Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, buon anno, questo è dunque il primo numero di Areale per il 2022. 

Siete in isolamento?
In quarantena?
Ve la cavate? 

In ogni caso, auguri, andrà meglio. 

Don’t Look Up (ancora!): raccontare l’inesorabile

Questo numero di Areale si nutrirà e farà riferimento ad altre newsletter. Per esempio, quella di Bill McKibben, uno degli ambientalisti americani più illustri, scrittore, attivista, fondatore del gruppo 350.org.

Non ci sarei tornato, ma il ragionamento di McKibben parla di molte cose che ho in testa anche io, quindi mi (e ci) tocca: riparliamo di Don’t Look Up (ma senza litigare). Brutto film, grande impatto comunicativo, può essere una buona sintesi? 

Dice McKibben che il successo di Don’t Look Up ha avuto una serie di risultati da salutare con entusiasmo, «compresa una nuova volontà da parte di Hollywood di fare commedie che non risultino solo in battute sulle funzioni corporee. È un film intelligente pensato per far pensare. E ci riesce».

Su una cosa sono d’accordo con lui: la parte più riuscita di Don’t Look Up non è la critica alla politica, o al potere delle piattaforme digitali, o ai militari, ma quella sui media e il giornalismo. 

Dunque, problematizzando i giornalisti un po’ fatui di Don’t Look Up, perché non abbiamo prestato finora sufficiente attenzione alla nostra cometa climatica? 

Secondo McKibben le campagne di disinformazione da parte dei produttori di fonti fossili, ovviamente, contano un bel po’. Ma c’è qualcosa di più «sottile» in atto, riguarda l’essenza stessa dell’informazione.

Il giornalismo è alla ricerca di qualcosa di nuovo, sempre, è la sua natura, come nella favola della rana e dello scorpione (perché mi hai punto? È la mia natura). Ed è un bel problema quando hai di fronte la crisi climatica: quello che raccontiamo è un cambiamento geologico senza precedenti, ma lo era anche ieri, e lo sarà pure domani. Impatterà come una cometa, vero, ma nel giro dei decenni, non nel ciclo dei quotidiani o di Twitter. Per come sono strutturate le notizie, non è quasi mai la cosa più importante di quel singolo giorno, di oggi, di domani, di ieri.

«È inesorabile e l’inesorabilità è una cosa difficile da catturare per i giornalisti». Ecco. 

Per questo siamo facili alla distrazione, per questo quella distrazione viene nutrita così bene dall’informazione.

Il giornalista interpretato da Tyler Perry chiede all’astronomo DiCaprio – arrivato per annunciare la cometa e la relativa apocalisse – se esiste la vita nello spazio, si fa una risata, è un modo per alleggerire, dare ritmo, cazzeggiare, ed è una cosa paradossale in quel contesto (la cometa arriva molto più velocemente e visivamente del riscaldamento globale, ha già ritmo, ed è uno dei problemi di fare un film metafora: riesce a far discutere, ma ha dei problemi di funzionamento interno e sospensione dell’incredulità) ma appropriata al nostro. Perché parliamo di scemenze, perché l’attenzione viene deviata, a che scopo? Cosa c’è che non funziona?

Informare sulla crisi climatica richiede – come scrive giustamente McKibben e come tendiamo a fare qui su Areale – «la ripetizione e la costante reiterazione di un ristretto numero di fatti: il pianeta si sta riscaldando velocemente, solare ed eolico possono rallentare questa cosa, queste forme di energia sono bloccate da interessi nascosti».

Però la ripetizione non piace né ai giornalisti né ai lettori, siamo tutti alla ricerca di un «nuovo angolo». La barriera corallina australiana sta morendo, lo sappiamo da anni, ma un giorno magari esce una strabiliante stampante 3D che può creare nuovi coralli. Si parla di quello non perché sia ugualmente importante o perché possa davvero avere un impatto, ma perché è nuovo. La morte degli ecosistemi invece non lo è più. Nuovo vince su già noto. Anche se il già noto è una cometa. 

Il resto del testo è qui.

Pareri e punti di vista (non su Don’t Look Up) (Va bene, anche su Don’t look Up) sono ben accetti!

Biden, un anno dopo – sul clima (e il pugnale alla gola)

Foreign Policy ha pubblicato un articolo dal titolo: Democrazia e mitigazione climatica sono incompatibili?.
Boom.
Pensiero forte, che parte da due casi molto diversi tra loro: Germania e Stati Uniti.

