Che i ghiacci antartici fossero sotto pressione era qualcosa di ben noto nella comunità scientifica. Solo guardando alle stime pubblicate da Copernicus per il mese di settembre 2023, si notava come l’estensione giornaliera del ghiaccio nel mar Artico avesse raggiunto l’ennesimo valore più basso rispetto alla media, con una perdita di 18 punti percentuali.

Ma le notizie che giungono in queste ore hanno, purtroppo, qualcosa di inquietante. Infatti la ricerca della British antarctic survey (Bas) pubblicata la settimana scorsa sulla rivista Nature climate change, cambia tutto. Anzi, ci dà un verdetto difficile da accettare: la calotta dell’Antartico occidentale continuerà ad aumentare il suo tasso di fusione per tutto il secolo, indipendentemente da quanto ridurremo l’uso di combustibili fossili e di conseguenza le emissioni di gas serra. Una fusione definita dai ricercatori «inevitabile», con l'implicazione che il contributo dell’Antartide all'aumento del livello del mare potrebbe accelerare rapidamente nei prossimi decenni.

Ghiaccio antartico addio

In questo caso i ricercatori hanno realizzato un modello previsionale per capire quanto la riduzione delle emissioni, anche in uno scenario ambizioso come quello dell’accordo di Parigi, potesse influire sulla fusione della calotta glaciale dell’Antartico occidentale. La simulazione, realizzata dal supercomputer nazionale del Regno Unito, ha mostrato che, anche nel migliore dei casi, la fusione aumenterà tre volte più velocemente rispetto al XX secolo. Il rapido riscaldamento delle acque oceaniche dell’oceano antartico, in particolare nella regione del mare di Amundsen, avrà un ruolo determinante e potrebbe portare, nel peggiore dei casi, a un aumento del livello medio del mare fino a un massimo di cinque metri. Tanto, troppo, soprattutto per tutte quelle aree costiere del pianeta densamente popolate, come possono essere quelle del Sudest asiatico, del Bangladesh, degli Stati Uniti occidentali e di parte del nostro Mediterraneo, solo per fare qualche esempio.

«Era già noto che l’Antartide occidentale fosse in difficoltà: molti dei miei colleghi l’hanno studiata da diversi punti di vista e le notizie sono piuttosto negative», spiega la dottoressa Kaitlin Naughten, prima autrice dello studio. «Tuttavia, con la realizzazione di questo studio, per la prima volta ho dovuto affrontare le implicazioni emotive della mia ricerca personale. Mi preoccupa soprattutto lo sconvolgimento geopolitico che l'innalzamento del livello del mare provocherebbe. Abbiamo visto con la pandemia di coronavirus come un evento globale possa avere conseguenze di vasta portata che inizialmente non ci si aspetterebbe».

Non si tratta quindi di un risultato nuovo, inaspettato. Ma lo sono le implicazioni che si avranno sulla società. Già a settembre infatti un lavoro pubblicato dal Potsdam institute mostrava come il riscaldamento globale odierno fosse già sufficiente a innescare la lenta ma sicura perdita di ghiaccio nelle prossime centinaia o migliaia di anni. Ma specificavano che «mentre un certo numero di ghiacciai in Antartide si sta ritirando, al momento non troviamo ancora alcuna indicazione di un ritiro irreversibile e auto-rinforzante, il che è rassicurante».

Ma allora qual è la differenza con lo studio della dottoressa Naughten? «Conosco bene i risultati del lavoro di Reese, ne sono stata coautrice», sottolinea la ricercatrice. «La loro domanda è leggermente diversa: se il clima si raffreddasse di nuovo ai livelli preindustriali, i ghiacciai antartici continuerebbero a ritirarsi?» In altre parole, la loro definizione di “irreversibilità” presuppone che non ci sia un ulteriore riscaldamento degli oceani. «Il nostro studio, invece, rileva che un ulteriore riscaldamento è inevitabile, indipendentemente dallo scenario delle emissioni, e questo potrebbe cambiare le prospettive per i ghiacciai».

La complessità del continente antartico

Il principale motore della perdita di ghiaccio nell’Antartide occidentale è l’acqua oceanica relativamente calda, che amplifica lo fusione sotto le piattaforme di ghiaccio, ovvero le estensioni galleggianti della calotta glaciale interrata. E la perdita di queste piattaforme può avere un effetto di cosiddetto di feedback negativo (accelerante) sulle sezioni di ghiaccio terrestre. Ed è per questo che queste aree del continente sono sotto stretto controllo da decenni: una rapida accelerazione della fusione, potrebbe infatti indicare un imminente collasso di grandi regioni marine della calotta glaciale dell’Antartide occidentale. Il punto cruciale sta nel fatto che una volta innescate, queste dinamiche necessitano di scale temporali plurisecolari per stabilizzarsi. Di conseguenza sappiamo che, anche riducendo le emissioni, dovremo affrontare un aumento del livello del mare costante: per il solo Mediterraneo ad esempio, ci si aspetta che il livello medio continui a crescere in futuro raggiungendo valori potenzialmente prossimi al metro entro fine secolo.

Non è tempo per la resa

Il dubbio a questo punto è più che lecito: ha ancora senso concentrare gli sforzi internazionali per contrastare la crisi climatica, anche a fronte di questi scenari? Uno studio come questo non rischia di minare le già flebili speranze che abbiamo di attuare politiche reali ed efficaci? «Come scienziati dobbiamo dire la verità su ciò che i nostri dati ci mostrano. I media ci chiedono di dare speranza alla gente, ma come possiamo farlo se la nostra scienza ne è decisamente priva?», si chiede Naughten.

«È comunque importante ricordare che lo scioglimento della calotta glaciale dell’Antartide occidentale è solo uno degli impatti del cambiamento climatico. Ce ne sono molti altri che possono ancora essere evitati se riduciamo le emissioni in tempo», conclude la ricercatrice. «Ad esempio, l’Antartide orientale ha una quantità di ghiaccio dieci volte superiore a quella occidentale, ma riteniamo che questa parte sia generalmente stabile e che lo rimarrà finché le emissioni non aumenteranno ulteriormente». In altre parole, ogni decimo di grado conta, e ogni azione di governi e società per adattarsi sarà fondamentale. Se non per arrestare il fenomeno, quantomeno per rallentarlo.

© Riproduzione riservata