Cosa rimarrà nella nostra consapevolezza dei diciassette giorni che hanno sconvolto l'Italia? Cosa succederà quando gli incendi in Sicilia saranno spenti perché il maestrale si è sostituito allo scirocco, quando gli alberi di Milano saranno stati messi in sicurezza e i nuovi morti saranno stati pianti e seppelliti? Nel frattempo la ricostruzione del precedente disastro, quello in Emilia-Romagna, è stata pienamente assorbita dal tran-tran post emergenziale della politica italiana. 

La crisi climatica è anche una crisi di attenzione: in Italia un inizio d'estate mite ci aveva illuso, e lo aveva fatto perché siamo stati sufficientemente provinciali da ignorare quello che stava succedendo non solo in Asia, dove c'è stata una primavera climaticamente sconvolgente, ma anche solo in Portogallo e Spagna, dove ad aprile erano stati raggiunti 36.9° e 38.8°C, record del mese per un buon margine.

Secondo la Nasa, sia giugno che quasi sicuramente luglio di quest'anno saranno stati i più caldi da migliaia di anni. I danni sono sempre locali, ma l'unica scala reale su cui confrontarsi con il problema del clima è quella globale, anche nelle settimane per noi normali c'è un altro punto della Terra che sta bruciando.

La circolazione dell’Atlantico

Una ricerca uscita su Nature questa settimana ci ha ricordato che l'ecosistema terrestre è complesso ed è fatto di punti non ritorno oltre i quali non esiste più correzione. Uno di questi appare pericolosamente vicino, più vicino di quanto pensassimo. Si tratta di un fenomeno chiamato AMOC, la circolazione dell'Atlantico meridionale, una piccola ma importante sezione della corrente del Golfo che regola il clima in Europa, già di suo il continente fisicamente più sotto pressione per il riscaldamento globale. Inizialmente, il collasso di questa circolazione era stato inserito negli scenari del riscaldamento globale più remoti nel tempo (diversi secoli) o più catastrofici (+4°C), ma un nuovo studio ha stabilito che questo collasso è più vicino di quanto pensassimo, potrebbe avvenire con le traiettorie attuali di riscaldamento (+2.8°C) in una finestra di tempo su cui c'è incertezza, ma che si trova tra il 2025 (dopodomani) e il 2095, quindi con probabilità di avvenire a metà secolo, tra pochi decenni. È uno scenario dal quale ogni principio di precauzione ci consiglierebbe di stare alla larga: la stabilità di questa corrente è fondamentale per la regolarizzazione del clima, perderla vorrebbe dire moltiplicare gli estremi climatici che abbiamo sperimentato in queste settimane.

Anche se noi subiamo la maggior parte degli eventi avversi sulla terraferma, sono gli oceani che stanno vivendo gli sbalzi peggiori. Da mesi gli scienziati si interrogano sulla spaventosa ondata di calore che sta affliggendo l'Oceano Atlantico, in una striscia che va dalle isole britanniche all'Africa settentrionale. Al largo delle isole Keys, in Florida, questa settimana è stata registrata una temperatura dell'acqua superficiale di 38.43°C, praticamente quella di una vasca pronta per un bagno serale, quasi 10°C più alta delle medie del luogo.

Non esistono tracce statistiche certe sui record globali delle temperature superficiali del mare, ma la più alta mai osservata finora era stata nel Golfo Persico: 37.61°C. Un altro record che cade, anche se non ufficiale. Esisteva però un primato della temperatura superficiale media nel Mar Mediterraneo, risaliva al torrido 2003 ed era di 28.25°C: anche questo è stato battuto, il 24 luglio, lo stesso giorno delle tempeste in Lombardia e della crisi incendi in Sicilia: 28.40°C.