Sulla Germania, il ragionamento è ingeneroso: sono appena partiti, qualunque indebolimento ci sia stato nel patto di governo tra forze così diverse va poi misurato sulla realtà e nel contesto, diamoci e diamogli almeno un anno.

Sugli Stati Uniti si può fare qualche ragionamento in più, perché è passato un anno e soprattutto perché stanno davvero vivendo una crisi della democrazia. Non è una metafora giornalistica, non è una forzatura, sono i fatti, «il pugnale alla gola della democrazia» di cui ha parlato Joe Biden riferendosi all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Leggete Matteo Muzio su Domani su questo argomento

Gli Stati Uniti possono affrontare la loro crisi democratica e contemporaneamente fare la loro fondamentale parte per la crisi climatica? 

C’è dibattito. 

L’attuale vulnerabilità istituzionale e sociale rende tutto molto più difficile, senza sottrarre nulla all’urgenza di doverlo comunque fare. Non c’è rispetto dell’accordo di Parigi senza un massiccio impegno americano, secondo paese al mondo per emissioni, primo per emissioni pro capite, primo per emissioni storiche.

Un’efficace azione per il clima potrebbe essere un modo per ristrutturare la credibilità della democrazia americana all’interno e all’estero, un Superbonus delle istituzioni? Potrebbe. Ma le cose finora non stanno andando come dovrebbero, nemmeno su quel fronte.

L’anno climatico di Biden è l’ennesimo caso di bicchiere mezzo pieno, mezzo vuoto o «meno male che c’è il bicchiere». La frase mantra di clima e politica: poteva andare peggio, ma deve andare meglio. 

Il clima era una delle quattro priorità di Biden per il suo mandato, con la pandemia, la ripresa economica e le tensioni razziali. Rispetto ai quattro anni di Donald Trump, l’acqua trabocca dal bicchiere, stanno e stiamo infinitamente meglio, soprattutto grazie al fatto che Biden non è Trump e grazie alla spinta che ha dato all’inizio del suo mandato (rientro nell’accordo di Parigi, nomina di Kerry, blocco dell’oleodotto Keystone XL) e per la legge sulle infrastrutture passata a novembre.

Per metterla però con le parole Kevin Book, direttore del centro ricerca ClearView Energy Partners, il presidente ha fatto l’opposto di quello che si dovrebbe fare in politica: over-promised e under-delivered, ha promesso troppo e consegnato meno di quello che aveva promesso. La finestra di possibilità che si era aperta con la sua vittoria e con i ballottaggi in Georgia che avevano messo il Senato in condizioni di quasi-maggioranza (col voto di Kamala Harris in caso di pareggio) si chiuderà con le elezioni di midterm a novembre, che saranno probabilmente una mazzata. Questa è la finestra in cui fare tutto quello che c’è da fare perché poi, col Congresso probabilmente in mano ai Repubblicani, sarà tutto molto, molto più difficile. 

L’obiettivo di Biden è di tagliare le emissioni di gas serra del 50 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. Il principale strumento per riuscirci è la super legge chiamata Build Back Better.

Quello che oggi Biden potrebbe portare a casa con Build Back Better nelle condizioni in cui la legge è ora (bloccata al Senato, azzoppata, indebolita) è una serie di misure che porterebbero gli Stati Uniti a metà di quel risultato. E questo nel miglior scenario possibile, cioè che Build Back Better venga approvata senza ulteriori agguati. 

Come sappiamo, il disegno da 1,7mila miliardi di spesa voluto da Biden come architrave della sua amministrazione si è arenato sulla resistenza di un senatore democratico del West Virginia, Joe Manchin, fortemente compromesso con la produzione di fonti fossili di energia. Un figlio del mondo vecchio che resiste a oltranza a difesa dello status quo. Un solo senatore può fermare tutto. Dopotutto, questa è la democrazia. 

Il risultato è che la portata di Build Back Better potrebbe ridursi tantissimo per impatto e capacità di spesa (e come abbiamo visto, sul clima la capacità di spesa è più o meno tutto).

