I media di tutta Europa ci mostrano sempre più spesso immagini di attivisti che gettano zuppa sui quadri o si incollano sull’asfalto. Queste azioni catturano la nostra attenzione: possono suscitare indignazione perché il loro obiettivo è talvolta difficile da comprendere o provocare irritazione perché interrompono la nostra vita quotidiana.

Li chiamiamo atti di disobbedienza civile: il loro scopo è denunciare un’ingiustizia violando intenzionalmente la legge in modo non violento. Un esempio molto noto fu il rifiuto di Rosa Parks di alzarsi dal posto dell’autobus in cui era seduta, violando la legge che prevedeva la segregazione razziale sui mezzi pubblici.

Partecipare a una protesta non autorizzata, ricoprire di vernice nera la sede di un’azienda petrolifera, interrompere un evento sportivo sono tutte forme di disobbedienza civile usate oggi dagli attivisti.

Il nodo della legittimità

Le azioni illegali a volte sono legittime. Si può non essere d’accordo con alcune di esse, ma riconoscerne la legittimità è fondamentale per comprendere per cosa si battono gli attivisti e perché lo fanno in quel modo. Se i governi non lo capiscono, non risponderanno in modo adeguato alla disobbedienza civile.

Perché alcuni attivisti si prendono il rischio di violare la legge? Perché il senso di emergenza che avvertono e la sensazione di non avere altra scelta sono più forti del pericolo di essere arrestati.

Coloro che interrompono la circolazione stradale o si legano a un albero sono spinti da un senso di urgenza e persino da un dovere: difendere il nostro pianeta e le sue specie, compresa quella umana. Cercano di trasmettere ai governi questo messaggio e chiedono loro di agire. Denunciano l’inazione e chiedono giustizia ambientale.

Scelgono la disobbedienza civile perché capiscono che i mezzi legali di dialogo con chi governa non funzionano e non rispondono ai cittadini. Come disse una volta Martin Luther King: «È sempre il momento giusto per fare la cosa giusta».

Purtroppo, di fronte a queste modalità d’azione, molti governi cercano di dissuadere gli attivisti punendoli. In ogni visita che ho fatto in qualità di Relatore speciale, ho ascoltato le stesse testimonianze: vari stati europei adottano legislazioni e politiche per punire più severamente la disobbedienza civile.

Gli errori dell’Italia

L’Italia non è immune da questa tendenza.

Attualmente in Italia vi sono alcuni sviluppi legislativi. Di recente al Senato italiano è stato presentato un disegno di legge che istituisce il nuovo reato di danneggiamento di beni culturali e artistici. Se venisse approvato, consentirebbe l’arresto di attivisti che gettano vernice sugli edifici e la loro condanna fino a un anno di carcere.

Il disegno di legge è stato presentato una settimana dopo la perquisizione delle abitazioni degli attivisti che avevano gettato vernice contro Palazzo Vecchio, a Firenze.

Non è il primo preoccupante segnale della crescente criminalizzazione di chi difende l’ambiente in Italia. Sempre più spesso chi protesta pacificamente contro un’azienda petrolifera subisce multe o persino divieti d’ingresso in una città per essersi opposto a progetti dannosi per l’ambiente.

Un’azione è disobbediente quando viola volutamente la legge. Rosa Parks non avrebbe fatto nulla d’illegale se oggi si fosse seduta nei posti anteriori di un autobus. Paradossalmente, mentre tentano di impedirla limitando l’esercizio delle libertà di espressione, riunione e associazione, gli stati ampliano via via la definizione di disobbedienza civile: sempre più azioni rientrano in questa categoria, diventando illegali.

La disobbedienza ci riguarda

Quando la protesta pacifica è vietata, protestare diventa un atto di disobbedienza civile. Gli attivisti per il clima non dovrebbero subire un divieto d’ingresso a causa delle loro proteste. Dovremmo essere tutti preoccupati su dove andremo a finire.

Senza dubbio la criminalizzazione per legge va a braccetto con una narrazione delegittimante nei confronti di che difendono l’ambiente, descritti come criminali ed «ecoterroristi».

Queste tendenze si rafforzano a vicenda: le parole usate per descriverli influenzano il modo in cui i nostri sistemi legali li trattano.

È questo che ho visto in Europa: più i rappresentanti delle istituzioni usano quelle parole, più i difensori dell’ambiente sono trattati come criminali.

Queste narrazioni e le campagne diffamatorie che le accompagnano sono una minaccia per la democrazia.

La disobbedienza civile è una componente essenziale della democrazia. Coloro che vi ricorrono lo fanno in nome dell’interesse pubblico e nonostante i rischi personali. Dobbiamo proteggerli. Gli stati devono migliorare la loro risposta alla mobilitazione degli attivisti ed evitare di adottare leggi e prassi che li criminalizzano.

Serve un dibattito europeo

Il trattamento giudiziario della disobbedienza civile merita una grande riflessione.

In Canada e in Germania ci sono buone prassi: riconoscendo le loro motivazioni giuste, giudici hanno emesso condanne solo simboliche nei confronti dei pacifici attivisti per il clima.

È necessario avviare una discussione, in tutta Europa, sulle ragioni di coloro che difendono l’ambiente, sul loro ricorso alla disobbedienza civile e su come le autorità debbano adattare conseguentemente il loro operato.

Screditare e punire chi lotta per il futuro del nostro pianeta e per tutte e tutti noi non può essere mai la giusta risposta.

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