Il peso delle prossime elezioni

Da un punto di vista fisico la Terra è vicina al suo punto di non ritorno. Lo è anche dal punto di vista politico. Tra la fine del 2023 e il 2024 - proprio in concomitanza con il potenziamento del riscaldamento globale causato dall'oscillazione naturale di El Niño sul Pacifico - c'è un trittico di eventi che potrebbero indirizzare la transizione ecologica globale, che in questo momento non è ferma, ma è contraddittoria e in bilico, come una palla da tennis in equilibrio sulla rete e in attesa di capire da che lato cadrà. Il primo è la COP28, il vertice annuale dell'Onu sui cambiamenti climatici, che si terrà a dicembre negli Emirati Arabi. COP28 eredita una serie di fallimenti sul processo globale di decarbonizzazione e si trova a doverli riscattare nel contesto più difficile: in un petrostato e sotto la guida politica di un petroliere, Sultan Al Jaber, amministratore delegato di Adnoc, l'azienda statale di idrocarburi degli Emirati, nominato mesi fa presidente di COP28 in quello che è forse il più pericoloso conflitto di interessi al mondo.

Il secondo e il terzo sono le elezioni nelle aree che in questo momento hanno i piani climaticamente più ambiziosi al mondo. A giugno si vota alle europee e tutto, a partire dal recente voto sulla legge sul ripristino della natura, fa pensare che la campagna elettorale sarà giocata come un referendum sul Green Deal, il piano europeo di neutralità climatica al 2050 avviato nel 2019, dal quale discendono le politiche fondamentali non solo per la decarbonizzazione europea, ma per quella globale. Il phase-out dell'auto termica, il mercato dei permessi a pagamento sulle emissioni ETS, il Cbam, cioè il dazio doganale sulle emissioni contenute nei prodotti industriali importati in Europa. La formazione di una maggioranza e di una Commissione col mandato di smantellarli sarebbe un segnale di arresto per la transizione globale.

Vale lo stesso discorso per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Da un anno, l'economia americana sta vivendo un'accelerazione ecologica grazie all'Inflation Reduction Act votato la scorsa estate, molto avversato dai repubblicani di ogni ortodossia. Di recente è ripreso anche il dialogo tra Stati Uniti e Cina sui cambiamenti climatici, proprio in vista di COP28, forse la linea di negoziato più importante che ci sia per salvare l'umanità da se stessa. Non è filtrato molto, ma da quel poco che si sa, è forte la diffidenza cinese nei confronti della democrazia americana e del suo modo di trattare in modo polarizzato gli impegni internazionali sul clima. Un'amministrazione (Obama) ha firmato gli accordi di Parigi, la successiva (Trump) ne è uscita, la successiva (Biden) è rientrata. E la prossima?

Il governo italiano

In questo scenario, c'è l’attivismo dell'Italia nel sabotare i piani europei, nel trasformare le oggettive difficoltà e durezze della transizione nella nuova versione del populismo anti-migranti o anti-euro e di tirarsi dietro un fronte popolari - destra in questa lettura del futuro. Sulla Nature restoration law non ha funzionato, ma c'è un anno convulso davanti a noi. I segnali sul ruolo che vuole giocare il nostro paese in questa sua fase storica sono evidenti. La controllata di stato Eni, con un amministratore delegato come Descalzi più forte e saldo che mai, ha appena fatto causa a due organizzazioni della società civile come Greenpeace e Recommon per diffamazione.

Segno che sono convinti delle loro ragioni (Greenpeace e Recommon avevano a loro volta citato in giudizio Eni) ma anche del fatto che ritengono di avere un clima politico intorno favorevole ad azioni così muscolari. La nuova bozza del PNIEC (il Piano nazionale integrato energia e clima, cioè il pilastro delle politiche nazionali), mandata alla Commissione europea, non prevede alcuna strategia chiara di uscita dall'uso dei combustibili fossili. Il negoziato dovrebbe durare un anno, potrebbe riguardare questa ma anche la prossima Commissione, segno che il governo italiano prevede di trovarsi presto di fronte un interlocutore meno rigido sulle ragioni del gas e dei carburanti.

È questa la domanda che dobbiamo farci, sulle braci delle pinete siciliane o schivando platani e querce per le vie di Milano colpita da tre tempeste tropicali in dodici ore: cosa succede dopo? Cosa facciamo nelle giornate senza allarmi meteo? È in quelle che si costruisce un futuro sostenibile e meno climaticamente angosciante. 

© Riproduzione riservata