Oggetto di molti commenti e innesco per un profluvio di meme sui social, la frase pronunciata da Mario Draghi il 6 aprile scorso («Volete la pace o i condizionatori accesi?») proietta il suo aut aut oltre il dramma della guerra in corso. Una volta che le armi taceranno, quella domanda sarà probabilmente destinata ad accompagnarci nella crisi climatica. Così riformulata: vogliamo evitare ai nostri figli il rischio della catastrofe o mantenere il nostro stile di vita?

Gli eventi pandemia e guerra, con la loro brutale irruzione in questo scorcio di inizio millennio stanno oscurando la crisi climatica, «paradigma di una catastrofe senza eventi», come è stato osservato. In realtà assistiamo a un’accelerazione sul fronte degli eventi legati all’alterazione del sistema Terra. E la possibilità della catastrofe appare sempre più plausibile e sempre meno remota, se si vuole prestare ascolto agli studi scientifici che costituiscono la materia prima dell'ultimo report dell’Ipcc.

Una volta usciti dallo shock energetico (se ne usciremo) provocato dalla guerra, il problema resterà lì, intatto: come facciamo a correre il rischio di annaspare in crisi da carenza energetica? E come facciamo a ignorare l’obiettivo minimo del dimezzamento delle emissioni di CO2 in una manciata di anni?

Due domande che sono in realtà due prescrizioni: devi approvvigionare il sistema che garantisce l’illusione di continuare a vivere per sempre nella comfort zone della modernità carbonfossile. E devi abbattere fino ad azzerarle le emissioni di gas climalteranti per non rischiare il collasso. Siamo completamente in preda a un doppio vincolo. Figlia di un antropologo e “adottata” dalla psichiatria fino a diventare uno dei suoi pilastri, l'idea di double bind si è infine rivelata una chiave di lettura ampiamente adottata negli studi sull’Antropocene e la crisi climatica.

Riferendosi a uno specifico caso italiano, ben prima che la guerra rimettesse indietro le lancette della lotta alla crisi climatica, il fisico Angelo Tartaglia ne ha offerto una descrizione indiretta ma molto chiara: «Mi sfugge che senso abbia realizzare un nuovo grande metanodotto attestato nel Salento, il cosiddetto Tap... Mi sfugge la coerenza con l’obiettivo di dimezzamento delle emissioni di Co2 entro il 2030: forse che il metano, che è esso stesso un gas climalterante, bruciando non produce anidride carbonica?»

Il senso sfugge perché l’ecologia ci manda fuori di testa, parafrasando Bruno Latour; ci getta in quell’oscillazione innescata da due messaggi prescrittivi che «si situano a livelli diversi, agendo uno sull’altro», o contro l’altro.

E non sarà il soluzionismo “green” delle rinnovabili a liberarci dal doppio vincolo. Per alcune banali ragioni già ampiamente indagate dalla scienza e altrettanto ignorate dal marketing (aziendale e istituzionale) dello sviluppo sostenibile: ragioni che vanno dal devastante impatto ambientale richiesto dall’estrazione dei metalli necessari alla nostra transizione ecologica (non certo delle popolazioni che vivono nelle aree del mondo dove vengono estratti), alle emissioni climalteranti dei processi necessari per estrarli.

Viviamo nell’epoca che ci svela l’agentività del non umano, della materia che si fa soggetto capace di azioni irriducibili al sapere-potere della nostra specie. Ma si tratta di una consapevolezza e di uno svelamento impotenti, zittiti dal desiderio. «Se non comprendiamo la modernità come oggetto di desiderio - ha osservato Dipesh Chakrabarty - non possiamo capire perché essa resti apparentemente valida nonostante i suoi numerosi ed evidenti problemi». Siamo inchiodati a una modernità che ci mostra insieme la sua ineluttabilità e la sua tossicità.