Il negoziato col senatore Manchin priverà Build Back Better del programma sull’elettricità pulita, il sistema di incentivi e disincentivi che avrebbe garantito la spinta decisiva alle rinnovabili nel decennio in corso. Sul tavolo ne rimane una versione da circa mezzo miliardo di dollari, ancora per altro incerta sui tempi di approvazione e sui dettagli. Doveva assolutamente passare prima del vertice sul clima di Glasgow a novembre, ora c’è già chi dice: speriamo di farcela per Cop27 a Sharm El-Sheik (sempre a novembre, ma del 2022). 

Sul bilancio clima di Biden intanto pesano anche l’attivismo presso i paesi Opec per aumentare la produzione di greggio (e la Cop26?) e la nuova ondata di permessi per estrazione di gas e petrolio nel Golfo del Messico (e la Cop26, again?). 

Il collasso ecologico dell’Afghanistan

In Afghanistan la siccità è diventata così grave che alla fine del 2021 migliaia di persone si sono riunite a Kandahar per pregare e invocare la pioggia. La guerra civile, l’abbandono degli americani ad agosto, l’arrivo dei talebani al potere si sono innestati nella peggiore crisi ecologica da trent’anni, arrivata al picco quando la pandemia era già in corso. Un doppio punto di rottura per un paese isolato, allo stremo delle forze e nel frattempo anche scivolato fuori dall’agenda politica globale.

La crisi idrica è entrata nel secondo anno e sta spingendo il paese sull’orlo della carestia. Secondo le Nazioni Unite, più di metà della popolazione è in una situazione di «fame acuta». Secondo almeno due criteri (su tre) dell’Onu, l’Afghanistan sarebbe già legalmente in carestia: la mancanza di accesso al cibo e la malnutrizione. Il terzo è la mortalità: servono due decessi su 10mila abitanti al giorno per parlare ufficialmente di carestia. 

L’agricoltura è però già ora sull’orlo del collasso, i raccolti sono crollati del 40 per cento rispetto a quelli già magri del 2019, il prezzo del grano è salito del 25 per cento e l’origine di tutto è la mancanza di acqua, che colpisce almeno 25 delle 34 province afghane. Sul 60 per cento del territorio l’impatto è estremamente grave, ma non c’è un angolo di Afghanistan che non sia colpito a qualche livello da questa crisi idrica. Il 2022 si preannuncia come un anno terribile.

Secondo la Fao «l’impatto cumulativo della siccità su comunità già debilitate è un altro punto di rottura verso la catastrofe».

Oggi sono tra 19 e 23 milioni le persone che non riescono a fare almeno un pasto ogni giorno, il 60 per cento della popolazione. Per alleviare la situazione, Stati Uniti e Onu hanno allentato parte delle restrizioni che avevano imposto ai Talebani prima che salissero al potere, allo scopo di permettere un accesso più facile per gli aiuti umanitari. 

La crisi climatica è almeno in parte responsabile di quello che sta succedendo nel paese, che in alcune regioni si è riscaldato al doppio della media mondiale (1,1° C al 2021).

Già nel 2019 un rapporto della stessa Fao aveva avvisato che le siccità già affrontate dall’Afghanistan nel suo passato sarebbero diventate più frequenti e potenti a causa del riscaldamento globale e dal crollo della portata delle piogge primaverili.

Come contesto, il 14 per cento dei ghiacciai afghani è sparito negli ultimi due decenni, le riserve d’acqua sono dieci volte inferiori rispetto a quelle dei paesi confinanti e le precipitazioni sono diventate rare, irregolari e violente.

Caso da manuale di ingiustizia climatica: un afghano emette in media 0,2 tonnellate di CO2 nell’atmosfera, mentre un americano circa 15 tonnellate. Il New York Times l’aveva definita a settembre una nuova categoria di crisi umanitaria: quella che si sviluppa quando la guerra incontra i cambiamenti climatici. Un moltiplicatore di conflitti che si alimentano a vicenda.

«La guerra ha esasperato gli effetti dei cambiamenti climatici», ha raccontato alla corrispondente del NYT Noor Ahmad Akhundzadah, professore di idrologia all’Università di Kabul: «Per dieci anni la metà del budget nazionale è andata alla guerra. La nostra attuale situazione è senza speranza».

L’Università di Notre Dame (Usa) ha calcolato che almeno la metà dei 25 paesi climaticamente più vulnerabili sono anche in una situazione di guerra, luoghi come Somalia, Siria, Mali, tutti catturati in una serie di crisi che si alimentano e nutrono a vicenda. 

