Lo scorso febbraio, negli stessi giorni in cui Mario Draghi veniva incaricato di formare il nuovo governo, nel Regno Unito, il professor emerito Partha Dasgupta presentava il suo rapporto al governo britannico, The economics of biodiversity, commissionato due anni prima. Un rapporto chiaro, seppur scritto da specialisti, con un messaggio esplicito: la natura è il nostro asset – il nostro capitale – più prezioso e trascurarla e sfruttarla come si sta facendo oggi non è solo anti-economico, ma ci porterà alla distruzione.

La natura è un capitale che rende, non solo perché ci nutre e ci dà l’aria che respiriamo e le intangibili ricchezze che migliorano il nostro benessere fisico e spirituale, ma perché raccoglie i nostri rifiuti e i prodotti della nostra incuria, riciclandoli (quando può). Noi siamo parte della natura, non altro da essa. E la natura non solo non è riproducibile, ma non è sostituibile ed è solo un’illusione che un giorno potremo farne a meno, quando tutto sarà «tronico» e «bionico».

La natura è un capitale, come lo è quello prodotto (strade, edifici, macchinari) e come lo è il capitale umano (la salute, la conoscenza, le capacità). Ed è la biodiversità che consente alla natura di essere produttiva, resiliente e adattabile, che dà valore a quel capitale.

Il fallimento

Eppure, la nostra «domanda di servizi» alla natura sta eccedendo la sua capacità di fornirne. Tra il 1992 e il 2014, dice il Rapporto Dasgupta, il capitale prodotto per persona è raddoppiato globalmente, il capitale umano per persona è aumentato del 13 per cento, mentre lo stock di capitale naturale per persona è diminuito del 40 per cento. Si è accumulato capitale fisico e umano alle spese del capitale naturale. Questo è ciò che «crescita» e «sviluppo» hanno significato per miliardi di persone. Per continuare a mantenere il tenore di vita attuale della popolazione mondiale, per quanto disuguale esso sia, occorrerebbe più di un pianeta terra e mezzo!

La biodiversità sta diminuendo a un passo insostenibile. L’estinzione delle specie viventi è oggi cento, mille volte più rapida che un secolo fa. Molti eco-sistemi oggi sono degradati al punto di apparire non più in grado di ritornare, anche se lo si volesse, ad uno stato originario. E sono i paesi a più basso reddito, più di quelli ricchi, che oggi si affidano ai servizi della natura che sono più a rischio.

Peraltro, proprio qualche settimana fa, il 10 giugno, è stato pubblicato uno studio di un altro Istituto (Isbes) che avverte come cambiamento climatico e preservazione della biodiversità siano due facce della stessa medaglia. Non si devono necessariamente piantare più alberi, perché gli abeti o gli eucalipti dove c’erano le querce e i faggi rovinano la biodiversità, non l’aiutano.

Il capitale naturale non risponde alle leggi di mercato perché i suoi servizi non sono monetizzati. Grande parte del suo «valore intrinseco» è silente, implicito, nascosto (come nel suolo). Pertanto, si investe più in capitale fisico e umano che non in capitale naturale, perché questo è per lo più, «gratis». Questo non è solo, nel linguaggio degli economisti, un «fallimento del mercato». È un «fallimento istituzionale», dice il Rapporto Dasgupta, su scala globale e locale. I governi pagano per sfruttare la natura, non per preservarla.

Una nuova prospettiva

Dietro a tutto ciò c’è sempre stata la convinzione che, dal momento che ciò che la natura fornisce non è infinito e prima o poi si esaurisce, il progresso tecnologico supererà quella finitezza, quell’esauribilità, trovando qualcos’altro da sfruttare. Come se l’umanità fosse «esterna» alla natura. Ma la società umana è «incardinata» nella natura, non è esterna ad essa. E solo se agiamo di conseguenza potremo evitare il disastro. Perché quando non ci sarà più nulla da estrarre e tutto si sarà esaurito, anche noi verremo ad estinguerci.

Il Rapporto Dasgupta non è stato molto discusso nei circoli politici inglesi, né tantomeno dal governo che pure lo aveva commissionato. E non è stato ovviamente recepito dai nostri media, per i quali l’ecologismo è ancora una «moda verde» e fa notizia solo per parlare di Greta, non di ciò che lei addita. Né, tantomeno, dal Pnrr di Mario Draghi. Perché il rispetto della natura non è contrario al progresso, perché non basta appiccicare l’etichetta di «ecologico» ad un piano perché quei princìpi siano rispettati. I nostri opinionisti, giornalisti e politici dovrebbero leggere il Rapporto Dasgupta (la sintesi è di solo dieci pagine). E discuterne nei loro editoriali e nei loro interventi in parlamento e nelle istituzioni.

Oggi viviamo la quotidianità senza accorgerci quanto stiamo trascurando l’obbligo di essere co-autori della vita insieme alla natura che ci dice di essere viva, ma bisognosa di cure urgenti. Estendendo alla natura il pensiero di Mahatma Gandhi sugli animali, quanto siamo consapevoli che la grandezza di una nazione e il suo progresso morale vanno giudicati dal modo in cui vengono trattati l’una e gli altri? Stiamo riducendo la biodiversità, depauperando il capitale naturale. Eppure, non ne teniamo conto. Forse perché lo riteniamo incommensurabile, quantitativamente irriducibile a qualsiasi termine empirico di riferimento? Un nuovo tipo di pensiero è necessario, partendo da una nuova aritmetica politica dei conti nazionali, superando quella che va sotto il nome di Pil. Qui non si tratta più solo di «superare il feticismo del Pil» di cui hanno parlato premi Nobel con Joseph Stiglitz e Angus Deaton – in riferimento al fatto che il Pil non tiene conto del benessere. Quella discussione è superata. Il Rapporto Dasgupta ricorda che il Pil, com’è oggi calcolato, non tiene conto del deprezzamento del capitale naturale e che una nuova contabilità della ricchezza è necessaria. Insomma, un Pil della Madre Terra.

Peraltro, anche tra gli economisti ci sono voci discordanti, di cui il pensiero mainstream non si cura, come dimostra un lavoro recente di Jason Hickel e Giorgos Kallis, che si chiedono se la «crescita verde» sia possibile. Sperarvi è velleitario, perché la tecnologia non consentirà l’aumento del Pil senza un aumento del consumo di risorse, come invece ritengono gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Non salverà la specie umana l’intelligenza artificiale da sola. Quell’intelligenza deve far coppia con l’intelligenza antropologica, nel segno del melting disciplinare, promuovendo l’incontro e l’integrazione di mappe della conoscenza diverse. Solo così potremo ascoltare la voce della natura, oggi sempre più muta ai nostri orecchi.

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