La scienza, si sa, non può e non deve chiudere gli occhi di fronte a nuove scoperte che possono minare alcuni assunti ottenuti negli anni. È il caso del “cambiamento climatico” in atto. Negli ultimi anni si è venuta ad affermare un’idea che viene portata avanti con certezza assoluta, ossia che la temperatura dell’atmosfera terrestre non ha precedenti a livello planetario, almeno per le ultime decine di migliaia di anni, e quindi potrebbe essere che l’Homo sapiens, ossia noi tutti e i nostri predecessori, non abbiano mai incontrato una situazione come quella attuale. Ma ora due ricerche pongono dei dubbi.

La prima è stata pubblicata su Nature ed è stata realizzata da scienziati italiani, che hanno ricostruito la temperatura superficiale del mare degli ultimi millenni attraverso un’analisi del rapporto magnesio/calcio presente in un particolare foraminifero, il Globigerinoides ruber, nel corso del tempo. Tale rapporto varia in base alla temperatura dell’acqua marina. Ebbene, il risultato sostiene che nel canale di Sicilia, durante il periodo romano dall’1 a.C. al 500 d.C., la temperatura era di 2 gradi superiore rispetto ai valori medi degli ultimi secoli. E questo dato concorda con altri studi simili sparsi nel Mediterraneo.

Il secondo studio è stato condotto da archeologi norvegesi i quali hanno scoperto decine di frecce, parti di vestiti e alcuni manufatti risalenti a periodi diversi in una regione montuosa del paese dove attualmente i ghiacciai sono in ritiro. Ciò significa che degli uomini andavano a caccia in aree libere dai ghiacci come lo sono oggi e dunque anche in quei periodi le temperature dovevano essere a livelli almeno simili ai nostri.

Il significato

Cosa significa tutto ciò? Che il riscaldamento globale attuale non è per nulla pericoloso perché è un fenomeno del tutto già sperimentato dalla specie umana? No, non sono queste le conclusioni a cui si deve arrivare, per vari motivi. Il primo riguarda l’anidride carbonica (CO2) immessa nell’atmosfera in questi ultimi anni. Mai da almeno 800mila anni la CO2 è cresciuta nell’ambito di poco più di un secolo di oltre 100 parti per milione. Di solito, infatti, l’oscillazione della CO2 è variata attorno alle 2 parti per milione.

Cosa possa portare questa enorme quantità di anidride carbonica nell’atmosfera non lo sappiamo. Tra l’altro, secondo il Met Office, nel 2021 la CO2 raggiungerà livelli superiori del 50 per cento rispetto a prima della rivoluzione industriale. Spiega Richard Betts Mbe: «Poiché la CO2 rimane nell’atmosfera per un tempo molto lungo, le emissioni di ogni anno si sommano a quelle degli anni precedenti e dunque la CO2 nell’atmosfera continua ad aumentare. Sebbene la pandemia da Covid-19 abbia portato ad una diminuzione del 7 per cento del gas serra rispetto agli anni precedenti, quello che è stato emesso si è comunque aggiunto al continuo accumulo nell’atmosfera. Le emissioni sono ora tornate quasi ai livelli pre-pandemici».

A ciò va aggiunto il fatto che una gran parte è stata assorbita dagli oceani, che si sono acidificati, con severe ricadute per molti habitat. A tutto ciò si è aggiunto il degrado di moltissimi ecosistemi di organismi viventi che mettono a serio rischio un gran numero di specie. Una miscela di elementi le cui conseguenze realmente non sono mai state sperimentate dall’Homo sapiens e le cui proiezioni dicono che la situazione è lungi dal ritornare alla norma, come avvenne invece nei periodi “caldi” precedenti.

Covid-19 e inquinamento

L’inquinamento legato al particolato atmosferico che vi è nell’atmosfera e il Covid-19 non sembrano avere alcuna correlazione. A sostenerlo è una ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche, che ha pubblicato i risultati dello studio sulla rivista scientifica Environmental Research. Quando si ebbe la prima ondata della pandemia da Covid-19, all’inizio del 2020, il nord Italia venne colpito più del resto del paese e la Lombardia, in particolare, è stata la regione con la maggiore diffusione. A maggio 2020 vi erano registrati 76.469 casi, pari al 36,9 per cento del totale italiano di 207.428 casi.

Perché tutto ciò? Tra le molte ipotesi ci fu quella che sosteneva che l’inquinamento dell’atmosfera particolarmente forte nella Pianura Padana fosse tra le cause più importanti. Ma ora a smentire ciò è l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), il quale dimostra che particolato atmosferico e virus non interagiscono tra loro. Lo studio è stato condotto analizzando i dati, per l’inverno 2020, dell’aria per le città di Milano e Bergamo, dove vi sono stati i focolai di Covid-19 più rilevanti nel nord Italia. Spiega Daniele Contini, ricercatore di Cnr-Isac: «Tra le tesi avanzate, vi è quella che mette in relazione la diffusione virale con i parametri atmosferici, ipotizzando che scarsa ventilazione e stabilità atmosferica, tipici del periodo invernale nella Pianura Padana, e il particolato atmosferico, cioè le particelle solide o liquide di sorgenti naturali e prodotte dall’uomo presenti in atmosfera in elevate concentrazioni nel periodo invernale in Lombardia, possano favorire la trasmissione in aria del contagio.