La Terra come un’isola da salvare

Il 26 dicembre è morto E.O. Wilson, uno dei padri delle scienze della natura e di quello che sappiamo sulla biodiversità. Era considerato «l’erede di Darwin» ed era innanzitutto un grande mirmecologo, cioè uno studioso delle formiche. Un bizzarro incidente di pesca quando era un bambino gli danneggiò in modo permanente un occhio, cosa che gli avrebbe per sempre impedito di studiare gli animali più grandi, quelli che vanno osservati da lontano. Così si dedicò al piccolo e al vicino: le formiche, appunto. 

E.O. Wilson è anche il padre di una disciplina chiamata sociobiologia, è la parte più discussa della sua eredità scientifica: la ricerca di costanti biologiche e genetiche ai comportamenti umani gli aveva fatto guadagnare l’ingenerosa accusa di razzismo. Per un’analisi su questo aspetto, e sul dibattito che è seguito alla sua morte, vi rimando all’ottima newsletter di Davide Piacenza Culture Wars

Qui salutiamo invece E.O. Wilson parlando del suo ultimo sogno, il più grande, quello che si chiamava Half Earth, il progetto di rendere metà della Terra area protetta. Secondo Wilson, infatti, i conservazionisti avevano (e hanno) il difetto di non pensare abbastanza in grande. E per grande lui intendeva appunto almeno mezzo pianeta.

Per l’idea si rifaceva a uno dei suoi primi campi di studio: le isole. Nel 1960 insieme al matematico Robert MacArthur aveva sviluppato un’equazione per calcolare quante specie potesse reggere un’isola in base alle sue dimensioni. Più lo spazio si riduceva, più crollava la biodiversità.

Aveva testato questa ricerca sulle comunità di formiche nelle isolette del Pacifico, su quelle di insetti nelle Florida Keys, e infine aveva allargato l’idea stessa di isola: sono isole anche i blocchi di foresta tropicale che sopravvivono nella distruzione intorno, o la savana africana circondata dai ranch e alle città in Africa, e così via. 

E, infine, l’ultima intuizione: e se la Terra nella sua interezza andasse considerata come un’isola con otto milioni di specie a bordo? Secondo la sua teoria della biogeografia, lo spazio è più o meno tutto quello che conta: più perdiamo habitat, più collassiamo, a un tasso mille volte più alto di quello naturale di estinzione (e infatti, per questo motivo, parliamo di sesta estinzione di massa).

Quanta perdita di habitat può tollerare il sistema prima di collassare? Non lo sappiamo, non vogliamo saperlo. Secondo la sua vecchia equazione, proteggendo solo un decimo della Terra (dove ci troviamo oggi) perderemo a un certo punto metà della biodiversità. Metà. Se proteggessimo metà della Terra, invece, salveremmo l’80 per cento delle specie. 

È l’ultimo sogno di E.O. Wilson. Quando ne parlò la prima volta, sembrava impossibile, ma nel frattempo il mondo ha iniziato a cambiare. Oggi non sembra così irragionevole proteggere il 30 per cento della Terra entro il 2030, anzi, c’è un piano diplomatico concretamente in atto e potrebbe conquistare ancora più forza alla seconda parte della Cop15 sulla biodiversità in Cina di aprile. Insomma, ci stiamo arrivando.

Importante: nell’idea della protezione di Wilson non c’era nessuna conservazione fortezza, nessuna segregazione delle comunità indigene o native, tema del quale abbiamo spesso parlato qui su Areale. «Non c’è bisogno di abrogare i diritti di proprietà e non c’è bisogno di cacciare nessuno», aveva detto in una delle sue ultime interviste, che potete leggere qui.


Siamo arrivati alla fine, piccole segnalazioni. 

C’è una nuova newsletter sugli animali, molto consigliata, si chiama Bestiale, la scrive e invia Leonardo Mazzeo. Ci si iscrive qui.

C’è una nuova puntata di Ecotoni (il podcast forestale che faccio con Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano), e parla di un tema importante e delicato: il lavoro nel mondo boschivo e forestale in Italia. La potete ascoltare qui.

Per questa settimana è tutto, per dubbi, considerazioni, commenti e frecciate scrivetemi: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, dovete scrivere a lettori@editorialedomani.it.

Buon sabato!

Ferdinando

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