiamenti di percezioni e di cultura, e si è data un obiettivo ambizioso. Al momento non tecnologicamente realistico ma almeno ambizioso: net zero al 2050.

Lo shipping è invisibile, anche se molto più presente nella nostra vita quotidiana - sarebbe interessante poter fare un sondaggio del nostro campo visivo in questo momento e capire quante cose sono entrate in quel campo visivo grazie a una nave cargo. In virtù di questo lo shipping e i paesi che ne vivono si possono permettere di avere obiettivi non allineati a nessuna richiesta della scienza e di coltivare indisturbati il loro status quo.

L'Imo ha dunque deciso che proverà a ridurre le sue emissioni del 20 per cento («striving», quindi «sforzandosi» – bel wording - di arrivare al 30 per cento) entro il 2030, e del 70 per cento, sforzandosi di arrivare all'80 per cento, entro il 2040, «compatibilmente con le circostanze nazionali». Tutti questi sono indicati come «checkpoint indicativi» e non target assoluti.

È un obiettivo debole, probabilmente sarebbe stato peggiore se le piccole isole del Pacifico non si fossero battute strenuamente in un contesto politicamente ostile. «C'è una disparità che non ci possiamo più permettere tra gli impegni del settore marittimo e gli obiettivi dell'Accordo di Parigi», ha commentato Harjeet Singh di Climate Action Network, esprimendo lo sconforto di tutta la società civile rispetto a un impegno così vago e poco ambizioso.

Per essere in linea con Parigi, lo shipping dovrebbe dimezzare le sue emissioni nel 2030 e azzerarle nel 2040. Chiaramente, questo non accadrà, e il settore supererà il suo budget di emissioni tra il 2032 e il 2033. Poi sarà a credito. E non è stato trovato nessun accordo sulla tassa per il carbonio dello shipping, della quale si discuteva anche come possibile misura di finanziamento al fondo danni e perdite. Insomma, la decarbonizzazione non viaggerà via mare.


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A presto!

Ferdinando Cotugno

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