Si è supposto che tali elementi possano agire come veicolo per il Sars-CoV-2 formando degli agglomerati con le emissioni respiratorie delle persone infette. In tal caso il conseguente trasporto a grande distanza e l’incremento del tempo di permanenza in atmosfera del particolato emesso avrebbero potuto favorire la diffusione via-aria del contagio. Ma i risultati dei rilevamenti in aree pubbliche all’aperto mostrano concentrazioni molto basse, inferiori a una particella virale per metro cubo di aria».

«Anche ipotizzando una quota di infetti pari al 10 per cento della popolazione, quindi dieci volte rispetto a quella attualmente rilevata (circa 1 per cento), sarebbero necessarie, in media, 38 ore a Milano e 61 ore a Bergamo per inspirare una singola particella virale. Si deve però tenere conto che una singola particella virale può non essere sufficiente a trasmettere il contagio e che il tempo medio necessario a inspirare il materiale virale è tipicamente tra 10 e 100 volte più lungo di quello relativo alla singola particella, quindi variabile tra decine di giorni e alcuni mesi di esposizione all’aperto continuativa. La maggiore probabilità di trasmissione in aria del contagio, al di fuori di zone di assembramento, appare dunque essenzialmente trascurabile». Stare all’aria aperta dunque, lontani da assembramenti di persone, non aumenta nel modo più assoluto le possibilità di essere colpiti dal virus.

La Terra mai così veloce

Da sempre la rotazione della Terra sta rallentando, tant’è che 230 milioni di anni fa, ad esempio, il giorno durava meno: 23 ore rispetto alle 24 di oggi. Ma nel 2020 si sono registrati 28 giorni durante i quali, dal 1960, la durata della giornata (calcolata al millesimo di secondo), non è mai stata così breve. Diciamolo subito: non c’è nulla di allarmante. La rotazione del pianeta infatti varia sempre leggermente, in quanto è sottoposta alle variazioni della pressione atmosferica, dei venti, delle correnti oceaniche e del movimento del nucleo. Ma il fenomeno crea problemi ai “cronometristi internazionali”, a coloro cioè che usano orologi atomici ultra precisi per misurare il Tempo coordinato universale (Utc) attraverso il quale poi, ognuno adegua i propri orologi. Quando l’ora astronomica, impostata dal tempo impiegato dalla Terra per compiere una rotazione completa, devia dall’UTC di oltre 0,4 secondi, i cronometristi sono costretti a fare una regolazione.

Fino ad ora, questi aggiustamenti consistevano, quando necessario, nell’aggiungere un “secondo intercalare” all’anno alla fine di giugno o dicembre, riportando in linea l’ora astronomica con l’ora atomica. Questi secondi intercalari sono stati aggiunti perché, da quando sono iniziate le misurazioni satellitari, la tendenza generale della rotazione terrestre è stata quella di rallentare.

Dal 1972, gli scienziati hanno aggiunto secondi intercalari ogni anno e mezzo circa, secondo il National Institute of Standards and Technology (Nist). L’ultima aggiunta è avvenuta nel 2016, quando a Capodanno alle ore 23, 59 minuti e 59 secondi, è stato aggiunto un secondo intercalare in più. Ma ora stando a Time and Date, la recente accelerazione della rotazione terrestre ha portato a dover parlare per la prima volta di un secondo intercalare negativo. Invece di aggiungere un secondo, potrebbe essere necessario sottrarne uno. Questo perché nel 2021 la durata media di un giorno sarà di 0,05 millisecondi più breve rispetto alla media di 86.400 secondi. Nel corso dell’anno, ciò porterà ad un ritardo di 19 millisecondi nel tempo atomico.

Spiega Peter Whibberley del National Physics Laboratory nel Regno Unito: «È molto probabile che un secondo intercalare negativo sarà necessario se la velocità di rotazione della Terra aumenterà ulteriormente, ma è troppo presto per dire se è probabile che ciò accada e quando verrà aggiunto. Ci sono anche discussioni internazionali in corso sul futuro dei secondi intercalari, ed è anche possibile che la necessità di un secondo intercalare negativo possa spingere la decisione verso la fine dei secondi intercalari per sempre». Secondo Time and Date, nel 2020 la Terra ha battuto il precedente record di giorno astronomico più breve, che si ebbe nel 2005, per ben 28 volte. Il giorno più corto di quell’anno, il 5 luglio, vide la Terra completare una rotazione di 1,0516 millisecondi più velocemente rispetto agli 86.400 secondi. Il giorno più corto del 2020 è stato il 19 luglio, quando il pianeta ha completato un giro con una velocità di 1.4602 millisecondi superiore agli 86.400 secondi.

Secondo il Nist, i secondi intercalari hanno i loro pro e contro. Sono utili per assicurarsi che le osservazioni astronomiche siano sincronizzate con l'ora dell'orologio, ma possono essere una seccatura per alcune applicazioni che richiedono la registrazione di dati e per le infrastrutture di telecomunicazioni. Alcuni tecnici dell’International Telecommunication Union hanno suggerito di lasciare che il divario tra il tempo astronomico e quello atomico si allarghi fino a quando non sarà necessaria “un’ora bisestile” che ridurrebbe al minimo i problemi alle telecomunicazioni.

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