Il vincolo, tuttavia, potrebbe essere doppio solo apparentemente. Tra le due prescrizioni comanda la prima: alimentare lo sviluppo che garantisce (fino a quando?) la permanenza nella comfort zone. Se è vero che la crisi climatica “ci parla” da tempo in modo inequivocabile e che la sua origine antropica non è più in discussione (tranne che per qualche “giapponese” asserragliato nel suo isolotto negazionista); è altrettanto vero che la gran parte dell’occidente globale, compreso quello progressista e ambientalista, non si è mai affrancato del tutto dalla verità pronunciata da George Bush senior nel lontano 1992 al Summit di Rio del Janeiro che diede avvio alla serie delle Cop sul clima.

«Lo stile di vita americano non è negoziabile»: con quelle parole l'allora presidente Usa parlava a nome di un’America-mondo, il mondo del benessere carbonfossile. E se a distanza di trent’anni dalla presa di coscienza di Rio «abbiamo ormai fatto altrettanti danni consapevolmente di quanti ne abbiamo causati inconsapevolmente» - come ha osservato David Wallace-Wells - quella sentenza, sostituendo la parola America, potrebbe diventare il motto-zavorra della lotta al riscaldamento globale. Il che non significa che i governi che si siedono ai tavoli delle Cop non si impegnino per ridurre le emissioni all’origine della crisi climatica, ma di certo i loro sforzi non sono mai stati adeguati per abbattere il tabù della way of life.

Al contrario: quello stesso stile di vita che una parte del mondo ha praticato erodendo alle fondamenta la possibilità dell’unico negoziato da avviare e sempre eluso (quello con il sistema Terra), è l’aspirazione legittima dell’altra parte del mondo. Quella parte di mondo come l’India, per esempio, che con l’attuale mancanza di risultati rispetto agli obiettivi prefissati subirebbe un quarto delle sofferenze economiche inflitte al mondo intero dal cambiamento climatico. O quei Paesi nei quali - stando a un report dell’Onu - «nei prossimi 30 anni un miliardo o più persone impoverite o vulnerabili non avranno altra scelta che battersi o fuggire».

A 30 anni da Rio, volendo restare alla cronaca dei giorni precedenti e successivi alla Cop26 di Glasgow dello scorso autunno, non molto è cambiato. Mentre i delegati dei diversi Paesi erano impegnati in tira e molla diplomatici e nella definizione di obiettivi e impegni nemmeno lontanamente parenti di quelli sollecitati dalla comunità scientifica, la Ong tedesca Urgewald presentava uno studio che analizzava l’operato di 887 società petrolifere e del gas. Il rapporto illustra come le grandi società del settore abbiamo investito 168 miliardi di dollari nei tre anni precedenti alla Cop26 per esplorare nuovi giacimenti e che alla data 4 novembre 2021 c’erano 211.849 chilometri di oleodotti e gasdotti in via di sviluppo.

La Ong riportava anche le parole del direttore dell’Iea (l’Agenzia internazionale per l’energia), Faith Birol, secondo il quale «se i governi volessero affrontare seriamente la crisi climatica, non ci dovrebbero essere più investimenti in gas, carbone e petrolio a partire da quest’anno».

Del resto la stessa Iea (non certo un’associazione di attivisti climatici estremisti) pochi mesi prima della Conferenza tra le parti di Glasgow aveva diffuso un rapporto che si apre con queste parole: «Il numero di paesi che annunciano impegni per raggiungere le emissioni nette zero nei prossimi decenni continua a crescere. Ma gli impegni assunti dai governi fino a oggi - anche se pienamente raggiunti - sono ben al di sotto di quanto richiesto per portare le emissioni globali di anidride carbonica legate all’energia a zero entro il 2050 e dare al mondo una possibilità uniforme di limitare l'aumento della temperatura globale a 1,5°C».

Una manciata di giorni dopo le strette di mano al calar del sipario sulla “commedia” di Glasgow, lo stesso presidente Usa Joe Biden, che aveva solennemente promesso di «guidare con l’esempio» la lotta ai cambiamenti climatici, diede il via libera al lancio di un’asta record di licenze per le trivellazioni di gas e petrolio nel golfo del Messico. Doppio vincolo. Dal quale sembra impossibile uscire, almeno fino a quando la crisi climatica da “non evento” diventerà l’unico evento. Potenzialmente definitivo.

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